recensione a cura di Gianni Cadoppi, dipartimento esteri PCI
Finanziarizzazione Vs. economia reale
“Se nel 1970 il valore totale dello scambio valutario era circa equivalente al valore del commercio globale (1:1), nel 2007 il rapporto è diventato di 50:14, ovvero una finanziarizzazione spinta. La globalizzazione finanziaria ha portato allo squilibrio tra creazione di valore reale, ossia la produzione e lo scambio di beni e servizi, e creazione di valore artificiale, ovvero ancorato alla mera circolazione di denaro, spesso solo virtuale, e di titoli derivati. Una dinamica, quest’ultima, che si è incardinata nel sovradimensionamento del settore bancario, soprattutto nei paesi più avanzati dell’Occidente, e nel progressivo indebitamento di paesi, famiglie e individui in giro per il mondo”.
Molto interessante questo passo del libro di Parenti e Rosati da rendere obbligatorio in qualsiasi scuola quadri. Nella finanziarizzazione dell’economia ormai lo scambio valutario non corrisponde più al commercio mondiale, passando da 1:1 a 4:1. I beni e servizi sono aumentati in maniera assai inferiore agli investimenti in beni finanziari che non corrispondono più all’economia reale come era concepita tradizionalmente e ciò ha portato all’esplosione del settore bancario. La globalizzazione finanziaria è stata diretta dagli USA a loro beneficio e al limite dei loro alleati. La sfida a questo rodine proviene dai BRICS ma soprattutto dalla Cina che è la più coerente nel portare una sfida a tutto campo. L’affermarsi della finanziarizzazione è andata di pari passo con l’affermazione dell’ideologia neoliberale, più radicale del liberalismo classico nel rivendicare la non ingerenza statale (a parole). Scrivono gli autori:
“Lo stesso paradigma politico-economico di riferimento in Occidente – il neoliberalismo – continua a godere di buona salute come scelta dominante nei centri di potere malgrado abbia mostrato da tempo tutta la sua fallacia. Diversamente, le potenze emergenti presentano modelli di sviluppo almeno in parte alternativi, anche perché conservano maggiori controlli sui flussi di capitale e promuovono una finanza per lo sviluppo volta a investimenti di lungo termine”.
Con Bretton Woods nel 1944 e il superamento del Gold Standard si pongono le basi del Washington Consensus. Con la nuova parità tra il dollaro e l’oro gli USA impongono il dollaro come moneta di riferimento mondiale. Finanziano il Piano Marshall, la guerra di Corea, la “colonizzazione” economica del Giappone. Con la World Bank fanno prestiti a paesi in via di sviluppo, con il Fondo Monetario Internazionale mantengono la stabilità monetaria e il controllo delle bilance dei pagamenti. Cosa poteva fare la povera Unione Sovietica contro questa Invincibile Armata più potente delle legioni naziste che l’avevano invasa?
Diciamo che la Cina a questo punto ha capito tutto. Socialismo di mercato significa anche inserirsi positivamente nel mercato mondiale acquistando influenza con nuove rotte commerciali come la One Belt, One Road (la Via della Seta), le nuove banche di investimento (Banca Asiatica d’Investimento per le infrastrutture, Banca Brics) per finanziare l’economia reale e la costruzione di infrastrutture e a questo punto diventa indispensabile lo yuan come moneta di riserva. L’entrata stessa della Cina nel WB, FMI e WTO, non a caso contrastata dagli USA, non solo non ha portato al crollo della Cina (come paventava ai tempi il Manifesto) ma oggi molti americani (a cominciare da Trump) vedono in questi fatti l’inizio del temuto tramonto dell’egemonia yankee. Il Beijing Consensus è alle porte: meno finanziarizzazione (ma bisognerà eccellere anche in questo campo) e più economia reale!!!
