Le manifestazioni di San Severo e Foggia contro lo sfruttamento brutale del lavoro nei campi del sud Italia indette dai braccianti poveri e di colore (i “berretti rossi”) a seguito della morte di sedici di loro avvenuta in due diversi incidenti agli inizi di agosto, rappresentano l’evento di lotta e di mobilitazione per il riscatto sociale più importante degli ultimi anni. Probabilmente, per densità simbolica, segno oggettivo della barbarie in atto e significato generale; il più emblematico dagli inizi del secolo. E’ il grido di dolore dell’ultimo anello che scuote l’intera catena del lavoro subordinato sempre più spoliato di rappresentanza sociale e di diritti; dei rassegnati e dei soli, degli arresi e in guerra tra loro nel tentativo di resistere ad una vita “tutta contro”, in una lotta infinita tra poveri -e tra questi- tra i poveri e i reietti. E’ il grido di coloro che hanno deciso di ribellarsi sfidando il destino già bell’e scritto di nuovi “dannati della terra” che in un altrove a noi vicino, si uccidono per l’accesso ad un pozzo d’acqua, scavano tra le immondizie del mondo opulento, muoiono per fame e guerra o scompaiono inghiottiti dal mare senza storia, in una discesa priva di appello e di speranza. Sono gli ultimi tra altri ultimi, nell’infinita filiera opaca dello sfruttamento (disu-) umano a cui la post modernità ha preteso di assoggettare la nostra stessa indignazione. Sono “la nuova schiuma” senza nome, grumo sociale sotto la soglia della cittadinanza. Sono il nutrimento più a buon mercato a disposizione del tritacarne globale finché, vessati ed umiliati, dinanzi alla morte dei compagni hanno trovato la forza e rabbia sufficienti per alzare la testa e dire basta. Nell’incidente i braccianti erano chiusi nel cassone posteriore del furgone, senza nemmeno un finestrino per vedere fuori o avere un po’ d’aria. Schiavi, semplicemente. Trattati peggio di animali. Degli animali il padrone ha talora premura nel timore che il valore del suo patrimonio deperisca. Si nutrono e dissetano e al bisogno, persino si curano. Di questi lavoratori si poteva non interessarsi, disponendone come e quando si voleva sciupando e sprecando vite, tanto… domani ve ne sarebbero stati ancora e poi ancora da scaricare nei campi e sfinire. Una merce così facile da usare e reperire -franchi da ogni serio controllo e richiesta di rispetto dei diritti più semplici- che se ne poteva non avere cura alcuna. Quei morti, giungevano dal campo di Rignano Garganico, una bidonville fatta di roulotte e capanne costruite con lamiera e plastica in cui vivevano quale parte separata invisibile ed intoccabile; veri e propri paria del nostro tempo. Per mesi e mesi, più che eserciti e polizia, ha potuto il filo spinato invisibile ma ben resistente della ricchezza o talora della semplice “normalità” a far la differenza col mondo degli altri. Si tratta di un muro più resistente delle più guarnite fortezze. I suoi mattoni sono il pregiudizio sociale, il diverso accesso ai diritti ed alle opportunità elementari: mangiare tutti i giorni, disporre di un paio di scarpe decenti, di un farmaco, del lusso di un pacchetto di sigarette. Tutto questo, nel caso, mentre il cosiddetto mondo degli altri colpito via via da gravi fenomeni di marginalizzazione e solitudine nutriva nuovi rancori sociali e si affollava sempre più di lavoratori poveri, precari e disoccupati italiani. Più che i proclami e le denunce parziali e sporadiche circa ciò che non andava (ma si è per anni permesso che fosse), hanno potuto l’abdicazione sostanziale ad un’efficace presenza dello Stato e al rispetto delle sue leggi, una sorta di indolenza e complicità tacita delle coscienze che ha reso accettabile l’azione violenta conosciuta e continuata dei “caporali” (moderni
kapò dei lager della miseria); e reso possibile l’abitudine all’abisso della schiavitù. Non quella romantico-compassionevole dello “Zio Tom” della Beecher Stower che commuovendoci leggevamo da bambini, tanto da muoverci a solidarietà. Ma quella di uomini e donne vissuti come esercito straniero, cioè in via letterale estraneo; presentato come minaccia e contemporaneamente usato quale massa di riserva destinata ad uno sfruttamento servile privo di limite. Un esercito a noi estraneo per lingua, mentalità, memoria culturale e narrazione del mondo; che si è preteso sottratto al riconoscimento della dignità dovuta. Non cittadini e lavoratori dunque; ma plebe, popolaccio informe, orda. Oggi i “berretti rossi” (vi è un destino in ogni lotta che ad un certo punto pare inevitabilmente virare l’indignazione verso il rosso) sono d’un colpo divenuti volti, e storie, e cittadini e lavoratori sfruttati. Oltre la cronaca della tragedia, hanno conquistato la storia saldando insieme speranza di riscatto e lotta. Scendere in lotta come mai avvenuto, ha dato loro coscienza di una forza nuova, ha tracciato un prima ed un poi che di per sé non cancellerà d’un colpo la grave condizione del loro presente, e pur tuttavia permetterà di pensarsi corpo sociale sfruttato e poi classe, in lotta contro un sistema oppressivo; una lotta per sottrarsi a soggezioni e subalternità. Forse non lo sanno, ma la liberazione di sé e degli altri che cammina sulle gambe della lotta ha da sempre un nome: emancipazione. La lotta quale fucina di un altro mondo possibile e modo di vivere; lo sviluppo del conflitto illuminato da un progetto di trasformazione (senza cui vi è solo rivolta), ci interrogano d’autorità circa la nostra stessa funzione. La “questione comunista” non può vivere nella ridotta di una disputa politica al riparo dagli urti e dalla lezione della praxis. Essa al contrario deve nutrirsi del conflitto e può prendere corpo solo se riusciamo a far assumere al conflitto del e nel terzo millennio, l’orizzonte non di un qualunque mutamento ma di un cambiamento delle forme di produzione, della cultura diffusa e dei valori posti a base dell’esistenza; insomma se assume l’orizzonte del socialismo.
