di Stefano Barbieri, PCI Alessandria da Marx21.it
Sul risultato del Referendum Costituzionale molto si è già detto e scritto anche su queste pagine. Certamente la vittoria del No, per l’ampiezza del risultato e la massiccia partecipazione al voto, può essere ascritta tra le pagine più belle delle storia della sinistra italiana, così costellata invece, ormai da molto tempo, di delusioni e sconfitte che ancora bruciano sulle nostre pelli.
Una pagina bella, va sottolineato per molti aspetti e non solo per il risultato finale; il fenomeno più rilevante di questa consultazione è stata la larga partecipazione dei cittadini al voto, inusuale per un referendum e paragonabile a consultazioni politiche. Gli italiani quindi hanno perfettamente colto la rilevanza di questo voto. Da un lato per le implicazioni costituzionali, l’approvazione di una legge che avrebbe cambiato profondamente il funzionamento delle Camere, dall’altro per le implicazioni politiche, rese assolutamente evidenti dalla personalizzazione sul Presidente del Consiglio.
Questo ultimo aspetto, quello dell’opposizione alle politiche del Governo Renzi, ha indubbiamente favorito un voto contro: dall’analisi dei flussi elaborata da alcuni istituti (in questo caso cito IPSOS) “..risulta una strettissima correlazione tra voto politico e voto referendario. Con alcuni «tradimenti»: se infatti gli elettori del PD sono nella larghissima parte confluiti sul sì (80%), non è stato così per gli elettori centristi che hanno fatto vincere di misura il no (51%), mentre dall’altro lato emerge anche una non secondaria propensione al sì tra gli elettori di Forza Italia.
Il sì ha i suoi punti di forza nelle classi di età elevate, tra i pensionati e gli elettori con bassi titoli di studio, ma con un consenso più elevato, anche se non maggioritario, tra i laureati. In sostanza il profilo è quello, classico, dell’elettorato PD dopo la perdita dell’effetto europeo, che a sua volta riproduce il profilo dell’elettorato dell’Ulivo e prima ancora di DS e Margherita. Con tre differenze importanti: la scarsa presenza tra i ceti medi, segno di un distanziarsi di un segmento che si sente impoverito e in difficoltà, una prevalenza tra i cattolici assidui, un bassissimo appeal tra i dipendenti pubblici. Anche qui segnale di un modificarsi, oramai stabilizzato, dell’area di riferimento.
Al contrario il no è un voto giovanile, e popolare: le punte più alte sono tra i disoccupati e tra gli operai. La stessa differenziazione territoriale sottolinea questi aspetti: il voto massiccio al Sud per il no, con una partecipazione per queste zone segnatamente alta, conferma questa lettura.
È la frattura più volte sottolineata fra popolo ed élite, che abbiamo visto recentemente all’opera con la Brexit e nelle elezioni americane. I segmenti sociali più colpiti dalla crisi, le fette di elettorato deluse dalla politica del governo, hanno determinato ampiamente le sorti del voto. Senza nulla togliere agli elementi di merito, gli aspetti di disagio e rabbia sono stati prevalenti. È stato un voto sociale, non solo politico.”
Da questa analisi, credo si possa dire che sul referendum si sono riproposti una sorta di “riposizionamenti di classe” e la ricostituzione di un blocco sociale classico, tradizionalmente di riferimento per la sinistra e i comunisti. Mi pare, questo, un buon punto di partenza per i nostri ragionamenti: in Italia, su alcune grandi questioni, è ancora possibile aprire delle lotte che trovano il consenso di larghe masse tra i lavoratori e i ceti più deboli della società e che sposano, insieme, questione “particolare” con quella “generale”, come è giusto che sia.