Il XX secolo: trionfo del socialismo Vs. capitalismo
Secondo il mio parere il fallimento del capitalismo libertarian (sempre che sia mai esistito niente del genere) data dal crollo di Wall Street nel 1929. Il quasi contemporaneo boom dell’economia pianificata di stampo sovietico porta molti economisti ad abbracciare la tesi dell’intervento statale nell’economia. Nel primo dopoguerra in GB c’è una commissione governativa per la pianificazione economica, in molti paesi si parla di programmazione, aziende private d’interesse pubblico vengono nazionalizzate, si ha l’espansione del Welfare State. In USA, negli anni sessanta, dopo una certa quota le tasse arrivano al 99% dei guadagni. Sotto molti punti vista la concorrenza con l’Unione Sovietica porta paradossalmente al trionfo del “socialismo” in Occidente. Il XX secolo è il secolo del trionfo del “socialismo”, lo dico in maniera paradossale, su scala mondiale invece che del capitalismo come vorrebbe la narrazione basata sull’ideologia neoliberista. In particolare gli anni novanta, come scrive James Kenneth Galbraith, il socialismo trionfa in paesi come Cina, India, Vietnam ecc. mentre il neoliberismo semina solo desolazione e morte dove viene applicato radicalmente (vedi Russia di Eltsin). Il capitalismo puro come abbiamo visto era fallito molto prima. Sicché la prima globalizzazione, come dicono Parenti e Rosati, avviene tra i paesi dell’area atlantica legati all’America tramite il piano Marshall. Il primo trattato di libero commercio è il GATT. Non sono i privati ma le istituzioni governative che conducono le danze assieme a istituzioni intergovernative appena create quali il FMI e WB. Questa prima globalizzaizone avviene in un periodo caratterizzato, come abbiamo visto, da un forte intervento statale e da politiche ridistributive di taglio keynesiano.
Kaos Vs. Win Win
La presidenza americana uscente ha puntato piuttosto sullo scontro con la Cina (e la Russia), anche a costo di portare il kaos in Africa del Nord e Medio Oriente per non parlare dell’ormai tramontato Pivot to Asia il paese asiatico ha puntato piuttosto su iniziative Win-Win. Questo ha portato la Cina ad un indubbio successo con l’AIBB che ha coinvolto molti paesi nonostante l’ostilità americana, ma il gigante asiatico ha fatto altresì proposte vantaggiose per gli USA come l’acquisto di aerei Boeing e l’offerta alla Cisco System per l’apertura del mercato cinese.
La Cina sta costruendo la propria esperienza finanziaria dal basso. La moneta cinese che lascia la madrepatria, magari complice la campagna anticorruzione di Xi Jinping, oppure l’instabilità del mercato azionistico che per altro si sta normalizzando nonostante le ondate speculative orchestrate da grandi operatori stranieri, non ha effetti solo negativi poiché va a costruire ponti che interlacciano l’economia cinese con il resto del mondo. La piazza di Shanghai, la cui borsa si unificherà con quella di Hong Kong proprio quest’anno, non può raggiungere lo status di quelle di New York e Londra in breve tempo ma la sfida è stata posta e porterà ad una maggiore integrazione nel mercato mondiale, aumentando inevitabilmente influenza dell’Impero di Mezzo.
La Cina agisce a livello internazionale con prestiti di tipo tradizionale in generale per la costruzione d’infrastrutture che sono alla base dell’industrializzazione, ovvero dell’economia reale. Il finanziamento di questi progetti con il tempo potrebbe rendere meno importanti i centri finanziari tradizionali. Anche aziende come Alibaba (il cui presidente Jack Ma si è recentemente incontrato con il neo presidente americano Trump) danno la possibilità di aprire conti ad aziende direttamente sul WEB aiutando le piccole aziende ossia ancora una volta l’economia reale.
Parecchi sono però i limiti imposti alla finanza cinese dalla Federal Reserve in America e poco spazio rimane in Europa dato l’eccesso di offerta bancaria.
La Cina negozia con gli USA che sono gli attuali padroni del mondo, piaccia o non piaccia, ma ha anche progetti propri. Un’opposizione frontale nelle attuali condizioni sarebbe funesta per la Cina. Lo yuan fino a pochi anni fa era praticamente assente dagli scambi internazionali per diventare già nel 2014 la settima valuta internazionale e la seconda più usata negli scambi tra Cina e il resto del mondo. Nel 2015 ha addirittura superato lo yen passando al quarto posto. La Cina è dal 2013 la prima potenza commerciale mondiale quindi in ottima posizione per sponsorizzare l’uso della propria moneta. Il gigante asiatico ha proposto al mondo strutture che possono avvantaggiare l’utilizzo della sua moneta quali l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) e la Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) che è stata proposta in alternativa al TPP americano (che puntava ad escludere la Cina). Naufragato con l’elezione di Trump il TPP, rimane sul terreno solo la proposta cinese. All’offensiva di Obama impostata con una classica mossa da guerra fredda per contenerla e accerchiarla, la Cina che ha risposto brillantemente aprendo la Via della Seta terrestre come possibile risposta al blocco del Mar Cinese Meridionale, dato che questa passa per i paesi fortemente influenzati dalla Russia, alleato strategico di Pechino. La necessità d’investimenti infrastrutturali ha portato i cinesi a disinvestire nel debito USA, fonte di possibili svalutazioni, per finanziare le infrastrutture della Via della Seta che a sua volta diventa un’arma per rafforzare la diffusione dello yuan. Inoltre la Cina ha intenzione di creare una piattaforma di gestione dei pagamenti internazionali sulla falsariga della SWIFT (egemonizzato dagli USA) ma alternativo a questa.
