di Nicola Paolino, PCI Salerno
La decennale storia del Partito Democratico e dei gruppi dirigenti che si sono alternati alla sua guida è la storia politica più complessa d’Italia. E, senza fare un bilancio delle pratiche e delle culture di riferimento di quei gruppi dirigenti, diventa estremamente difficile afferrare il bandolo della matassa dello stesso svolgimento della lotta interna a quel partito. Entrambi i filoni sono appartenuti a due partiti che sono stati determinanti nella costruzione della democrazia italiana. In quella storia, che affonda le sue radici nella Resistenza antifascista e antinazista, i due partiti: la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, hanno dato il contributo principale nella lotta di liberazione della nostra patria. Facendo questo, alla testa del popolo italiano, hanno restituito dignità alla stessa borghesia che con il fascismo mussoliniano aveva potuto continuare ad esercitare la sua dittatura di classe. La scrittura della Costituzione repubblicana, congiuntamente al Partito Socialista Italiano e ad altri partiti minori, è frutto di un formidabile quanto transitorio compromesso sociale, che fu realizzato non senza contrasti e differenze di vedute. Non va sottovalutato che quel compromesso fu un compromesso tra classi sociali antagoniste tra di loro, come la storia del capitalismo ha ampiamente dimostrato. Quelle stesse forze insieme diedero vita a un governo del Paese che durò solo pochi anni, perché gli Stati Uniti d’America scatenarono una possente guerra fredda con lo scopo, non dichiarato, di consolidare il controllo sulla parte occidentale dell’Europa e di appropriarsi delle ex colonie della Germania sconfitta e nel contendere quelle sotto il dominio degli altri Paesi imperialisti europei. Gli Stati Uniti d’America si assunsero lo sciagurato compito di rompere la grande coalizione antifascista mondiale che aveva sconfitto quella guidata dal sogno di dominio totale di Hitler.
In Italia, la Democrazia Cristiana, sostenuta pubblicamente e attivamente dal Vaticano, fagocitata dagli americani, ruppe l’unità nazionale, dando vita a un governo di centro-destra con una chiara matrice antidemocratica, clericale e antioperaia e contro i contadini poveri. La stessa D.C., nel 1953, presentò in Parlamento una legge che tutto lo schieramento democratico e i due partiti operai: PSI e PCI la definirono “legge truffa”. La proposta di legge, che prevedeva l’introduzione di un premio a chi prendeva il 50% dei voti, era chiaramente incostituzionale e fu sonoramente sconfitta. La campagna elettorale che ne seguì si svolse in un clima rovente ed incandescente di <classe contro classe>, così come era stata la lotta di massa vittoriosa dei contadini per <la terra a chi la lavora> contro i grandi proprietari terrieri assenteisti, nel dopoguerra, che ebbe come teatro principale il Mezzogiorno. Il Governo varò una <legge stralcio>, non una vera riforma agraria, a cui fece seguito la nascita del <Movimento per la Rinascita del Mezzogiorno> a Pozzuoli nel 1947. Quel Movimento unitario ebbe un ruolo fondamentale perché incrinò fortemente il blocco agrario-industriale dominante. Era parte integrante del <patto di unità d’azione> firmato da PCI e PSI già nel 1934. L’apporto del Patto fu determinante anche per la vittoria contro l’occupante nazista ed il loro fantoccio della Repubblica Sociale Italiana, cosiddetta, e per la tenuta e lo sviluppo dell’unità di un grande e poderoso movimento operaio fino al 1956.
