LA GUERRA DI TRUMP*

*di Sandro Scardigli, responsabile questioni internazionali PCI Toscana; introduzione al Convegno di Pisa del 20 aprile, “ UNIONE EUROPEA – ESERCITO EUROPEO – NATO : PER UNA CRITICA RADICALE”

Le posizioni espresse da Trump durante la sua campagna presidenziale hanno portato molti, anche dalla nostra parte della barricata, a ritenere che il futuro presidente avrebbe messo in secondo piano la gestione delle grandi questioni internazionali, concentrandosi su quelle economiche interne. Sembrava che il disegno, sul piano mondiale, fosse quello di un riavvicinamento alla Russia per evitare una sua saldatura economica, politica e militare con la Cina, diminuendo l’accerchiamento nei confronti di Mosca e riducendo l’impegno militare in ambito europeo. Non sembra che le cose stiano andando in questo modo. Per quanto riguarda l’America Latina invece le posizioni di campagna elettorale stanno coincidendo con le scelte politiche concrete: ritorno ad una posizione esplicitamente conflittuale nei confronti di Cuba e politiche apertamente golpiste nei confronti dei Paesi latinoamericani guidati da Governi socialisti e antimperialisti non ancora abbattuti per via elettorale o con un colpo di Stato parlamentare, Venezuela in primis. La logica è quella di riportare l’America Latina ad essere il “cortile di casa” degli USA, zona di sfruttamento delle risorse naturali, riserva di forza lavoro a basso costo e di smercio dei prodotti nordamericani. Per raggiungere questo scopo è fondamentale abbattere la rivoluzione bolivariana e socialista in Venezuela e strappare al suo popolo il controllo e l’uso sociale e antimperialista delle risorse petrolifere. L’idea che mi ero fatto io sulla politica estera di Trump era la seguente: un tacito accordo tra Stati Uniti e Russia in base al quale Washington avrebbe allentato la morsa in Europa e la Russia, con quel che resta dei BRICS dopo il golpe in Brasile, avrebbe lasciato mano libera agli USA in America Latina. Ma le cose non stanno andando così. Evidentemente il complesso militare industriale e il blocco politico imperialista che ne scaturisce sono ben decisi a mantenere la morsa statunitense su tutto il globo terracqueo. Siamo quindi di fronte ad un’Amministrazione protezionista dell’economia nordamericana, ma protesa come e più di prima (apparentemente con una rozzezza e sfacciataggine senza precedenti) all’interventismo politico militare in tutti i continenti, a difesa degli interessi economici e geopolitici.

Il protezionismo è stato il fantasma evocato da Trump nella campagna elettorale per conquistare il voto di consistenti fette dell’elettorato operaio. IL SOLE 24 ORE riporta che il neo presidente “lo fa in una società americana che, secondo lo U.S. Bureau of Labor Statistics, ha perso dal 2001 sei milioni di posti di lavoro manifatturieri, il 33 per cento. Lo fa in un Paese dove le fabbriche sono state strizzate come limoni: per Roland Berger, dal 2000 sono aumentati i profitti (il rapporto fra Ebit e valore aggiunto è salito dal 20% al 30%), ma è diminuita la rotazione degli asset (il rapporto fra valore aggiunto e capitale investito è sceso da 1,1 a 0,8). E quando le fabbriche sono spremute come limoni, i lavoratori soffrono. Ritengono di avere già pagato il conto e votano per Trump”.

L’aumento delle spese militari (che avviene naturalmente a scapito degli altri settori) è strategicamente importante nella sua visione; ma anche politicamente lui ha bisogno dell’appoggio dell’establishment militare.
Il budget militare americano copre intorno al 40-45% del totale mondiale. Gli USA quindi rimangono di gran lunga la principale superpotenza militare a livello mondiale. Detto ciò, il loro margine di vantaggio si sta riducendo in questi ultimi anni, soprattutto da un punto di vista tecnologico e quindi si percepisce, in alcuni ambienti vicini a Trump, la necessità di maggiori investimenti.

Nelle ultime settimane il presidente degli USA ha sferrato un attacco contro la Siria, ha lanciato la guerra nello Yemen, ha sganciato la “madre di tutte le bombe”, come viene chiamata, in Afganistan e adesso minaccia la Repubblica Democratica Popolare di Corea.

Il motivo addotto da Trump per l’attacco missilistico contro un aeroporto militare siriano ha tutti i caratteri della consueta “scusa per la guerra”. Nessuna indagine internazionale, nessun fatto concreto  hanno dimostrato che sia stato l’esercito siriano di Assad ad utilizzare le armi chimiche. Mentre la realtà è che l’esercito di Assad – sostenuto dalla Russia di Putin – sta vincendo sul campo contro l’Isis e contro l’”Esercito Libero” filo americano di 100mila uomini costruito in Siria dagli USA e dai suoi alleati arabi per combattere contro lo stesso Assad.  L’utilizzo di armi chimiche sarebbe un suicidio politico per il governo siriano. A respingere le tesi di Trump, non sono solo il governo di Damasco e la Russia, ma anche molti analisti di politica internazionale nonchè lo stesso vescovo di Aleppo ne mettono in discussione la possibilità. Su quelli che potrebbero essere i veri motivi dell’attacco missilistico è brutalmente sincero il NEW YORK TIMES: “In Siria Trump dovrebbe permettere che l’ISIS sia un mal di testa per Assad, l’Iran, Hezbollah e la Russia, nello stesso modo in cui gli Stati Uniti incoraggiarono i combattenti mujaheddin contro la Russia in Afganistan”.