Davvero si poteva pensare che se un Governo ed il suo capo mettono mano alla carta di identità di una nazione e del suo popolo, scommettendo su di essa il proprio futuro politico ed i cardini fondamentali dei diritti, con quella straordinaria, per potenza, influenza mediatica, investimento di denaro, coinvolgimento di interi settori della classe padronale, dei grandi gruppi economici italiani ed internazionali, capi di Stato, Ambasciatori, UE, BCE e compagnia cantante, il risultato parli “al tutto” e non solo al quesito referendario? Infatti così è stato e, fortunatamente per noi, usando un paragone azzardato e probabilmente sbagliato, forse si può dire che le istanze della classe operaia (meglio classe lavoratrice) sono state istanze “generali” per il cambiamento.
Credo inoltre che, contrariamente alla vulgata di pensiero comune, bella sia stata la campagna elettorale che ha preceduto il voto, altro che “spettacolo indecente” o “rissa continua” o “meno male che è finita” come abbiamo sentito da molti soloni intellettuali, anche di pseudo sinistra.
Ritrovare assemblee strapiene e partecipate, rivedere discutere di POLITICA milioni di persone che da decenni guardavano passivamente l’evolversi della politica stessa, riportare insomma alla partecipazioni larghe parti di popolo, comunque la si pensasse, ha riaperto il cuore a tutti coloro che ritengono che la politica sia partecipazione, passione, scontro, se del caso, e poi incontro. Altro, certamente, dalla politica per scelta di interesse.
Bene, dunque.
Ora però dobbiamo fare attenzione a non cadere nell’errore di pensare che la vittoria del NO sia la nostra vittoria, dei comunisti e più in generale della sinistra italiana. Non è così. Quasi 20 milioni di voti ottenuti, ma non tutti parlano la stessa lingua, né stanno dalla stessa parte; sicuramente la sinistra è, tra tutti i vincitori, quella che porta a casa la bandiera della vittoria morale. Una bandiera importante perché è stata la sinistra, con tutte le sue associazioni, dall’Anpi alla Cgil, e i suoi partiti, a difendere la Costituzione senza se e senza ma.
Ma non è, nel complesso, solo una nostra vittoria.
Noi, però, da qui dobbiamo ripartire e provare a mettere in campo una proposta politica e sociale che parli al nostro “NO”.
Che fare dunque? Ripartire appunto dalla Costituzione Italiana, dalla sua necessaria applicazione, a partire dall’art. 1 che cita “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro” e per questo, credo che il prossimo impegno, da affrontare con la stessa forza e la stessa determinazione, non può che essere quello sui referendum abrogativi proposti dalla CGIL per smantellare l’impianto del Jobs Act.
Pur con i limiti che già altri hanno evidenziato, insisto sulla fondamentale importanza dei tre quesiti che saranno sotto posti al voto: «abrogazione disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi; abrogazione sul lavoro accessorio (voucher); abrogazione disposizioni limitative della responsabilità solidale in materia di appalti».
Un testo dei quesiti molto articolato, soprattutto il primo che riguarda il sostanziale ripristino del famoso articolo 18 sul reintegro dei lavorati licenziati. Un risultato, in caso di vittoria del futuro referendum, che segnerebbe un netto passo indietro rispetto alle norme del Jobs Act, una delle leggi che Matteo Renzi ha trasformato nel fiore all’occhiello del suo governo e che va spazzato via dalla legislazione italiana.
L’altra questione riguarda i voucher: concepiti per pagare prestazioni di lavoro accessorio, l’ambito di applicazione dei buoni lavoro è stato ampliato a suon di legge fino ad arrivare alla cifra record di 115 milioni di tagliandi staccati nel 2015. Un numero impressionante che ha di fatto fondato sui voucher l’idea generale dei rapporti di lavoro. Anche in questo caso, si vuole cancellare una norma del Jobs Act. L’ultimo quesito intende abrogare un pezzo della legge Biagi, poi modificata dalla legge Fornero: in caso di violazioni nei confronti del lavoratore, prevede il referendum, a rispondere dovranno essere stazione appaltante e impresa appaltatrice.