Yuan Vs. Dollaro
Pechino ha già ottenuto lo status di moneta di riserva perché è riuscita a contenere l’inflazione ottenendo una sostanziale stabilità della moneta. Ma questo non è ancora sufficiente affinché lo yuan diventi concorrenziale con il dollaro. La Cina vuole mantenere un’economia sana controllando le speculazioni finanziarie che si svolgono tutte in dollari. Le attività di scambio delle materie prime ad esempio sono prezzate in dollari e ci vuole tempo perché questo cambi. La Cina cerca quindi un accordo con gli USA che sono restii a cedere il vantaggio che hanno e che consiste nell’essere potenza dominante militarmente con oltre mille basi in giro per il mondo. Solo loro possono permettersi cose simili dato che qualsiasi altro paese avrebbe come conseguenza, dallo stampare moneta senza controllo, un’inflazione galoppante. Lo squilibrio nella bilancia dei pagamenti possono averlo gli USA e nessun altro.
Gli Stati Uniti possono continuare ad avere degli squilibri costanti e crescenti della propria bilancia dei pagamenti semplicemente perché hanno il potere di stampare più moneta per comprare ciò di cui abbiano bisogno. In questo contesto chi tocca i fili muore. E’ successo a Gheddafi ad esempio e oggi sappiamo, da Wikileaks, che aveva sfidato gli USA proprio in campo finanziario in Africa. Stessa cosa per chi minaccia le fonti di approvvigionamento energetico (Saddam Hussein). Il potere degli USA viene dalla seconda guerra mondiale quando i rivali uscirono distrutti economicamente, si pensi alla Gran Bretagna il cui PIL durante la guerra fu finanziato dagli USA per più del 50%. Gli USA non subirono distruzioni e per di più con un’economia che grazie alla guerra si era risollevata dalla Grande Depressione ed era in sovrapproduzione, erano nella condizione necessaria per avviare il Piano Marshall. In questo modo non esportarono solo beni materiali ma anche spirituali: il soft power di Hollywood e dei media ovvero il Sogno Americano.
Il modello cinese
«Se c’è un ‘modello cinese’, la sua più rilevante caratteristica è la volontà di sperimentare con differenti modelli» secondo il professor Dirlik. Infatti si è progressivamente passati dalla Nuova Democrazia maoista, al “comunismo” della Rivoluzione Culturale, al “socialismo di mercato” di Deng, alle “tre rappresentanze” di Jang, alla “società armonica e allo sviluppo scientifico” di Hu e, ancora al “sogno cinese” di Xi il tutto all’interno del “socialismo con caratteristiche cinesi”. Del resto il marxismo essendo una dottrina che si considera scientifica, deve per forza di cose porre al vaglio della pratica le proprie teorie. La sperimentazione quindi deve essere di casa. La Cina è davvero diventata un’economia “capitalista”, nel senso in cui siamo abituati a parlare di Capitalismo in Occidente? La risposta di Xi è chiara: «Alcuni definiscono il riformismo come un cambiamento verso i valori e il sistema politico occidentale. […]. La nostra è una riforma che ci fa proseguire sul sentiero del socialismo con caratteristiche cinesi» (Xi Jinping, dicembre 2012).