In quel fatidico anno, Pietro Nenni, allora segretario del PSI, in seguito al Rapporto segreto di Krusciov, ruppe drammaticamente il Patto, proclamando polemicamente la propria “autonomia” politica… Questo è accaduto proprio quando lo stesso PCI, guidato da Togliatti, accettò l’indicazione di Krusciov ai Partiti Comunisti Europei di <sperimentare le vie democratiche (e anche prevalentemente parlamentari) al socialismo>, rompendo con la precedente tattica e strategia. Passando dalla via immediatamente rivoluzionaria a quella gradualista delle <riforme di struttura> elaborata ed approvata, sempre nello stesso anno e non senza contrasti, all’VIII Congresso del PCI. E ribattezzata “via italiana al socialismo”. Il fine non fu cancellato. Il carattere operaio dei due partiti fu conservato. La lotta di classe non fu sostituita da un corrosivo <cretinismo parlamentare>. Ed entrambi i partiti rimasero saldamente alla guida della classe operaia, continuando a suscitare un dibattito fecondo e propositivo. L’asse fu sempre la lotta di classe che aveva nella Cgil il pilastro unitario e naturale. Non ci fu nessuna abiura o liquidazionismo! In seguito, però, non mancarono offuscamenti ed eccessi di compromessi, nel Partito Socialista Italiano e anche nel Partito Comunista Italiano. Successivamente, Nenni diede vita ad un’alleanza di centro-sinistra imperniato sulla Democrazia Cristiana. Quel governo di centro-sinistra, a cui ne sono succeduti altri, pur non mettendo in discussione le fondamenta del capitalismo italiano, avviò alcune nazionalizzazioni. Introdusse la programmazione economica e consolidò l’intervento pubblico dello Stato in economia, dando impulso ad un piano di infrastrutture e alla politica dei <poli industriali> nelle aree svantaggiate del Mezzogiorno.
Nel suo insieme, quelle politiche erano state proposte autorevolmente da Pasquale Saraceno e Giulio Pastore, due democratico-cristiani coscienziosi. E non eravamo ancora nel pieno del <miracolo italiano>, cioè con elevato tasso di accumulazione di capitali e con un tasso di sviluppo a due cifre. Saraceno, nel suo saggio del 1952, Lo sviluppo economico dei paesi sovrappopolati, nel capitolo: <L’industria del Nord e la spesa pubblica nel Mezzogiorno> , era giunto a queste conclusioni: <In un paese sovrappopolato, nel quale la popolazione non occupata prende coscienza del suo stato di minorità rispetto alla popolazione restante, l’iniziativa privata non può avere che una funzione complementare rispetto all’iniziativa pubblica; se questa è viva ed è consapevole dei propri compiti, anche l’iniziativa privata si sviluppa; altrimenti essa decade. Non vi è opposizione tra le due, ma la seconda è condizionata dalla prima; quantomeno questo è il quadro che più conviene alla maggioranza della popolazione che non appartiene al gruppo privilegiato degli imprenditori esistenti…>. E concludeva: <La spesa pubblica è, nella sua misura e nella sua composizione, il fattore che più di ogni altro vale a determinare l’entità, la struttura e la distribuzione del reddito della Nazione>.
Il quadro politico diventò avanzato. Il dibattito sulle questioni dello sviluppo equilibrato delle diverse aree del Paese, fra i partiti di massa di ispirazione comunista, socialista e nella componente autenticamente cristiana, assunse argomentazioni meno ideologiche e sempre più di merito. Le diversità di vedute fondamentali sulla società, però, rimasero quasi intatte! Ciascun partito conservò la propria sostanziale autonomia, anche perché il centro-sinistra non aveva dato i risultati sperati dal PSI. Ed è proprio questa circostanza che diede impulso ad uno sviluppo crescente dell’iniziativa delle lavoratrici e dei lavoratori che sollecitavano, riuscendoci, l’iniziativa unitaria di Cgil, Cisl e Uil. Il movimento operaio e sindacale, partendo dall’industria e dall’agricoltura, si estese anche al pubblico impiego. La grande massa critica delle salariate e dei salariati passò dalle rivendicazioni economiche e contrattuali alla lotta per le riforme di struttura. Obbiettivi che mettevano profondamente in discussione il tipo di sviluppo, che aveva dimostrato tutta la sua inadeguatezza, non soltanto sulla questione della distribuzione e della redistribuzione della ricchezza ma anche degli assetti di potere borghese e della sua natura capitalistica.