Credo che non possa sfuggire a nessuno di noi l’importanza, appunto, della posta in gioco.
Adesso si apre un enorme spazio di lavoro. Un ‘lavoro’ necessario a cui la sinistra non deve sottrarsi e, aggiungo, che andrebbe affrontato senza isolazionismi o pretese di egemonia da parte di nessuno dei soggetti in campo. Bisogna parlarsi e provare a lavorare assieme, anche con altri soggetti politici e sociali con i quali, per esempio, abbiamo camminato fianco a fianco nella battaglia sul Referendum costituzionale. Penso, per esempio, che alcune istanze del Movimento Cinque Stelle in questo contesto siano importanti e debbano trovare ascolto ed attenzione, seppur siamo lontani su molte altre cose a partire dall’idea e dal ruolo del sindacato nel nostro Paese.
Ma ritengo che la possibilità di annullare l’idea del mondo del lavoro contenuta nel Jobs Act, unitamente alla vittoria in difesa della Costituzione di cui già portiamo a casa il risultato, sia il colpo che può aprire una crepa profonda sull’idea iper liberista della civiltà e della democrazia nel nostro Paese.
Concludo con un ultima riflessione: la vittoria del No ha consegnato un nuovo quadro politico, un nuovo governo Gentiloni, fotocopia in peggio del precedente, che non potrà che allargare ulteriormente la forbice tra la politica e il popolo. Su questo argomento, non vado oltre per brevità.
Non durerà, presumibilmente, a lungo, probabilmente il tempo di costruire una nuova legge elettorale che potrà avere come unico scopo quello di scongiurare la vittoria (più che probabile) del Movimento 5 Stelle alle prossime elezioni e la possibilità di vedere di nuovo rappresentare i comunisti e altre forze minori in Parlamento.
Su questo punto occorrerà prestare grande attenzione e chiamare alla mobilitazione ogni sincero democratico affinché si affermi una legge di impianto proporzionale.
Serve però definire da subito una strategia unitaria a sinistra: io credo che il referendum abbia detto, tra le tante cose, che ci sono questioni sulle quali i comunisti e la sinistra possono e devono viaggiare insieme. Ne indico quattro: l’applicazione della Costituzione Repubblicana, la scelta netta della pace contro la guerra, la centralità della contraddizione capitale/lavoro e la necessità di rappresentare le istanze del mondo del lavoro salariato, il rifiuto dei trattati e delle politiche economiche e sociali dell’Unione Europea.
Su questi quattro argomenti possiamo e dobbiamo costruire un Fronte ampio della Sinistra, che rispetti le singole identità e diversità ma le metta sul tavolo per una sintesi unitaria ferma e convinta.
Questo Fronte si collochi per le strade e nelle piazze all’interno del disagio e del conflitto sociale, della povertà in aumento, del mondo del precariato giovanile, di quello dei saperi e della scuola, con l’animo dell’ascolto e senza soluzioni predefinite.
Accetti la sfida elettorale quando sarà, sapendo che dovrà essere alternativo nella pratica e nella politica al PD, perché il problema non sono gli alleati del PD, Alfano e Verdini, ma cosa è il PD stesso; lo faccia sapendo che dovrà ripartire dall’essere una sinistra di opposizione e non di governo, come taluni un po’ scioccamente insistono a fare, perché oggi una sinistra di governo, per rimanere tale, non può esistere. Tenti così di modificare i rapporti di forza in maniera più favorevole, cerchi mediazioni, se del caso, per trovare compromessi positivi possibili sulle singole questioni, come fece il PCI che dall’opposizione conquistò lo Statuto dei lavoratori, la sanità pubblica, le pensioni e altro ancora.
Lo si faccia ed in fretta, perché il voto del 4 Dicembre 2016 ci ha detto che c’è ancora una larga parte di popolo che, forse, ci aspetta. Ma non lo farà in eterno.
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