“Mountain”: 74 minuti di adrenalina pura

di Laura Baldelli

Mountain è un docu-film, uscito nel 2017, questi giorni nelle nostre sale  dei circuiti speciali e d’essay, distibuito dalla Mescalito Film.

Un documentario che sembrerebbe dedicato ad un pubblico appassionato di montagna, ma è assolutamente riduttivo pensarlo in questi termini, anzi significa non aver capito il messaggio della bravissima regista australiana Jen Peedom, che è anche produttrice e coosceneggiatrice del film.

Il lavoro va oltre il piacere della visione, va oltre il documentato, non è né didattico, né didascalico, ma contiene una narrazione riflessiva, meraviglioso frutto di una grande regia, che mette in sintonia espressioni artistiche e specialità sportive.

Infatti è stato definito dalla critica come “una sinfonia audiovisiva”, dove immagini mozzafiato di montagne, di alpinisti acrobati e commento musicale sono un tutt’uno.

Infatti il direttore della fotografia è Renan Oztuk, alpinista turco-statunitense e cine-operatore, che ha utilizzato le più avanzate tecnologie di ripresa, dai droni, ai go-pros, agli elicotteri; un lavoro di 2000 ore di ripresa in 15 paesi nel mondo: Tibet, Australia, Alaska, Norvegia, Haway, Nepal, USA…. La colonna sonora è eseguita della Australian Chanber Orchestra diretta da Richard Leo Tognetti, dove riconosciamo brani famosissimi  della composizione classica di Vivaldi, Beethoven, Arvo Part. Merita un attenzione speciale la voce narrante di Willem Dafoe che legge le riflessioni di Robert Macfarlane, scrittore sceneggiatore e alpinista inglese, tratte dal libro “Mountains of the Mind”.

E’ qui il cuore del film: una profonda riflessione sull’immaginario collettivo dell’umanità verso le montagne nelle epoche storiche.

Infatti fino a tre secoli fa le montagne rappresentavano il pericolo e non la bellezza, erano il risultato di collisioni violente e scontri tra placche e fin dall’antichità luoghi riservati agli dei ed interdetti agli uomini.

La paura  lasciò il posto al sentimento della meraviglia, allo stupore del paesaggio, che artisti come Friedrich Caspar dipinsero; poi la meraviglia per molti si trasformò  in avventura, conquista, sfida.

Le montagne diventarono avversari da sconfiggere, addirittura gli imperi europei gareggiarono per conquistare il tetto del mondo, l’Everest; c’è chi dice che c’è “un prima” e “un dopo” la conquista dell’Everest. Non a caso in sanscrito il nome è “dio del cielo” ed è così che lo chiamano i Nepalesi.

Nel lungometraggio ci sono anche filmati d’epoca, che rivelano le prime ardite scalate, dove spesso hanno trovato la morte appassionati alpinisti, in tragici incidenti, perché la montagna non perdona alcun errore.

Oggi invece le montagne sono lo scenario delle più estreme pratiche alpinistiche, ampiamente documentate con riprese mozzafiato che fanno saltare sulla poltrona lo spettatore; ma il documentario non documenta, non informa dei luoghi, nè degli atleti che vediamo in spericolate e impossibili imprese da super-eroi senza effetti speciali. Il film non esalta queste spericolate imprese di uomini-ragno o di sciatori con il paracadute, né di ciclisti che si arrampicano e si lanciano poi nel vuoto con bici e paracadute, anzi il testo Robert Macfarlane, letto da Willem Dafoe, s’interroga sulle pratiche estreme del nuovo alpinismo, sul bisogno dell’uomo odieno, troppo urbanizzato e comodo, in cerca emozioni estreme che alimentino la sua paura. Il piacere sembra scattare solo con l’adrenalina e più si è vicini alla morte, più c’è appagamento.

Ma non basta c’è l’ambizione di essere unici, “solo io”, in imprese in solitario e sfide sempre più temerarie senza limiti. Solo l’adrenalina convince che esistiamo e la paura ha bisogno di essere sempre amplificata.

A qualche ardito in cerca di adrenalina proporrei l’esperienza della fonderia negli altoforni o lavorare sulle impalcature edili senza sicurezza e senza gloria.

Per le grandi masse oggi la montagna è svago, mercificata, trasformata in un grande parco giochi e la regista ce lo racconta con le immagini velocizzate, che rendono perfettamente l’idea della corruzione di ambienti naturali, contaminati da masse etero dirette da piaceri e bisogni indotti dal capitalismo rapace che fa suo, anche ciò che è di tutti, l’ambiente dove viviamo.

Il testo di Macfarlane ci riporta invece alla dimensione e al valore  che la montagna è il luogo dove riconoscere i nostri limiti.

Un pensiero originalissimo in un mondo dove si educa al delirio di onnipotenza.

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