Era la fase in cui la maggioranza della nuova generazione degli studenti e dei giovani aveva rotto con l’egemonia culturale dominante su tutti i piani, a partire dalla critica ad una presunta autonomia della scienza. In effetti, sempre più asservita agli interessi della classe dominante. Eravamo ormai nel ’68. I partiti di massa che avevano dato vita alla Costituzione repubblicana cominciavano a dare prova di una concreta autonomia dai blocchi militari. Non mancarono certamente né contraccolpi né arretramenti, innanzitutto nella Democrazia Cristiana che nel 1972 diede vita ad un governo di centro-destra, fortemente reazionario. In seguito, nello scenario mondiale, maturò un clima torbido. La contesa tra le due maggiori superpotenze dell’epoca Usa ed ex Unione Sovietica stava entrando dalla competizione pacifica a quella militare. Fu in quel quadro che gli Stati Uniti d’America fomentarono il colpo di stato di Pinochet in Cile, contro il governo Allende che si basava sull’alleanza tra il Partito Socialista e il Partito Comunista. Naturalmente si trattava di un governo eletto dal Parlamento, in seguito a trasparenti elezioni.
Il Partito Comunista Italiano, a sorpresa, propose il compromesso storico con socialisti e cattolici, ottenendo alle elezioni politiche del 1976 un eccezionale, quanto inaspettato, 34%. La DC, comunque, non crollò, raggiungendo il 38% dei voti, mentre il Partito Socialista Italiano da quelle elezioni uscì ridimensionato. Anche perché usciva logorato dalla precedente esperienza governativa, dalla quale il PCI era rimasto estraneo ed oppositore! La D.C., ancora una volta, era rimasta il dominus della politica italiana. Il governo di unità nazionale, nato anche per contrastare la crisi economica iniziata nel 1974, fu avversato dall’estero, da più parti. In quel clima la classe operaia conquistò l’introduzione della Cassa integrazione, vero e duraturo ammortizzatore sociale, negoziato da Cgil, Cisl e Uil con la Confindustria, guidata da Agnelli. Il dispositivo legislativo prevedeva una specifica articolazione per tutte le fasi di crisi economica. Per la prima volta nella storia della lotta fra le classi in Italia, il proletariato ottenne un importantissimo risultato: non rimaneva senza reddito quando chiudeva una fabbrica o quando c’era una riconversione o una riorganizzazione industriale. Il governo, a guida DC e sorretto dal PCI dall’esterno, varò l’equo canone rivendicato da decenni dai sindacati degli inquilini. E questo fu tutto. Nel PCI era prevalsa la tesi dei <sacrifici necessari>. Nel 1977, i Sindacati metalmeccanici Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil ripresero la loro autonoma iniziativa, proclamando lo sciopero dei metalmeccanici, completamente riuscito, che si concluse con una gigantesca manifestazione a Roma. Il malcontento per la politica governativa era molto diffuso. Anche perché la crisi del 1974 era costata il posto di lavoro a circa un milione e mezzo di lavoratrici e di lavoratori. Il compromesso storico diventò rapidamente minoritario nella società e nella stragrande maggioranza degli operai comunisti.