Propendo per la tesi secondo la quale la frenesia americana di questi giorni verso la Corea del Nord sia legata al fatto che in Sud Corea siamo alla vigilia di elezioni presidenziali che potrebbero essere vinte da un candidato che intenderebbe ridurre la presenza statunitense nella penisola e riprendere i colloqui di pace con il Nord. Ma La Cina non può permettere un accerchiamento militare totale prolungato da parte degli USA e non può permetterlo nemmeno la Russia, che si vedrebbe così circondata totalmente da basi militari nordamericane. Probabilmente lo scopo degli USA è oggi quello di far salire la tensione alle stelle senza poi intervenire effettivamente. Ma se invece compissero un “raid” anche limitato sbagliando però i loro calcoli sul tipo di risposta nordcoreana…la frittata sarebbe fatta. E in un clima come quello che si creerebbe con un conflitto USA-Corea del Nord-Corea del Sud basterebbe un niente per creare “incidenti” irreparabili con Cina e Russia. Fra l’altro l’improbabile ma non impossibile utilizzo di armi nucleari, anche se di bassa potenza e limitato, infrangerebbe un tabù che spianerebbe la strada all’utilizzo di ordigni atomici in altri scenari.

Gli USA, sul piano dell’egemonia economica mondiale, avvertono il proprio indebolimento e declino; il punto è che non sanno come reagire, ad esempio, al titanico progetto cinese di sviluppo economico e rispondono alla loro crisi di egemonia inviando nuove navi da guerra nei mari del Sud e in Corea del Nord.

La crisi mondiale è profonda e la guerra mondiale è una concreta possibilità, un progetto di una parte considerevole dell’establishment USA e della NATO mondializzata.

L’Unione Europea non rappresenta un baluardo contro le tendenze alla guerra mondiale, ma ne è anzi uno degli attori. L’Europa dell’Euro sta diventando sempre più una base strategica di riferimento (quando non diretta protagonista con propri contingenti) per interventi nel Mediterraneo e nel vicino Medio Oriente. La NATO è stata potenziata e adattata alle esigenze di difesa oltre-confine degli interessi economici e geo politici anzitutto degli USA quali capofila di scelte che in più di un’occasione (a partire dall’intervento del 1999 in Jugoslavia in poi) non ha escluso l’uso della forza sullo stesso suolo europeo. Ed è in ambito NATO che l’UE sta compiendo i suoi passi verso la formazione di unità militari europee, come strumento di affermazione dei propri interessi imperialisti ma in un quadro più ampio di coordinamento con l’alleato egemone: gli USA.

Per noi comunisti le scelte dell’Unione Europea in politica internazionale e quelle di austerità e attacco alle classi lavoratrici e popolari, oltre che ai diritti politici democratici, sono strettamente legate fra loro. L’Euro non è una moneta, ma una politica. Saldare lotta contro l’Euro e quella contro la NATO e le basi militari statunitensi sul nostro territorio è indispensabile.

Noi comunisti non proponiamo chiusure nazionalistiche, ma la riappropriazione delle leve politiche dello Stato nazionale da parte dei lavoratori e dei ceti popolari dei singoli Paesi, per contrastare e sconfiggere le politiche di “austerità” liberista imposte con l’Euro da questa Unione Europea. Per fare ciò è necessario che la punta avanzata e cosciente del movimento dei lavoratori europeo – i comunisti -, pensino e attuino iniziative politiche comuni in grado di coinvolgere e mobilitare larghi strati popolari e quella parte della Sinistra che tenta di non essere subalterna alle politiche comunitarie. Si tratta di orientarsi nella direzione della costruzione di un’Europa rovesciata rispetto all’attuale. Un’Europa che vada dal Portogallo agli Urali, dove gli Stati abbiano parì diritti e pari dignità di fatto. Occorre chiarire ed approfondire, a partire da noi, il nesso esistente fra questione nazionale, internazionalismo, lotta per il socialismo e il comunismo, che è la nostra ragion d’essere.

Per usare le parole del nostro segretario nazionale, Mauro Alboresi, occorre “rompere con questa Europa per affermarne un’altra”.

I fatti delle ultime settimane dimostrano una volta di più che non vi possono essere dubbi, da parte di nessuno, sul fatto che il primo nemico dei popoli continui ad essere l’imperialismo statunitense. Da qui occorre partire, anche nel nostro Paese, per ricostruire un’alleanza vasta e militante tra comunisti, forze della Sinistra, democratiche, sindacali, intellettuali, religiose, al fine di rimettere in campo un movimento di massa contro la guerra e l’imperialismo con una parola d’ordine precisa: “Fuori l’Italia dalla NATO! Fuori la NATO dall’Italia!”

 

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