Dirlik sostiene che il modello cinese consisterebbe nella volontà di sperimentare vari modelli ma siamo sicuri che ci sia una sola versione del socialismo? In generale quando si giudica un paese in base al socialismo si ha sempre presente, sotto sotto, il modello stalinista. Si può dire che nei paesi socialisti ci sia stato un modello per ogni paese che abbia applicato il marxismo alla propria realtà. In molto paesi dell’est le terre, ad esempio non furono collettivizzate. In quasi tutti era consentito il lavoro in proprio. In alcuni paesi era consentita la piccola impresa fino a 15 dipendenti. A Cuba è tuttora consentito detenere poderi agricoli. Per non parlare della lotta di Edward Kardelj in Jugoslavia contro la “Dittatura dell’offerta” a favore dell’autogestione e dunque del mercato (non c’è autogestione senza mercato). Il socialismo di mercato ha avuto come teorico Oskar Lange in Polonia ma è stato applicato anche e soprattutto in Ungheria. Il modello cinese di socialismo di mercato è stato quello maggiormente di successo dove è stato messo in pratica. Oltre settecento milioni di persone strappate alla povertà assoluta in Cina, ma anche in Laos, Vietnam, Cambogia che hanno seguito il modello cinese.
Secondo Arrighi il modello cinese si è concretizzato nello sviluppo di un modello di mercato non capitalista come preconizzato da Adam Smith o un socialismo di mercato evoluto che ha superato i limiti delle applicazioni classiche in Ungheria con il cosiddetto “socialismo al gulash” oppure in Polonia e Jugoslavia.
Nella percezione popolare la Cina sarebbe un sistema “capitalista autoritario”. Questo tipo di idee è stato instillato da tutta la truppa cammellata del Washington Consensus (università, media ecc.) che ha insistito sul leit-motiv che “non ci sono alternative al capitalismo”. Ciò che c’è di positivo (sviluppo economico) in Cina deriva dalla ricetta liberista ciò che c’è di negativo (autoritarismo) deriva dal comunismo. Le truppe di complemento per questa concezione sono nell’estrema sinistra semplificatrice.
In realtà tutti i tentativi di applicare le ricette liberiste nell’Africa Subsahariana, in America latina (default argentino) e nell’ex URSS (era di Eltsin) si sono rivelati un disastro completo.
Quello dei cinesi è socialismo di (più o meno) libero mercato che significa alto tasso di dirigismo statale (in modo che l’economia sia in mani nazionali e non di Wall Street) e un alto tasso di libero mercato (che significa merci e servizi con costi minimi). Una formula vincente dove è stata applicata: Cina, Vietnam, Laos, Cambogia che hanno, come si diceva, il maggior numero di gente sottratta alla povertà assoluta nel mondo.
Nonostante l’ampia diffusione (in Occidente) delle teorie del collasso cinese la popolarità del sistema socialista e dei dirigenti cinesi sembra essere tra le maggiori del mondo mentre quella dei dirigenti occidentali “democratici” sembra assai bassa almeno secondo le stime dell’americanissima Pew Research. In Cina lo stato non è visto come un nemico o al più uno strumento che favorisca gli interessi privati ma come una garanzia dell’interesse collettivo che prevale sempre sull’interesse del singolo.
La legittimità del Partito Comunista non è data non solo dallo sviluppo economico impetuoso. Ci sono altri elementi che elencheremo. Il Partito ha mantenuto l’unità della nazione dopo lo smembramento cui fu sottoposta dal colonialismo e dall’imperialismo occidentale. La Cina ha però evitato la chiusura su se stessa: gli studenti vanno all’estero e hanno una conoscenza dell’Occidente maggiore di quella approssimativa che ha l’Occidente della Cina.
C’è stata anche la marcia verso una società socialista di diritto che ha portato nel 2005 anche alla libertà di manifestazione come alla capillarizzazione dell’azione del sindacato. Ad esempio lo sciopero è in generale tollerato. La legge del lavoro del 2008 è considerata tra le più avanzate del mondo. La democrazia di villaggio e la proliferazione dei microblog hanno fatto il resto.
Rapidità di decisione con capacità di intervenire su elementi critici, efficienza politico-amministrativa sono la cifra “dell’autoritarismo” cinese. Un sistema di reclutamento e di valutazione delle competenze meritocratiche efficace, che segue la tradizione confuciana evitando il sistema della porta girevole del passaggio del pubblico al privato.
Notevoli successi sono venuti nell’ambito della lotta alla corruzione con una netta diminuzione dei casi di appropriazione indebita da parte di funzionari pubblici. La lotta alla corruzione è molto sentita come il contrasto alle pratiche di esproprio di terre pubbliche da parte di privati dato che queste sono di proprietà collettiva. La legittimazione dunque non deriva solo dallo sviluppo economico pur importante, ma dalla situazione complessiva.
