di Bruno Steri, Segreteria nazionale PCI, responsabile Economia
Il frastuono delle nostrane polemiche post elettorali, con l’immancabile corredo di grandi sospetti e piccole ripicche (interne ed esterne al Pd), rischia di far perdere di vista la pesante posta in gioco che sta dietro a tali effervescenze. A metà della scorsa settimana si è tenuto infatti un Consiglio europeo (la riunione dei capi di governo) che ha segnato un importante salto di qualità sul terreno dell’impegno militare ed economico dell’Unione. In primo luogo, grazie anche al nuovo slancio europeista assicurato dalla Francia di Emmanuel Macron, sono stati mossi i primi decisivi passi in direzione della costituzione di un esercito europeo: in tema di politiche militari e di intelligence, si è deciso di avviare una stretta Cooperazione permanente strutturata, di creare un Fondo per la difesa e per lo sviluppo industriale del settore. In secondo luogo, è stata ribadita ufficialmente la proposta di un ministro europeo delle Finanze, capace di “coordinare” gli orientamenti dei Paesi membri in tema di politica economica e, dunque, con una più stringente sottrazione di sovranità agli stessi.
Un tale scatto in avanti è il frutto della rinnovata comunione di intenti tra Francia e Germania, resa possibile dall’evolvere degli assetti politici interni ai due Paesi. In Francia, Macron ha dilatato il centro piegandolo verso destra e ha vampirizzato il partito socialista, ponendosi dunque alla testa di un unico esorbitante ambito che mescola centrodestra e centrosinistra. In Germania, Angela Merkel si avvia a confermare la sua leadership, riproponendo la sperimentata coalizione con l’Spd. Si tratta di due diverse modalità di pervenire ad una medesima sostanza politica: la stabilizzazione di un asse bipartisan ed europeista, in grado di sostenere l’annunciato salto di qualità. Ovviamente anche l’Italia è ora chiamata a fare la sua parte all’interno della pattuglia di testa dell’eurozona: qui sta il principale nodo da sciogliere in occasione delle prossime elezioni politiche. Il resto viene di conseguenza.
Non a caso, un significativo fondo del quotidiano confindustriale a firma di Sergio Fabbrini, uscito lo scorso 25 giugno – giorno dei ballottaggi e, dunque, redatto indipendentemente dall’esito di questi ultimi – ha formulato, senza troppi giri di parole, un perentorio richiamo all’ordine. La politica italiana deve “mettere l’Europa al centro della campagna elettorale” e porsi risolutamente nella condizione di partecipare al nuovo “Patto per l’Europa”, ad oggi prefigurato dall’accordo franco-tedesco. Ciò significa che non è più tempo di rincorrere schieramenti che appartengono al secolo scorso e che mettono insieme il diavolo e l’acqua santa: “a sinistra, chi ha promosso il Jobs Act e chi lo ha contrastato; a destra, chi vuole uscire dall’euro e chi è terrorizzato da quell’uscita” . Lo stesso M5S dovrà “uscire dall’ambiguità”. Quale che sia la legge elettorale con cui si andrà ad elezioni, quale che sia la coalizione che dovrà governare il Paese, l’essenziale è che emerga “una chiara maggioranza europeista” (Come non sbagliare la partita in Europa, Il Sole 24 Ore, 25 giugno 2017).
Come spesso accade, il quotidiano padronale va diritto al sodo. Litighino pure Renzi e Prodi, si dotino pure di una normativa elettorale che abbia un’ispirazione proporzionalista o maggioritaria. Quel che conta è il risultato politico. Se si va verso le “larghe intese”, bene; se, sulla spinta di una nuova legge maggioritaria, si confronteranno due diverse coalizioni, l’importante è che sia chiaro il seminato entro cui ciascuna coalizione dovrà rimanere. Niente pasticci. Pisapia, D’Alema, Fratoianni da un lato, Salvini e Meloni dall’altro sono avvisati: la maggioranza di governo deve essere compattamente europeista.
Il 25 giugno scorso il Pci ha presentato pubblicamente il suo programma. Il segretario Mauro Alboresi ne ha ripercorso le diverse articolazioni, ribadendo con lucidità e nettezza sul piano generale la posizione del partito: no a questa Europa, no alla Nato. Nell’immediato ciò significa tra l’altro che il governo italiano dovrebbe dire di no a qualsiasi aumento delle spese militari (che siano Bruxelles o Donald Trump a richiederlo) ed anzi dovrebbe prevederne un drastico abbattimento. Nel merito, egli ha chiarito che proprio il No agli orientamenti liberisti e antipopolari dell’Ue (e alle loro ricadute nazionali, quali la privatizzazione dei nostri “campioni nazionali”, la controriforma Fornero sulle pensioni, il Jobs Act ecc), deve essere l’indispensabile premessa per dare risorse politiche e finanziarie ai nostri Sì: sì ad un piano del lavoro per un’occupazione buona e non precaria, sì alla difesa e all’incremento del potere d’acquisto dei redditi da lavoro, sì al ritorno di un ruolo pubblico attivo (a cominciare dalla costituzione di un Polo pubblico del credito, che finanzi produzioni socialmente e ambientalmente sostenibili). Siamo consapevoli che la strada non è né semplice né breve. Essenziale è comunque non ripetere gli errori del recente passato: non costruire sulla sabbia, cercare ostinatamente le interlocuzioni possibili.
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