Il PCI fece un bilancio complessivamente negativo di quella esperienza riproponendo una politica di alternativa democratica. Ma la sua disgregazione di classe in fabbrica fu forte. Il pericolo di colpi di stato furono sventati e la stessa generosità di Enrico Berlinguer fu messa a dura prova, anche nel partito, da posizioni di destra e di <sinistra>. Il prestigio di Berlinguer riprese slancio dopo un bilancio critico ed autocritico avviato all’indomani delle elezioni del 1979. In quella nuova fase, Berlinguer andò davanti ai cancelli della Fiat per portare la sua solidarietà e quella del Partito Comunista Italiano ai lavoratori in lotta contro la gigantesca ristrutturazione che costò la perdita di ben 20 mila posti di lavoro. In quella circostanza, un vecchio e stimato dirigente comunista, in un editoriale pubblicato in prima pagina dell’Unità, organo ufficiale del PCI, arrivò a sostenere che le organizzazioni sindacali avevano tirato troppo la corda, affermando che l’accordo che prevedeva i licenziamenti andava firmato prima. Quell’editoriale, però, non fu condiviso dalla maggioranza delle comuniste e dei comunisti. Tant’è vero che Alessandro Natta, in qualità di segretario nazionale del PCI, succeduto a Berlinguer, in un editoriale pubblicato dall’Unità, ebbe a dire <che per un Partito Comunista non c’è nulla di peggio che perdere senza lottare>; tradotto in parole semplici <il Partito Comunista deve fare sempre pieno affidamento sulla volontà della classe operaia e mobilitarla coraggiosamente>.
In quello stesso quadro, un grande movimento di donne e di uomini si era mobilitato per il diritto all’aborto e per il divorzio. All’introduzione di entrambi questi diritti civili, anche borghesi, si scatenò l’oscurantismo clericale della stessa Democrazia Cristiana, che arrivò a contraddire la sua funzione laica nella guida del Paese. All’indomani della caduta del governo di unità nazionale, il neo segretario del PSI, Bettino Craxi, animato da un profondo spirito di rivincita settaria contro il PCI e la parte democratica della DC, rilanciò una politica di centro-sinistra non di tipo progressista. Gli interessi della borghesia furono messi nuovamente al primo posto. Bettino Craxi, che era succeduto a un Francesco De Martino sempre unitario, riuscì a caratterizzare il PSI come un partito della sinistra borghese, con tratti autoritari. In quella occasione, Craxi scrisse un <saggio>, in cui senza alcun fondamento, né analitico né teorico, sosteneva che Proudhon contro Marx aveva ragione. In modo particolare sugli scioperi dei lavoratori. Con quel “saggio”, Bettino Craxi, rompeva con tutta la tradizione del Partito Socialista Italiano che aveva avuto, fino a quel momento, come riferimento il <socialismo scientifico> elaborato da Marx e da Engels. E fu il via ad una sfrenata competizione contro il PCI, non più basata sul rispetto reciproco e sulla ricerca di motivate posizioni politiche e programmatiche, ma sull’anticomunismo. Il fatto gravissimo, per il movimento operaio italiano e la stessa democrazia, fu che riuscì a coinvolgere in quella scelta la maggioranza del gruppo dirigente socialista, soprattutto i più giovani. Pietro Nenni, rimasto fino alla fine lucidamente socialista, nell’ultimo volume dei suoi diari, si disse preoccupato che <la trasformazione stava scomparendo>, riferendosi chiaramente alla <trasformazione socialista della società>.
Sappiamo bene come sono andate a finire le cose, sia per il Partito Socialista Italiano che per il Partito Comunista Italiano. Ironia della storia, quasi contemporaneamente. Craxi ed Occhetto misero ignobilmente in liquidazione con due colpi di spugna, i due gloriosi partiti operai della classe operaia italiana, gettando in un fosso le due bandiere rosse della riscossa proletaria e dell’emancipazione dallo sfruttamento e dalle guerre. Craxi, che non aveva cambiato solo un simbolo di un glorioso partito ma la sua stessa natura di classe e la prospettiva socialista, è caduto poco onorevolmente per mano della magistratura. Occhetto, da parte sua, invece di aprire un giusto, utile e necessario bilancio storico dell’esperienza del comunismo e del PCI, per adattarlo ai tempi, decretò la fine di un gigante politico, arrivando ad affermare, nell’introduzione della prima riunione del Partito Democratico della Sinistra, che <il Comunismo non era più un pericolo> (sic! – proprio così). E dicendo e facendo buttò nella pattumiera della storia l’insostituibile patrimonio teorico, politico ed organizzativo del <socialismo scientifico> dei fondatori e di tutti i grandi comunisti italiani e di tutto il mondo, che lo avevano ereditato, difeso e sviluppato! Probabilmente, così dicendo pensava di esorcizzare la nefandezza di cui era stato autore; arrivando a sostenerne una sorta di definitiva irreversibilità.