Importante nella valutazione del socialismo cinese la programmazione territoriale. In un primo tempo si sono sviluppate solo alcune zone litoranee che erano vicine a chi investiva ossia i cinesi d’oltremare di Hong Kong, Macao, Taiwan, Singapore. Poi si è passati allo sviluppo altre zone come la Bohai Economic Region. Inizialmente molti investimenti provenivano da cinesi residenti nelle cosiddette Tigri asiatiche e ciò significativamente avvenne nonostante le deboli garanzie per la proprietà privata in Cina. I cinesi d’oltremare, potevano contare su relazioni familiari, conoscenze culturali e linguistiche comuni (guanxi) per ottenere trattamenti privilegiati da funzionari e politici locali. Poi progressivamente Pechino si è aperta anche ad investimenti occidentali o meglio questi sono intervenuti quando non ne potevano fare a meno. Fino al 1990 gli investimenti “cinesi” erano il 75% del totale, mentre ancora adesso, sono oltre il 50%.
La pianificazione territoriale ha reso più autonome le province della Cina portando all’istituzione delle zone economiche speciali, «città e regioni costiere aperte», «zone franche» e decine di «zone di sviluppo economico e tecnologico».
Secondo Arrighi, a guidare i più recenti sviluppi cinesi non sarebbero stati i capitali occidentali, intervenuti solo in un secondo momento, ma piuttosto «la mobilitazione produttiva di una forza lavoro di qualità (in termini di salute, istruzione e capacità di self-management) in un mercato interno in rapida espansione».
Dando mano libera all’imprenditoria piccola e media e alla libera concorrenza, le aziende da 10 milioni sono diventare 70 milioni in pochi anni con un’occupazione di 500 milioni di persone. In un primo tempo si è favorita l’occupazione labor intensive attraverso la decentralizzazione e le TVA, le aziende collettive di villaggio.
Un altro miracolo della programmazione territoriale cinese è stata la Bohai Economic Rim Region che fa capo a Chongqing. Il fattore più importante che ha contribuito alla crescita della città è stata l’iniziativa «Go West» per portare lo sviluppo economico anche nelle zone più arretrate dell’Impero di Mezzo.
Washington Consensus Vs. Beijing Consensus
C’è un capitolo molto interessante del libro di Parenti scritto da una saggista di origine cinese: Ann Lee. Le ragioni per uno yuan globale si devono alle preoccupazioni cinesi dopo la crisi del 2008, in quanto investitore globale soprattutto in euro e dollari. Il rischio di dissoluzione dell’euro e dell’Europa e la crisi del 2008 con il rischio d’insolvenza degli USA hanno messo a dura prova la tenuta dei 3 mila miliardi di dollari di riserve cinesi. L’utilizzo dello yuan nelle transazioni internazionali dovrebbe proteggere il capitale accumulato dai cinesi. Non disponendo di una moneta di riserva la Cina doveva sottoporsi a un vero taglieggiamento dovendo pagare commissioni non solo quando commerciava con gli USA ma anche con paesi terzi ad es. quando Pechino comprava petrolio dalla Russia deve pagare commissioni. Per evitare questo la Cina doveva cercare di pagare in yuan il che però presupponeva la possibilità di far fluttuare liberamente la propria valuta esponendosi alle speculazioni contro la propria moneta. Era obbligatorio quindi farsi accettare come moneta di riserva. La Cina ha dapprima dovuto agganciarsi al dollaro. Siccome le monete subiscono variazioni continue, devono appoggiarsi su grandi istituti finanziari cosa che non tutte le aziende soprattutto piccole possono fare dato che le spese di protezione dalle variazioni sulle quotazioni sono ingenti per questa ragione, si è agganciata al dollaro. La stessa cosa fecero la Germania e il Giappone del dopoguerra le cui monete erano legate al dollaro che a sua volta era agganciato all’oro. La Cina è costantemente accusata di manipolare la moneta, ma ad esempio i salari sono costantemente aumentati facendo apprezzare la moneta stessa (il cui valore dipende anche da tasse regolamenti, produttività ecc.). Un classico della propaganda anticinese sono le pratiche di manipolazione della moneta. Se la Cina lasciasse fluttuare liberamente la propria moneta questa calerebbe e non crescerebbe come pensano i demagoghi scarsamente informati. La Cina ha svalutato in maniera soft prima che il mercato lo facesse in maniera hard. Lo yuan dovrebbe essere quotato tra i 7.5/8.5 yuan per dollaro, non 6.7 come ora. La Cina ha un cambio sopravvalutato, tanto che nel 2015 hanno dovuto bruciare 6-700 miliardi di dollari per sostenerlo. Se liberalizzassero il cambio, lo yuan si svaluterebbe rapidamente portandosi sopra i 7.5. Ora Pechino sta svalutando gradualmente per evitare fughe di capitali favorendo comunque l’ammissione dello Yuan come moneta di riserva per il Fondo Monetario Internazionale.