L’ultimo anello, il più debole, il meno tutelato e il più dolorante ha scosso la catena. Una catena che tiene se tutti i suoi anelli si stringono in un patto solidale, dividendo il peso ed il cammino del riscatto; se tutti gli anelli si stringono in un’azione di resistenza, di battaglia politica e di liberazione. Se quei morti (e i molti altri che vi sono stati e ancora vi saranno) divengono fardello insopportabile per tutti. Se quel sangue non è dimenticato. Dinanzi alla barbarie, i “berretti rossi” si sono riscoperti lavoratori e non schiavi. Il peso cupo della fatica quotidiana è divenuto indignazione e poi battaglia, mobilitazione politica. Gli schiavi hanno alzato la testa. I comunisti -soprattutto i comunisti!- non possono dirsi paghi di essere stati “sentimentalmente” accanto a quella lotta; ma con quella lotta, dentro quella lotta, dentro la sfida del “che fare” da lì in poi; ovvero dentro la sfida del come aiutare a costruire uno sbocco politico a quella e a molte altre lotte non meno dure e significative. Nel mentre, è parimenti urgente valutare criticamente i limiti di una mobilitazione sindacale e del lavoro che meritava uno scatto più serio e più forte. Serviva il boato della protesta di tutto il mondo del lavoro. Nel sistema capitalistico dato, serviva ristabilire il limite tra schiavitù e lavoro salariato, tra lavoratori e servi. Serviva una mobilitazione di massa larga, generale che solo la proclamazione dello sciopero generale di tutte le categorie, di tutte le filiere e di tutti i comparti produttivi poteva garantire. Quando e perché, se non dinanzi alla fine di sedici lavoratori morti come animali? Dopo la tragedia ecco i riflettori di un giorno, la “bucatura” del video, le interviste, le promesse e le dichiarazioni del potere, le polemiche sui controlli mancati laddove tutti e da sempre, sapevano quanto stava accadendo…
Ma a noi non serve una politica capace di svolgere una mera azione di denuncia, in sé pur necessaria. Di denunce dei guasti della nostra società (nel caso orientati ad arte a fomentare una visione a-classista e populista) sono pieni i talk show e le pagine dei quotidiani. Il nodo è come ricostruire una relazione tra la denuncia e la battaglia, tra l’indignazione, la presa di coscienza e il cambiamento. A noi serve provare a costruire una politica ed una presenza che -appunto- provi a cambiare la realtà. Serve “che la bandiera rossa”, per dirla con Pierpaolo Pasolini, “ridiventi straccio e il più povero la agiti”. Ripartire dai luoghi di lavoro per costruire il Partito, non è soltanto una necessità organizzativa che il 1° Congresso Nazionale di Orvieto ha ribadito strategica. Né una concessione propagandistica o tardo omaggio operaista. E’ piuttosto una scelta che s’impone a partire dallo stare dentro il conflitto per comprenderne le dinamiche, ascoltarne e decodificarne i nuovi linguaggi, studiarne le forme di resistenza e di lotta con l’ambizione di offrire come Pci un’interpretazione critica dei processi. A metà ‘800 non era raro che i turni arrivassero anche a sedici ore al giorno e i casi di morte sul lavoro erano frequenti. Il primo maggio del 1886 era stato indetto uno sciopero generale in tutti gli Stati Uniti col quale gli operai rivendicavano migliori e più umane condizioni di lavoro. La protesta andò avanti per tre giorni culminando il 4 maggio in una battaglia tra lavoratori e polizia. Undici persone persero la vita in quello che sarebbe passato alla storia come il massacro di Haymarket. Da lì, da quel sangue, dall’asprezza ed emblematicità di quella lotta, nacque nel 1889 la festa dei lavoratori realizzando e cucendo nell’immaginario degli sfruttati e del movimento socialista uno stabile riferimento generale sommante dolore, nuova dignità e riscatto. Quello che è avvenuto a Rignano Garganico, sia il nostro nuovo 1° maggio. Attraverso il giudizio su un evento politico e di lotta, abbiamo bisogno di ricostruire un evento dell’anima e della memoria degli sfruttati vecchi e nuovi, capace di assurgere a simbolo di una nuova stagione di battaglie. La nostra modernità sia fatta di memoria antica che si rinnova. In un sistema produttivo
quale quello capitalistico presente, capace di tenere insieme e far convivere il lavoro schiavile dei disperati della terra, e il massimo sviluppo tecnologico attraverso la concentrazione e l’asservimento al profitto del/dei saperi; noi dobbiamo essere l’alterità che non sta nella scia delle cose così come stanno (e si danno per scontate) ma apre contraddizioni non addomesticabili e semina nuove riflessioni, nuova coscienza politica. La speranza è un lievito che opera tra l’urgenza del subito e la pazienza del risultato. Nel mezzo, nel cuore delle contraddizioni vi deve essere la proposta del Partito Comunista Italiano. Oggi più che mai ne va di noi stessi.
di Patrizio Andreoli, Segreteria Nazionale – Responsabile politiche organizzative e Segretario regionale del PCI in Toscana