Quei due colpi mortali, vibrati a tradimento, contro l’intera storia, fatta di avanzate e arretramenti, lasciarono tutto il popolo italiano senza guida teorica, politica ed organizzativa. E fu la cosiddetta seconda Repubblica che, sostituendo un sistema elettorale prevalentemente maggioritario al sistema elettorale proporzionale, finì per spianare la strada a Silvio Berlusconi ed alla nascita del berlusconismo, con tutto il suo programma reazionario e piduista controriformista. Altro che <gioiosa macchina da guerra> di infausta memoria <occhettiana>! La liquidazione dei due partiti operai diede vita ad una lunghissima diaspora nella sinistra storica ed in quella nuova. Da allora nessun gruppo dirigente, vecchio o nuovo, è ancora riuscito a costituire un nuovo Partito Comunista di massa o un Partito Socialista degni di questi nomi. I tentativi, alcuni anche sinceri ed autentici, ci sono stati, ma la diaspora è ancora in atto. L’impegno unitario, teorico e politico è rimasto vivo nelle coscienze e nella ricerca delle soluzioni adeguate all’oggi ed è stato di nuovo rilanciato! Un bilancio storico completo delle esperienze passate non è stato ancora completato. Non mancano sforzi concreti. <L’analisi concreta della situazione concreta>, di insegnamento leniniano, sempre valido, è ancora di là da venire. Ancora manca una completa capacità metodologica materialistica e dialettica. Non mancano i primi passi. Invece, dopo che i nuovi partiti che si dichiararono, immotivatamente, eredi della parte migliore dei grandi partiti di massa nati dalla Resistenza, ingaggiarono tra di loro una incredibile lotta per la conquista della guida del governo, sottovalutando <il nuovo che avanzava sotto le mentite spoglie delle insidiosissime destre>. Il potere reale rimaneva saldamente nelle mani del nuovo blocco storico a guida borghese monopolista.
Dalle ceneri del PCI nacque il Partito della Rifondazione Comunista che, inizialmente, ricevette un buon riscontro nella società, tra i lavoratori ed i giovani. Anche in questa vicenda non si è ricercata l’elaborazione di alcun organico programma politico, perché secondo Bertinotti <eravamo troppo pochi>. Eppure l’8,6% alle elezioni politiche non era per niente troppo poco. Purtroppo, senza bilancio storico, senza un vero programma comunista e con un partito zeppo di correnti e con un orientamento prevalentemente eclettico, si optò di garantire la governabilità a discapito dei bisogni e dei desideri proletari e popolari. Il centralismo democratico era stato cancellato precedentemente. Fu un crescendo di autoreferenzialità, incapace di fare analisi concrete e proposte per innervarsi alla base di una società sempre più esposta ed indifesa di fronte agli attacchi restauratori del neoliberismo oramai imperante. La ricerca di una nuova teoria rivoluzionaria per l’oggi era tenuta fuori dalla porta, riuscendo persino a far ricadere su di sé le responsabilità e la debolezza intrinseca del neonato centro-sinistra. La tattica fu sostituita dal tatticismo piccolo borghese e la strategia rimase nella memoria degli autentici comunisti. La prevalente personalizzazione della politica fece proselitismi nella parte maggioritaria del gruppo dirigente. La deriva complessiva è sotto gli occhi di tutte e tutti. E i residui gruppi dirigenti, orfani dei partiti storici della vecchia e nuova sinistra, si misero sotto l’ombrello rassicurante dell’ipermoderato Romano Prodi che, però, preferì lasciare l’impresa.