L’argomento è poi evanescente se si pensa che l’Abenomics ha portato alla svalutazione della moneta giapponese del 60% nei confronti dei competitor senza per altro aumentare l’export giapponese. Lo sganciamento del dollaro senza che lo yuan divenisse prima moneta di riserva poteva portare all’incertezza anche nei confronti dei partner commerciali (in primis gli USA) ma con il nuovo status questo diventa più difficile e potrà mettere sotto controllo la moneta come fa normalmente la Federal Reserve negli USA. Bisogna stare accorti. La finanziarizzazione dell’economia mondiale comporta rischi crescenti: tra il 1874 e il 1930 ci sono state dieci crisi bancarie mentre dagli anni settanta sono diventate 100.
“Con la crisi del 2008 è venuto allo scoperto che il governo americano ha incoraggiato le speculazioni finanziarie che hanno arricchito pochi contro i molti. I politici cinesi credono che il mondo stia guardando a loro per offrire un regime monetario alternativo o comunque più stabile di quello avuto fino a oggi.
Con l’eccezione di Lehman Brothers, la Federal Reserve e il governo degli Stati Uniti hanno chiaramente favorito Wall Street rispetto all’interesse generale. Hanno salvato tutte le maggiori istituzioni finanziarie quando erano in bancarotta, permettendogli peraltro di divenire ancor più pericolose da un punto di vista sistemico. Sotto la supervisione della Federal Reserve e le nuove regole del Dodd-Frank Act, l’attività speculativa è, infatti, cresciuta di sei volte dalla crisi del 2008. Secondo la BIS, i commerci di strumenti derivati, che superavano i 100 trilioni di dollari nel 2005, hanno superato i 661 trilioni di dollari nel 2014”
Interessante questo passo del libro di Parenti e Rosati. Questo interesse si è visto proprio in questi giorni a Davos con il grande successo di Xi Jiping.
L’effetto del denaro dato a poco prezzo ha portato ad una corsa all’investimento finanziario e mentre sono diminuiti radicalmente i prestiti alle piccole e medie imprese per lo sviluppo dell’economia reale.
C’è stata un’unione tra hedge funds e grandi banche per danneggiare con speculazioni l’euro e farlo fallire. La qual cosa è costata tantissimo all’Europa (austerity, salvataggi multipli, quantitative easing).
Mentre i media mainstream sostenevano che il calo del prezzo del petrolio era dovuto al shale gas e al rallentamento della Cina in realtà come rivelato da Aaron Brown del fondo speculativo AQR, la Security and Exchange Commission, l’ente federale statunitense preposto alla vigilanza della borsa, ricattava i fondi d’investimento affinché mettessero sotto pressione la Russia dopo la crisi ucraina e abbassassero il prezzo del petrolio. Naturalmente le misure sul petrolio hanno poi messo in difficoltà tutti i produttori principalmente il Venezuela che vi dipendeva per il suo stato sociale e il Brasile che ha un petrolio molto costoso per via delle piattaforme off-shore. La finanza viene volta per scopi geopolitici contro tutti i possibili competitors degli USA.
Scrivono ancora gli autori:
“È in virtù di questo contesto e di queste dinamiche destabilizzanti che la Cina ha potuto ottenere sia l’appoggio europeo all’inclusione dello yuan tra le monete di riserva internazionale, sia un ulteriore supporto dalle Nazioni Unite per cominciare ad abbandonare il dollaro statunitense come la sola moneta di riserva. Sembra, infatti, che molti paesi pongano una crescente fiducia nella capacità della Repubblica popolare di controbilanciare l’egemonia del dollaro statunitense”.
In sintesi il libro di Parenti e Rosati è utilissimo per capire le tendenze economiche che si aprono in un futuro ormai prossimo.
“Geofinanza e Geopolitica” di Fabio Massimo Parenti e Umberto Rosati. EGEA (29 settembre 2016), EUR 13,60,
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