Pubblichiamo un contributo a proposito del dibattito sulla questione ecologica e sul movimento per il clima.
di Emiliano Alessandroni, Comitato centrale Pci
Questioni storico-teoriche: dialettica, operaismo e logica binaria
«Dite di amare i vostri figli più di ogni altra cosa, invece rubate il loro futuro proprio davanti ai loro occhi […] Sono le sofferenze dei molti che pagano per i lussi dei pochi»[1]. Queste parole di Greta Thunberg, pronunciate nel 2018 alla Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, sortiscono importanti effetti culturali per la diffusione ad ampio raggio di cui hanno goduto: quello di politicizzare il concetto astratto di «amore», spingendone i comportamenti relativi fuori dalla cerchia chiusa e immediata degli affetti famigliari e quello di concentrare l’attenzione sulla stratificazione sociale che contraddistingue l’Occidente capitalistico, nonché sulla polarizzazione di ricchezza e povertà che quest’ultimo su scala planetaria tende a generare.
È a tali problematiche che il discorso di Greta – sia esso scritto da lei o da altri poco importa – connette la questione ambientale. Non si tratta di un semplice amore per gli animali domestici o per le piante del proprio giardino; la questione, si ribadisce, assume tratti squisitamente politici e sociali, tale da imporre la messa in discussione dell’attuale assetto capitalistico euroatlantico: «Se le soluzioni all’interno del sistema sono così impossibili da trovare, forse dovremmo cambiare il sistema stesso»[2], ha affermato parlando ai microfoni nel cuore dell’Europa. Questa connessione tra questione sociale e questione ambientale sembra essere stata avvertita, in Italia, da Maurizio Landini che come gesto simbolico ha consegnato a Greta la tessera onoraria della CGIL, rimarcando in tal modo la non estraneità tra mondo del lavoro e problemi ecologici.
Dal lato opposto, fra i detrattori di Greta e della sua battaglia, non manca chi ha denunciato il gesto di Landini come un abbandono della questione sociale, una resa nei confronti di questa potente «arma di distrazione di massa» a cui le elite europee avrebbero deciso di fare ricorso per meglio schiacciare sotto i propri piedi i diritti dei lavoratori. L’avvicinamento alla questione ecologica non farebbe altro, dunque, che distogliere le masse dal conflitto di classe in corso e dalla lotta contro il sistema capitalistico. Questo modo di ragionare, tuttavia, suona come il risultato di una logica binaria che riesce a vedere nel mondo sempre e soltanto un’unica contraddizione: quella tra capitale e lavoro. Eppure sono stati proprio Marx ed Engels – denunciando la rapina del suolo e delle fonti durevoli, il sudiciume e il fetore nel quale sono stati costruiti i quartieri operai, la sporcizia in essi dilagante, deplorando quindi la nube di fumo che avvolgeva le città e i corsi d’acqua ridotti a nere fanghiglie dai materiali in essi riversati – ad avere illustrato per la prima volta nella storia la contraddizione che andava sempre più ingrandendosi tra capitale e ambiente.
Occorre peraltro tenere in debito conto che la questione ecologica può anche coincidere con la questione sociale. Come a Taranto dove, tra i lavoratori impiegati nello stabilimento ex Ilva è stato registrato il 500% di casi di tumore in più rispetto alla media della popolazione generale della città non impiegata nello stabilimento[3]. La lotta del lavoratore contro l’anomia, contro i ciechi e famelici interessi del capitale, coincide dunque in quel caso con una lotta per la difesa dell’ambiente.
La dialettica hegeliana spiega la compresenza nella realtà di molteplici contraddizioni, la loro sovrapposizione, il loro intreccio e persino il loro conflitto (un tipo di contraddizione può, vale a dire, entrare in contraddizione con una contraddizione di altro tipo), per cui è necessario di volta in volta sapere gerarchizzare gli scontri in corso, distinguendo quello che ha rilevanza più universale da quello che ha rilevanza meno universale. Così, non di rado, può anche accadere che in alcune circostanze la contraddizione capitale/ambiente scavalchi in ordine di importanza quella tra capitale e lavoro. In Sicilia ad esempio, nella città di Gela, gli operai hanno protestato animatamente contro la chiusura del petrolchimico. Lo stesso petrolchimico a cui è stato ricondotto l’aumento vertiginoso di masse tumorali che ha colpito i cittadini, nonché le malformazioni genetiche, le malattie e le morti che si sono registrate tra i minori[4]. La contraddizione capitale/lavoro, possiamo dire, è qui entrata in contraddizione con la contraddizione capitale/ambiente. La seconda, tuttavia, appare più rilevante, in quanto più universale: sia perché coinvolge un numero molto maggiore di persone, sia perché il sacrosanto diritto al lavoro (in difesa del quale è non soltanto legittimo, ma doveroso battersi) non può tuttavia compromettere l’universale diritto alla vita, di cui dovrebbero poter godere tutti gli abitanti della città.