Allora si fece avanti l’ex comunista Walter Veltroni, vice di Prodi e kennediano della prima ora, con la costituzione del Partito Democratico, le cui componenti fondamentali erano i vecchi dirigenti della Federazione Giovanile Comunista Italiana ed ex democristiani, con orientamento riformista. Il collante del partito di Veltroni era il difensivismo dai pericoli delle destre vecchie e nuove. Le parole d’ordine più significative erano: <fare dell’Italia un Paese normale> e delle <opportunità per tutti> mediante un riformismo spicciolo. In realtà, il suo programma politico era “abbellire” l’Italia senza minimamente toccare il potere dei potenti, i loro interessi ed i loro privilegi. Un vero e proprio partito della sinistra borghese che aveva fatto propri i capisaldi delle ricette neoliberiste. Scivolando sempre più lontano dal partito di origine: il PCI, notoriamente basato sulla lotta delle classi e dell’emancipazione dell’Umanità dal capitalismo e per la trasformazione in senso socialista dell’Italia. E doveva essere “un partito a vocazione maggioritaria”, che significa partito interclassista a dominanza borghese, come poi è stato nei fatti. Veltroni, sconfitto da Berlusconi, sia pure con un sistema elettorale nettamente maggioritario, con un ignobile premio di maggioranza, si ritirò dalla politica. Ed in compenso l’Italia è diventata un Paese capitalisticamente normale in cui le diseguaglianze economiche sono in continua crescita e le lotte popolari stanno diventando un ricordo di altri tempi. A Prodi e a Veltroni, entrambi orientati a lasciare intatto il minoritario dominio borghese su tutta la società, sono succeduti alla guida altri esponenti delle due componenti costitutive che, comunque, avevano partecipato ai vari governi dell’Ulivo o del centro-sinistra che, nella sostanza, sono stati nella sostanza la stessa cosa. Sfumature a parte.
Questi gruppi dirigenti, senza mai fare dei veri e propri bilanci politici delle proprie esperienze per ridefinire piattaforme programmatiche che avviassero una qualche trasformazione in favore del Popolo lavoratore, si sono resi responsabili di numerosi atti di governo e legislativi, che hanno sfigurato la società italiana, facendola piombare in un burrone dal quale apparentemente sembra impossibile uscire. Anche grazie ai nefasti vincoli dell’Unione Europea, di cui sono stati protagonisti attivi, che sembrano essere sempre più simili alla mortale camicia di Nesso, mostro della mitologia greca. Questi <nuovi> gruppi dirigenti, mentre nei loro partiti originari erano costretti ad attenersi a regole forti di disciplina, adesso si sono dilaniati e lacerati trasversalmente, cioè in tutti i tronconi residui. Massimo D’Alema, per esempio, da Presidente del Consiglio, colpito da una vergognosa amnesia teorica e politica, insieme a due rappresentanti dell’imperialismo americano ed inglese, Clinton e Blair, ha dato vita alla nuova Nato che, senza un deliberato delle Nazioni Unite, può intervenire manu militari in qualsiasi posto del mondo. D’Alema si è macchiato anche della colpa di aver ordinato i bombardamenti su Belgrado, capitale dell’ex Jugoslavia. Il massimo di elaborazione politica di D’Alema è stata <l’alleanza tra borghesia, classe operaia e cultura>. Figurarsi! Cancellato il fine, cioè il socialismo, l’interclassismo dichiarato è stato, e lo è tuttora, l’approdo costante di ogni scelta politica, sia quando si è costituito il Partito Democratico sia nelle scelte politiche interne che estere.
Così facendo e disfacendo hanno spianato la strada a Renzi e al renzismo che, da <vecchio politicante>, “rotto” a qualsiasi espediente e manovra spregiudicata, è riuscito <a lanciare una vincente <opa di borsa> diventando, in pochissimo tempo, padrone assoluto del Partito Democratico. C’è un brevissimo saggio di Lenin in cui descrive le caratteristiche principali dei bonapartisti della sua epoca: <il bonapartista nella prima fase oscilla tra le classi principali>, poi <fatto il primo passo> diventa <l’artefice principale della borghesia> e poi visto che <è un uccisore di democrazia, attraverso la democrazia> prova a prendere nelle sue mai il potere esclusivo. Lenin consigliava, prudentemente, di impedire al bonapartista di turno di fargli compiere il primo passo (in questo caso l’Italicum). Nel tempo della società dell’immagine e di una potenza mediatica, notevolmente accresciutasi, diventa fondamentale per qualsiasi aspirante bonapartista essere capace di padroneggiare la scena, fino ad apparire un dominatore assoluto e senza rivali. L’identikit dei bonapartisti di Lenin sembra fatta proprio su misura per Matteo Renzi, fatte le debite distinzioni con ciascun bonapartista. Queste caratteristiche, che pochi avevano intuito da subito, non hanno sfiorato per nulla i pensieri di D’Alema e Bersani perché entrambi lo hanno aiutato. Matteo Renzi, invece, aveva capito molto bene quanto fossero diventati deboli i suoi veri avversari all’interno del Partito Democratico e fuori, Berlusconi compreso (vi ricordate quando andò ad Arcore a fargli visita?!). Altro che prima Repubblica o caminetti! Probabilmente in quella occasione, il fallito bonapartista e il potenziale bonapartista, si misero d’accordo anticipatamente sul famigerato <patto del Nazareno>). Per le tentazioni autoritarie di stampo bonapartista l’ostacolo pressoché insormontabile è un sistema elettorale proporzionale, ma soprattutto un gigantesco fronte unico dei salariati dell’agricoltura, dell’industria e dei servizi ed un fronte popolare antifascista.
La rottura che si sta consumando dentro il Pd, da molti ribattezzato il Partito Democratico di Renzi, è tardiva ed inevitabile. Poiché Renzi, da bonapartista incallito, ha assaporato il potere e, in quanto tale, pensa di essere insostituibile, nonostante ripetute e prolungate sconfitte che lui abilmente ha cercato di attribuire ai suoi oramai ex <nemici interni>. A meno che non ci siano immotivati quanto spregiudicati ripensamenti. Per il PD l’illusione è finita. A partite dalla sua pretesa vocazione maggioritaria. Fra gli oppositori di Renzi ed i nuovi venuti fuori in questi mesi, Bersani ha iniziato anche pubblicamente a sottoporre le sue scelte passate ad una riflessione autocritica, che parte dalla giusta preoccupazione dei venti di destra che sono partiti dall’Europa e sono diventati quasi maggioritari negli Stati Uniti d’America, con la vittoria di Trump e del programma trumpista. Non ha tralasciato, infatti, l’accenno di una riflessione sui guasti del neoliberismo e della globalizzazione, mettendo l’accento sulla crescita delle disuguaglianze e delle povertà. Anche su questo non ha rinunciato ad un inizio di autocritica, perché nemmeno lui era riuscito a mettersi i “tappi di cera per poter resistere alle sirene” dominanti della globalizzazione neoliberista del capitalismo mondiale, parte integrante della controrivoluzione restauratrice del capitale.
Nella loro lunga storia questi gruppi dirigenti, avendo contribuito a sopprimere il fine del Socialismo, si sono confrontati, scontrati e divisi soprattutto su questioni di rivalità personali, avendo fatto proprio il punto di vista borghese o piccolo borghese che, al massimo, era provare ad abbellire lo stato di cose presente, ma non di abolirlo. Il dilemma che si presenta a chi, conseguentemente, considera conclusa la lotta al Renzismo, oramai, non è più restare o no nel P.D. di Renzi, per finire per dargli solo una sorta di copertura, ma affrontare la questione principale. Il vero dilemma che si ripropone ad ogni svolta nella moderna storia della lotta delle classi è un altro. Prendere o riprendere in salde mani proletarie le gloriose bandiere rosse dell’emancipazione socialista e comunista e farle di nuovo sventolare, oppure rimanere nel pantano di un riformismo spicciolo o debole, e per questo impraticabile ed inconcludente.
