Riprendiamo e pubblichiamo questo articolo di Marco Pondrelli per Marx21.it
Quali erano gli schieramenti in campo in queste elezioni? La risposta l’ha fornita l’organo di Confindustria: Sergio Fabbrini in due editoriali (14 e 21 gennaio) apparsi su ‘il Sole 24 ore’ ha spiegato che in Italia si confrontavano europeisti e sovranisti. Due schieramenti trasversali ai singoli schieramenti ed ai singoli partiti, ma dalle caratteristiche ben definite. Da una parte stava l’integrazione europea e, come spesso ci ricorda Panebianco dalle colonne del ‘Corriere della Sera’, la NATO, dall’altro lato la sovranità nazionale.
Il Sole 24 ore non ha dubbi su dove schierarsi, arrivando ai confini dell’eversione quando afferma che “se le istituzioni politiche ed elettorali non sono in grado di garantire la preservazione di quel rapporto [con l’Europa] […] allora è necessario che quel rapporto venga protetto dalle nostre classi dirigenti“, tutto può essere discusso tranne la nostra appartenenza all”U.E. (ed all’euro) ed alla NATO. I grandi mezzi di informazione del paese per tutta la campagna elettorale hanno costruito un orientamento che considerava irricevibile una sovrana decisione del popolo italiano se essa avesse messo in discussione queste appartenenze. Il ragionamento di fondo è sempre stato il fatto che riappropriarsi della sovranità nazionale è inammissibile e che l’appartenenza all’U.E. ed alla Nato non sono nella disponibilità degli elettori. I nostri rapporti con la Russia devono seguire i desiderata di Washington anche quando colpiscono gli interessi vitali dell’Italia. Abbiamo letto sui giornali articoli fantasiosi in cui si accusava Putin di interferire con le elezioni italiane, queste sì vere e proprie fake news con la finalità di accusare una linea di difesa della sovranità popolare di essere strumento nelle mani di una potenza ostile.
Nonostante tutto ciò le elezioni del 4 marzo hanno dato una risposta molto diversa da quella sperata dall’establishment italiano (e non solo).
Chi vince
Due sono indubbiamente i vincitori: Movimento 5 Stelle e Lega. Entrambe le formazioni politiche hanno vinto perché in grado di dare risposta a due fattori imprescindibili: innanzitutto sono riuscite a cogliere la nuova fase internazionale, a partire dall’elezione di Trump che ha cambiato, e continuerà farlo, gli equilibri mondiali. Non è casuale che Bannon (ex stratega del Presidente americano) abbia pochi giorni fa rilasciato un’intervista al Corriere in cui sottolineava la forza dei ”populisti” italiani.
In secondo luogo, entrambe le liste sono riuscite a dare rappresentanza ad un malessere diffuso nella società italiana. La Lega che nacque dando voce ai piccoli padroni del nord ha capito che la crisi ha gettato questo settore della società nella povertà. Vi è stata una proletarizzazione del ceto medio. Il M5S è riuscito a fare la stessa operazione dando rappresentanza ai tanti giovani che vivono una situazione di precarietà, legando così la questione generazionale allo sfruttamento classista. Questa sofferenza è stata trasformata non solo in un attacco feroce verso i migranti e la ‘casta’ ma anche in una proposta “sovranista”.
È doloroso notare che formazioni politiche che su molti temi sono lontani anni luce dalla sinistra e dai comunisti facciano proprie le proposte che questi partiti dovrebbero sostenere e riescano a candidare rappresentanti di lotte sociali o intellettuali che appartengono all’alveo della sinistra. Sono tanti gli eletti tra le fila del M5S che hanno un profilo politico apertamente di sinistra e la stessa Lega ha avuto la lungimiranza di candidare chi fosse attento alle questioni sociali.
È sbagliato derubricare questo risultato come la vittoria del qualunquismo o del fascismo. Se la massima elaborazione teorica della sinistra verte sull’uso dei congiuntivi da parte di Di Maio non stupisce che essa sia relegata oramai ai margini della politica italiana. I segnali che vengono dagli elettori vanno colti, dalle sconfitte occorre imparare. Nel voto popolare c’è maggiore saggezza di quanto si possa pensare ma per i dirigenti della sinistra pare valere il monito di Bertolt Brecht “il comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo”.
Il Partito Democratico
Assieme a Berlusconi, incapace di cogliere queste novità, il primo sconfitto è il Partito Democratico. Il Pd vive indubbiamente il malessere che sta attraversando la socialdemocrazia europea (Germania, Francia, Spagna, Olanda, Grecia…). Inoltre vi è una specificità italiana, il tentativo renziano di pescare nel bacino elettorale berlusconiano non solo non ha portato al Pd nuovi voti, ma ha contribuito a farne perdere molti tra quelli del tradizionale elettorato di sinistra (a partire dal mondo della scuola). Il Pd che ha governato direttamente o indirettamente dal 2011, sette anni di governo attento alle compatibilità, insensibile al grido di dolore che emergeva dal corpo sociale piegato dalla crisi economica, impermeabile ad ogni tentativo di salvaguardia della capacità produttiva del paese, ma attento alle richieste della Troika, non potevano non portare a questo risultato.
Alla crisi diffusa, la sinistra europea sta rispondendo in due modi. C’è il modello Macron-Blair che consiste nell’abbandonare del tutto gli ancoraggi sociali della sinistra e c’è il modello opposto ovverosia il tentativo di ritrovare le radici di una sinistra riformista (ma compatibilista) ed attenta alle ragioni sociali. Il Pd italiano è rimasto nel mezzo, più vicino al modello Macron ma incapace ci compiere una scelta netta.
La sinistra socialdemocratica
Il secondo modello è quello a cui si sono ispirati i fuoriusciti del Pd. Leu però esce sconfitto da queste elezioni. Il disegno strategico dei vari D’Alema e Bersani era quello di radicalizzare le proprie posizioni e capitalizzare il crollo del Pd renziano per poi riaprire un rapporto politico con un partito “derenzizzato”. Un fallimento, quello di Leu, che è figlio della scarsa credibilità della classe politica che lo ha animato ma che è anche dovuto ad un progetto politico che, dove è stato applicato, (vedi Syriza in Grecia) ha dato pessimi risultati. Proporre politiche redistributive dentro un’Europa che ha fatto della competizione salariale la propria costituzione materiale non è una prospettiva credibile. Sono poche le voci (come Fassina) che hanno avuto il coraggio di mettere in discussione le fondamenta europee (a partire dall’euro), e in generale Leu ha tenuto ferma la sua vocazione europeista difficilmente conciliabile con politiche progressiste. Una contraddizione che riguarda chiunque si proponga politiche sociali e redistributive: senza mettere in discussione alla radice il quadro dato, non ci sono spazi politici. Le prime dichiarazioni di interlocuzione con il M5S per la formazione del governo (ipotesi controversa all’interno di Leu), rappresentano tuttavia una linea degna di nota.
Potere al popolo
La catastrofe colpisce anche la cosiddetta sinistra radicale. Nonostante il risultato deludente (1,1%), la lettura di alcuni maggiorenti della lista è stata positiva, argomentando che si trattasse di una formazione giovane, nata appena 3 mesi fa. Tuttavia bisogna ricordare che dentro Pap c’erano storici partiti organizzati come il Prc ed il nuovo Pci, oltre alla Rete dei Comunisti (e anche alla trotskista “Sinistra anticapitalista”). Ma, come è successo sempre negli ultimi 10 anni, queste formazioni si sono unite a poche settimane dal voto senza un vero progetto, dando l’idea di un cartello elettorale con un unico obiettivo: tornare in Parlamento. Gli elettori non hanno percepito il progetto di lungo periodo di questa lista e l’alternatività dei suoi programmi (anche perché su alcune questioni centrali come il tema dell’euro e della difesa degli interessi nazionali, si è preferita l’ambiguità alla nettezza dei contenuti) ed hanno vissuto questa esperienza come l’ennesima “trovata” in vista delle elezioni. Nonostante ci fosse una convergenza fra tre organizzazioni comuniste (assieme agli altri soggetti) il messaggio che è passato è quello di una lista movimentista minoritaria, più attenta ai temi storici dell’autonomia, che quelli più vicini alle lotte del movimento operaio e comunista di questo paese. Anche sulla politica estera non sono mancati dei limiti, si è preferita una posizione ambigua su temi quali la guerra in Siria, la questione curda, il golpe neonazista in Ucraina, la centralità della battaglia contro la Nato e le servitù militari e continua a mancare una posizione su ciò che sta succedendo nel mondo e quale sia la lettura delle dinamiche fondamentali in atto.
Partito Comunista
Diversa è stata la campagna elettorale svolta dal Partito Comunista di Rizzo, che nelle sue dichiarazioni ha sfruttato la tribuna elettorale per radicare e fare crescere il partito anche in territori dove non era presente. Anche questa formazione non ha minimamente fatto cenno ai grandi temi di politica estera nella sua campagna elettorale (e conosciamo i limiti di molte di queste analisi sul piano internazionale) ma bisogna dare atto che quest’esperienza sta investendo su un obiettivo di lungo periodo, rifiutandosi di annacquare la propria esperienza in contenitori ideologicamente non ben definiti pur di eleggere qualche parlamentare.
Ancora una volta il terreno elettorale si è dimostrato come il più impervio per i comunisti e le forze di sinistra per la costruzione di un campo politico e di una soggettività di classe. Altre devono essere le forme e le strade, se non si vuole correre il rischio di inseguire, elezione dopo elezione (e contenitore politico dopo contenitore politico) il fallimento, foriero di nuove delusioni e diserzioni tra le fila dei militanti. Da dieci anni i comunisti sono fuori dalle istituzioni parlamentari e la diaspora è continuata, nonostante alcuni generosi ed importanti tentativi di ricomposizione. Senza una nuova visione ed uno sguardo lungo, il rischio è quello di una competizione tra le forze esistenti per la contesa dei militanti.
Infine, tra i punti salienti di queste elezioni c’è il fatto che il popolo della sinistra ha votato in massa per il M5S. L’atteggiamento prevalente è quello di considerare questa come una forza “di destra” con la quale non interloquire. Nulla di più sbagliato: i comunisti devono saper interloquire e lavorare sulle contraddizioni evidenti al suo interno, chiedendo il rispetto dei programmi e degli impegni presi con gli elettori e confrontandosi sui temi strategici della lotta contro l’integrazione euro-atlantica e per la difesa dei ceti popolari.
Mentre scriviamo questo articolo, non è chiaro quale sarà il mandato che il presidente della Repubblica assegnerà per la formazione del governo e quale governo sarà formato. Il quadro è ancora molto instabile.