Qualche cosa di simile è accaduto anche ad Urbino. Qui gli operai della Benelli Armi si sono sempre schierati in difesa dell’officina, e di tutte le sue espansioni architettoniche ogni qualvolta il proprietario lo richiedeva. E questo nonostante essa produca, tra le altre cose, armi destinate all’esercito americano e già impiegate in operazioni militari contro i paesi del Terzo Mondo. Che tale stabilimento sia una fabbrica di morte, che i fucili costruiti vadano ad uccidere operai afgani, iracheni e presumibilmente anche libici o siriani, non è mai stato un problema per i lavoratori dell’azienda[5]. Anche in questo caso, evidentemente, la contraddizione capitale/lavoro entra in contraddizione con la contraddizione imperialismo/anti-imperialismo. Il sacrosanto diritto al lavoro degli operai urbinati, vale a dire, giunge a scontrarsi con il diritto alla vita degli operai e dei cittadini afgani, iracheni, libici, siriani ecc. Affermare che l’attenzione sulla conraddizione capitale/ambiente distrarrebbe dalla contraddizione capitale/lavoro, significa ragionare in termini meramente operaisti e seguire una visione binaria della conflittualità sociale. È, a ben vedere, lo stesso modo di ragionare di Mario Tronti e Toni Negri, i quali hanno sempre scorto la lotta di classe soltanto nelle rivendicazioni salariali e nelle sollevazioni operaie, eludendo pressoché integralmente la questione nazionale e coloniale. In base a questa logica, si chiedeva qualche anno fa Domenico Losurdo, che cosa avrebbero dovuto fare, ad esempio, «gli operai cinesi mentre il loro paese era invaso: continuare a rivendicare aumenti salariali senza preoccuparsi per la schiavizzazione che incombeva su di loro e sui loro concittadini?». La risposta è eloquente: «la lettura binaria del conflitto sociale, che vede una sola contraddizione (quella che contrappone operai e capitale), trasforma questa medesima contraddizione in una prigione all’insegna del più gretto corporativismo»[6].
È contro un simile corporativismo, suscettibile di fare assumere alla lotta di classe un carattere meramente particolaristico, impedendole di raggiungere una statura universale, che si scagliava Gramsci nella sua polemica con Bruno Buozzi. Nel giugno del 1925, in occasione del comizio che l’allora dirigente della FIOM avrebbe tenuto all’assemblea dei metallurgici, l’intellettuale sardo, allora segretario generale del Pcd’I, scrive un articolo su l’Unità in cui invita gli operai italiani a rivolgere al sindacalista alcune domande. Tra queste spiccano le seguenti:
Può dire perché Bruno Buozzi, mentre si oppone all’unità sindacale internazionale con i sindacati russi, non ha ancora detto una parola né sulla guerra al Marocco, né sul massacro degli operai in Cina da parte dell’imperialismo d’Occidente? In Inghilterra le trade unions, hanno chiesto il ritiro degli armati e delle navi inglesi dalla Cina. Che cosa fa la Confederazione del lavoro in Italia? […] Attendiamo di sapere in che modo Bruno Buozzi pensa di lottare per la difesa di milioni di operai cinesi, presi alla gola dall’imperialismo occidentale, e per la pace al Marocco, contenente il pericolo di nuove carneficine[7].
Possiamo ben comprendere, da quanto finora osservato, che quanti sostengono che un processo di emancipazione debba concentrarsi soltanto sulla contraddizione capitale/lavoro voltando le spalle alla contraddizione imperialismo/anti-imperialismo o a quella capitale/ambiente, quanti ritengono che lottare per i diritti dei neri e delle donne sia soltanto una deviazione indebita rispetto alla ben più importante battaglia per i diritti dei lavoratori, stanno de facto agendo affinché la lotta di classe (che costituisce a un tempo una lotta per il riconoscimento) abbia soltanto un carattere particolaristico e non si elevi mai a un livello universale. Stanno in sostanza favorendo una mutilazione della lotta di classe. Lo stesso discorso, naturalmente, vale anche per ciascuno dei casi contrari.
Questioni pratico-contingenti: la geopolitica della questione ecologica
I problemi di cui abbiamo accennato, tuttavia, oltre che da un punto di vista teorico vanno analizzati anche da un punto di vista pratico e pensati all’interno del quadro globale concreto nel quale si collocano. Non si possono oggi affrontare questioni sociali facendo completa astrazione dal conflitto che si sta consumando, su scala internazionale, fra Stati Uniti e Cina, giacché è dall’esito di questo scontro che dipenderanno il futuro del pianeta e la causa dell’emancipazione nel suo complesso.
Nel corso del proprio sviluppo la Repubblica Popolare Cinese è riuscita, con enormi sacrifici, a liberarsi da gran parte di quelle accuse che, al fine di erodere l’impalcatura politica del Partito Comunista al governo, l’Occidente liberale le rivolgeva. È avvenuto, ad esempio, con la questione sociale (gli stipendi degli operai cinesi sono negli anni lievitati fino a superare quelli dell’Est Europa e la lotta condotta dal governo contro la povertà ha permesso a circa 800 milioni di persone di uscire da una condizione di morte per fame e inedia permanente), ed è avvenuto con la questione ambientale (per la quale il gigante asiatico è stato a lungo sotto attacco). Nel corso del tempo, tuttavia, l’evidenza dei fatti oggettivi ha finito progressivamente per rivelare la forzatura propagandistica delle accuse. Mentre la Cina ha firmato e ratificato il Protocollo di Kyoto, gli Stati Uniti – il paese al mondo che registra il più alto tasso di emissioni di CO2 – si sono rifiutati di ratificare. