Pubblichiamo l’intervento di Marcella Raiola, Coordinamento Precari Scuola di Napoli all’Assemblea nazionale sulla scuola pubblica del PCI dello scorso 15 Ottobre
La scuola del “turboliberismo”, tra il precoce avvio degli studenti al lavoro e il feroce rinvio del lavoro stabile per gli aspiranti docenti
Carissime e carissimi,
anzitutto un saluto carico di entusiasmo dal fecondo e colorato caos della Napoli ribelle, le cui strade e piazze ancora echeggiano delle entusiastiche voci di migliaia di studenti e studentesse che l’altro ieri hanno imposto energicamente alla città e al paese una riflessione seria e matura sul fallimento della legge 107, con particolare riguardo all’alternanza Scuola-lavoro.
Un abbraccio affettuoso va in particolare all’amica e compagna Dina Balsamo, che ha voluto interpellarmi, cosa che mi dà orgoglio e gioia, perché fossi in qualche modo presente a quest’iniziativa cui tanto più va il mio plauso quanto più è raro trovare forze politiche che abbiano preso ufficialmente atto della centralità della riconversione della Scuola nel programma generale di ristrutturazione neoliberista del paese e, di conseguenza, della centralità della lotta per la Scuola e per la libertà di insegnamento nei processi di attivazione di risposte adeguate da parte di chi si è predisposto ad articolare un efficace piano di resistenza.
Mi rammarico molto di non essere fisicamente con voi, ma gli impegni di lotta, molto serrati, data la simultaneità e multilateralità dell’attacco padronale, sferrato per il tramite delle istituzioni, sono spesso difficili da conciliare con quelli di lavoro, che si accumulano. Oltre alle emergenze vere e proprie che la Scuola quotidianamente impone di affrontare, infatti, come Coordinamento Precari Scuola stiamo seguendo diverse altre vertenze; in particolare stiamo sostenendo, fin da luglio, la lotta dei 4 operai della Hitachi licenziati in tronco dall’azienda quest’estate, allo scopo di assumere, con le nuove regole, lavoratori flessibilizzati, suscettibili di essere trasferiti e licenziati a piacimento.
Siamo arrivati a percepire la lotta di questi operai come nostra senza passare per il filtro dell’elaborazione teorica e senza dover evocare la corale e unitaria reazione che fu posta in essere nel 2010 di fronte all’ignobile referendum con cui Marchionne pretese che i lavoratori di Pomigliano scegliessero tra diritti e sussistenza (io, quell’anno, ebbi l’incarico, come supplente annuale, proprio presso il Liceo “Vittorio Imbriani” di Pomigliano, e ricordo con particolare commozione l’interazione, in classe, con i figli di quegli operai dimidiati tra la necessità di garantire loro un futuro e la volontà di impartire loro una lezione di coerenza e dignità).
Ci siamo presentati al loro presidio, a Via Argine; li abbiamo sostenuti davanti alla Rai e alla Prefettura e poi sotto l’alta gru su cui sono saliti, all’inizio del rovente agosto, resistendo per alcuni giorni, non perché “solidali” con loro, ma perché parificati nell’azzeramento progressivo delle tutele e dei diritti, parimenti defunzionalizzati e mortificati, parimenti ridotti a manovalanza priva di specializzazione e di storia professionale, fungibile e ricattabile.
Quando parlavamo di “marchionnizzazione” della Scuola, prima che l’articolo unico della 107
fosse varato con la fiducia, ci accusavano di essere “ideologizzati”, come se il neoliberismo non fosse un’ideologia, come se esistessero provvedimenti, normazioni e governi puramente “tecnici;
come se le riforme che abbiamo subìto non avessero nulla a che fare con la condanna dei “figli di nessuno” al determinismo sociale e ambientale.
La prova concreta delle intenzioni del governo è venuta dal DOMANDONE renziano del 2015, che ha brutalmente aperto gli occhi di molti, senza tuttavia portare ad una reazione dirimente e dirompente (anche a causa della complicità dei sindacati concertativi). Il governo Renzi ha imposto la 107 spacciandola per una lagizione di posti di lavoro graziosa e inusitata, in tempi di “magra” e di crisi.
I media hanno sostenuto la sua ignobile menzogna, tacendo della sentenza della Corte Europea del 21 novembre 2014 che condannava l’Italia per reiterazione abusiva di contratti a tempo determinato e imponeva, dunque, l’assunzione di quanti, come me, precaria per 15 anni, venivano assunti a Settembre e licenziati a Giugno da più lustri. Costretto ad assumere, il governo ha condizionato il godimento del diritto acquisito all’accettazione del demansionamento e all’imposizione di quella che, con voluta iperbole, è stata definita la “deportazione”, un trasferimento coatto di massa posto in essere con surreali e vergognose modalità, imponendo l’inoltro di una istanza-liberatoria assolutamente non dovuta da parte di chi aveva titolo all’assunzione e la soggiacenza ai capricci di un misterioso algoritmo – di cui nessuno, a tutt’oggi, ha scoperto matrice e criteri operativi -, che a mezzanotte del 1 settembre 2015 ha comunicato a ciascun precario “storico”, la città in cui sarebbe andato a vivere e lavorare lasciando tutto di colpo: casa, famiglia, mutui, figli, interessi, amici e alunni, sempre a 1300 euro al mese e su una classe di concorso nel 90% dei casi diversa dalla propria, o addirittura senza ottenere una cattedra, prestando serivizio come “unità di potenziamento”, cioè come “tuttofare” al servizio del dirigente onnipotente. In prevalenza, e per risparmiare ulteriormente, questi neoassunti hanno fatto i “tappabuchi” a ore, sostituendo colleghi assenti per pochi giorni, a detrimento dei più giovani supplenti e con grave pregiudizio per la propria funzione, dignità e posizione professionale.
Non dimenticherò mai l’angoscia tremenda dei precari in quel ferragosto, tra la paura di essere espulsi dal mondo della Scuola per cancellazione definitiva dalle graduatorie – una paura disgustosamente e artatamente alimentata dalla Giannini, che solo pochissimi giorni prima della chiusura dei termini per la presentazione delle domande, compulsata, chiarì che non c’era rischio di depennamento -, l’ansia di aderire a quello che venne presentato e propagandato come “l’ultimo piano di assunzione” della storia della Repubblica – prendere o lasciare -, i linciaggi di chi, all’oscuro dei meccanismi di reclutamento, non ne comprendeva il deliberato pervertimento da parte del governo, e accusava i precari di scacallaggio sociale e snobismo; l’avvilimento di vedere azzerati i propri sacrifici, la propria laboriosa carriera, di vedersi “scavalcati” da chi non era mai entrato in classe e non aveva mai avuto la Scuola nel proprio orizzonte esistenziale e professionale ma che, trovandosi in fondo a una graduatoria da anni, data la congiuntura economica negativa, si improvvisava docente per avere la certezza di uno stipendio-base.
Il solito gioco del dìvide et ìmpera, nel quale i ministeri dei governi di “nominati” sono stati e sono grandi maestri… Dopo aver attivato, dal 1999, più sistemi di reclutamento in contemporanea (Scuole di specializzazione SSIS, concorsi e abilitazioni “riservate”), per mettere i diversi gruppi di abilitati l’uno contro l’altro a contendersi posti che, dopo i tagli Gelmini, non sono mai più stati reintegrati, con la domanda del 2015 hanno aperto la decisiva e ultimativa lotta fratricida tra chi ha sottoscritto il patto e chi non ha voluto o non ha potuto.
Una lacerazione insanabile, una ferita di cui oggi tutti vedono la suppurazione: caos organizzativo, tale da indurre il 50% dei presidi a non effettuare la “chiamata diretta”, abbattendo uno dei cardini della Scuola-azienda, quello della formazione, da parte del “capo”, della sua “squadra”, con tanti saluti al pluralismo, alla trasparenza e alla libertà di insegnamento garantita dall’art.33; discontinuità didattica aggravata dai comprensibili e comprensibilmente contestati rientri dal Nord al Sud dei numerosi “deportati”; balcanizzazione della categoria, con proliferazione di azioni e missioni “diplomatiche” volte a difendere interessi corporativi, con rischio di derive clientelari e voto di scambio (non so se ricordate il decreto 356, che istituì la graduatoria dei cosiddetti “inidonei”, emanato a mezzanotte del giorno prima delle elezioni europee su pressione di precari PD siciliani, che andava a modificare retroattivamente il bando del concorsone indetto da Profumo, espletato due anni prima!); utilizzo, sul sostegno, di docenti senza titolo specifico; impiego di docenti in ordini di scuola diversi da quelli in cui per più di un decennio avevano prestato servizio.
Tutto questo, mentre il governo si riempiva la bocca di “qualità”, diffamava sistematicamente i professori, dipinti come lavativi ingrati incapaci di apprezzare il “regalo” che si stava loro facendo, e si preparava a stracciare la Costituzione, sicuro di riuscire nel suo intento, dopo avere distrutto l’organo costituzionale a detta di Calamandrei più importante: la Scuola pubblica.
Ma la lotteria dell’algoritmo non è stata che l’inizio di un’aggressione condotta scientemente e devoluta allo scopo di piegare la categoria più pericolosa e, nonostante tutti i suoi limiti, più tenace nell’opporsi allo sfascio dei diritti costituzionalmente garantiti. Il governo Gentiloni, illegittimo come quello Renzi, anzi, di più, il suo partito essendo stato delegittimato e mandato a casa da 22 milioni di “NO”, ha varato in fretta e furia i decreti attuativi della 107.
Leggere quello relativo al reclutamento, il decreto 59 approvato il 13 aprile 2017, e la procedura folle che vi è esposta, mi ha paradossalmente rinfrancato, perché credo che gli aspiranti docenti non accetteranno di sottoporsi al percorso a ostacoli previsto per loro, chiaramente finalizzato allo sfruttamento e al taglio ulteriore degli investimenti sull’istruzione, e mascherato con la trita retorica del merito, già smorzata dagli effetti divisivi e iniqui del “bonus” docenti, nonché dal moralistico postulato della formazione permanente, che riguarda solo chi vuole salire in cattedra, mentre per avere un dicastero pare che basti essere a malapena scolarizzati!
Allora: pronti? Poniamo che una giovane laureata voglia fare l’insegnante. Dovrà allungare i tempi della laurea (un semestre all’anno) per conseguire 24 crediti formativi in materie psico-antropo-pedagogiche, oppure dovrà spendere almeno 500 euro (tetto massimo fissato) per comprarli. Solo la metà potrà essere acquisita presso università telematiche. L’altra metà dovrà essere conseguita, sempre a pagamento, presso Università statali, così saranno i risparmi delle famiglie o i proventi dei lavoretti a nero dei giovani che andranno a finanziare un po’ gli atenei in bolletta e un po’ i loro concorrenti. Dovrà poi avere almeno il livello B2 di inglese e una certificazione di competenze informatiche. Con tale bagaglio, potrà accedere al concorso regionale o interregionale, che non le aprirà la porta al precariato di durata variabile, ma solo l’accesso al FIT, un triennio di formazione paragonabile a un dilatato e complicato “anno di prova”, nel corso del quale la nostra aspirante verrà pagata in conformità alla quantità di lavoro svolto, a partire da una contrattazione separata.
I concorsi verranno banditi sempre dietro ordine del MEF, perché continuerà a vigere la L.449/97, che condiziona il turn-over dei docenti al parere favorevole del ministero dell’economia e finanza, appunto. I docenti mancano e mancheranno, ma per finanziare i posti ci saranno sempre spiccioli. Sennò le banche come le salviamo? E i torturatori libici che ci tolgono dai piedi i fastidiosi migranti, con che li paghiamo? Ah! Non bisogna dimenticare che per le attività di tutoraggio e di valutazione dei candidati, svolte da presidi e docenti delle scuole d’ambito in cui essi verranno sbattuti a fare il loro infinito tirocinio da insegnanti di serie C, non è dovuta alcuna spettanza: tutto gratis, insomma: è tutto compreso nello stipendio-base!
Per ognuno dei tre anni, l’aspirante docente dovrà seguire corsi di formazione riguardanti le stesse conoscenze e competenze che aveva dovuto dimostrare di possedere per accedere al concorso. Competenze e conoscenze che costituiscono il requisito d’accesso al concorso, dunque, diventano contemporaneamente e illogicamente strutturali e integrative, basilari e accessorie, incoative e terminali!
Il triennio di specializzazione post-concorso accresce e prolunga la ricattabilità degli aspiranti docenti ed è costituito da attività tendenti ad addestrarli all’applicazione dei metodi e delle pratiche che la 107 ha statuito essere le sole valide per la formazione (non più istruzione, appunto), dei discenti, dall’invalsi all’uso forsennato delle tecnologie, fino al CLIL, una vera boiata, che consiste nell’impartire in inglese lezioni di materie “non linguistiche”, come se esistessero materie che hanno una extraterritorialità rispetto alla trasmissione linguistica e come se insegnare in inglese, con evidente e prevedibile impoverimento lessicale, concettuale, culturale e critico, fosse eo ipso un valore aggiunto! Dovremmo dunque insegnare ai giovani la deferenza verso la lingua dei padroni, di chi crede di detenere legittimamente il controllo politico ed economico del pianeta e, nel contempo, prepararli perché si sentano pronti a fare le valigie e a cercare lavoro qualificato altrove, visto che qui si preferisce investire in guerra e lasciare all’evasione fiscale quanto basterebbe a risanare tre volte il bilancio.
Praticamente, hanno trovato il modo di costringere i futuri insegnanti a fare sia il concorso che la scuola di specializzazione sperimentata tra la fine degli anni ‘90 e il 2012, che, però, da biennale, diventa addirittura triennale. Senza scendere in ulteriori dettagli, è chiaro che siamo di fronte a un percorso punitivo, che millanta di essere iperselettivo ma che risponde a due principali esigenze:
1) Ridurre all’osso le spese per l’istruzione, finanziando, nel contempo, le università e gli innumerevoli enti di formazione preposti al plagio dei docenti, cui vanno inculcate le parole d’ordine di un managment imprenditoriale d’accatto applicato maldestramente alla didattica;
2) Tenere i docenti in uno stato di permanente “minorità”, di sudditanza psicologica e professionale, per farli sentire sempre “matricole”, sempre in “fieri”, sempre sotto tutela, inadeguati, inesperti, impreparati, giustificandone, così, anche la retribuzione minima e il trattamento vessatorio agli occhi della popolazione, che è interesse del potere aizzare contro la categoria.
Questo palese e vile tentativo di smorzare o neutralizzare il potenziale politico e naturaliter “eversivo” di chi si occupa della trasmissione dei saperi, differendo nel tempo il conseguimento del ruolo, estenuando, imbavagliando e frustrando i docenti nelle loro aspettative di stabilizzazione e riconoscimento professionale, va assolutamente e prioritariamente stroncato, perché è veramente indecente e perché accrescerebbe insopportabilmente il tasso di conflittualità intergenerazionale e di ingestibilità dei rapporti tra le componenti scolastiche.
Pensare al docente come a un esecutore passivo di pratiche elaborate altrove e imposte con un ossessivo martellamento di nozioni asfittiche e modellate sui principi tecnolatrici ed efficientisti di un mondo imprenditoriale volubile e corrotto, che ha la pretesa di far coincidere un processo complesso come l’istruzione con l’adattamento degli individui alle proprie istanze di produzione e alle proprie necessità contingenti ed effimere di scambio commerciale, è più che riduzionistico: è mostruoso ed alienante. Che gli avversari possano non solo pensarlo, ma anche tradurre questo pensiero in leggi cogenti e vincolanti ci dà la misura della nostra debolezza e, al contempo, della loro spregiudicatezza. L’8 Settembre scorso, a Napoli, abbiamo inaugurato l’anno di lotta, rilanciando la petizione contro l’Invalsi redatta dai docenti in lotta di Napoli e pubblicata dal Manifesto lo scorso 20 maggio e raccogliendo disponibilità tra i docenti di Napoli e provincia per monitorare in modo capillare gli abusi dirigenziali e l’alternanza scuola-lavoro.
La posta in gioco è alta, molto più alta di quanto possano pensare anche i più scaltriti e lungimiranti. Questa delega sul reclutamento rivela quel progetto di controllo olistico della società che è possibile portare a termine solo se il pensiero dominante viene radicato nel comune sentire fino al punto da apparire normale e normativo.
Quando ero giovane e ci fu l’occupazione dell’Università, nel 1995, contro quell’esiziale riforma che introdusse la “fasciazione”, cioè il pagamento delle tasse graduato sul reddito del “capofamiglia”, assestando un primo, durissimo colpo all’istruzione di massa, davanti all’Aula Magna di Lettere campeggiava uno striscione su cui figurava lo slogan: “DENORMALIZZIAMO L’UNIVERSITA’”. Era un neologismo che rispondeva alle isteriche richieste di “ritorno alla normalità” avanzate da molti docenti indifferenti ai mutamenti e da molti studenti in corsa verso la laurea come pacchi di posta pneumatica, che, per difetto di consapevolezza politica, scambiavano la sostanziale soppressione del diritto allo studio per una semplice variazione di procedura burocratica.
Ecco… ora occorre “denormalizzare” il più possibile la Scuola, denunciare la natura e gli esiti ideologici dell’accanita azione di smantellamento che sta subendo e ripoliticizzare una categoria e una società cadute nell’equivoco che la pace interna e sociale si mantenga grazie alla “neutralità” politica, quella neutralità che ha portato a sdoganare il fascismo come opzione ideologica ammissibile e integrabile in una democrazia. A noi, che abbiamo fatto le 4 Giornate e ne meniamo vanto, la democrazia “decorosa” di Minniti, che mette la presunta munnezza, cioè i diseredati e i dissenzienti, non i corrotti e i mafiosi, sotto il tappeto… nun ce piace!
Heather Hyer, giovane attivista uccisa dai suprematisti americani nel corso di una manifestazione antirazzista e antinazista, aveva scritto sul suo profilo facebook: If You’re Not outraged, you’re not paying attention: se non sei indignato/a, vuol dire che sei distratto/a. E’ un giudizio commovente e assolutorio, che esprime disperata fiducia nel fatto che non si possa aderire a un programma liberticida convintamente, che non si possa restare insensibili di fronte al ritorno di quei miti irrazionali e di quelle idealità che hanno sprofondato il mondo in un’immane tragedia, nel cosiddetto secolo “breve”. La soppressione della libertà di insegnare e imparare disinteressatamente e il congelamento della mobilità sociale sono i presupposti allarmanti del radicarsi del neofascismo. Raccogliamo, perciò, il monito di Heather, che ha pagato la sua testimonianza con la vita, e non stanchiamoci di dire agli studenti e agli insegnanti: pay attention, please!