La Storia, quella con la S maiuscola, che i Proletariati, i Popoli e le Nazioni di tutto il mondo sono riusciti a fare per l’eliminazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, per la propria liberazione e la propria indipendenza, ci sta ad indicare l’unica strada da riprendere in questa epoca. Dimostrando a parole e nei fatti di essere capaci di riannodare i fili rossi di un <socialismo scientifico> aggiornato e però sempre più adeguato ai problemi dell’oggi. Altrimenti tutto apparirà una lotta fra vecchi e nuovi ceti politici che si fronteggiano solamente per riprodursi. Ancora una volta sarebbe solamente la riproposizione che <il movimento è il tutto, il fine è il nulla> di Bernsteniana memoria. Il che significherebbe concettualmente, e poi di fatto, affrontare solo e soltanto i problemi della redistribuzione del reddito indiretto, tralasciando i problemi strutturali dei modi di produzione capitalistici, della proprietà privata dei mezzi di produzione che si appropria della produzione sociale, della distribuzione del reddito e dei consumi, che costituiscono le fasi della rotazione (annuale) del capitale.
La Sinistra è tale solo se riesce a riorganizzare un moderno conflitto sociale sulla base di un programma sapientemente elaborato e capace di essere prima di tutto strumento di lotta sociale e anche parlamentare. La Sinistra o è di classe o non è! Chi pensa ancor di sostituirsi all’inevitabile conflitto sociale è oggi destinato nuovamente all’insuccesso. Non ci parla proprio di questo la scissione dal renzismo! E il vento non sta forse riprendendo a fischiare, e non sta ritornando la bufera, le scarpe non sono forse rotte e non bisogna forse andare di nuovo a conquistare la nostra libertà? E non è sacrosanto lottare per il Socialismo, quello autentico, per potere nuovamente sconfiggere la barbarie che non sta solo minacciando ma che sta già tormentando molti popoli?! Il costituente campo progressista nasce per garantire la governabilità capitalista, per abbellire lo stato di cose presente? O si pone l’obiettivo di far saltare le compatibilità capitalistiche per affrontare, dal punto di vista della stragrande maggioranza del popolo italiano, le questioni cruciali perché decisive della sovranità nazionale e del Popolo, per il presente e il futuro?
Il superamento della crisi economica e della ricerca di una nuova identità progressiva, che sia capace di organizzare nuove lotte popolari, possono potenziare di nuovo lo Stato sociale. La delicatissima questione del minaccioso debito pubblico va messa all’ordine del giorno, con ferma determinazione, dal punto di vista della classe lavoratrice contro ogni forma di privilegio, sprechi e ruberie borghesi. La rinascita del Mezzogiorno è condizione prioritaria e necessaria per la piena occupazione e per fare fronte a un reddito minimo per i giovani disposti a lavorare. Senza la riorganizzazione dell’intervento diretto dello Stato nell’economia non è possibile uno sviluppo di tipo nuovo, che sia capace di ridare slancio a tutta l’economia esistente e a trovare la via del riequilibrio tra il Sud, il Centro ed il Nord. Compreso quello delle zone interne di tutta l’Italia. Anche attraverso le necessarie riconversioni industriali e la ridefinizione dei settori culturali, economici e infrastrutturali strategici.
I fatti hanno dimostrato abbondantemente che il mercato capitalistico prepotentemente fa concentrare i capitali in aree sempre più ristrette. Il rinascente nazionalismo, nato come indistinta reazione alla prima crisi dell’attuale globalizzazione capitalistica, nella quarta fase dell’imperialismo, sogna di potersi mettere sotto i proletariati di ogni Nazione. Il suo programma scritto o non scritto è quello di rafforzare il dominio capitalistico da cui poi deve dipendere tutto il resto. Il nazionalismo è il contrario del sano patriottismo e in quanto tale va smascherato e combattuto, da subito e risolutamente. Il nazionalismo revanscista e sciovinista è la moderna barbarie. Viva l’Internazionalismo proletario!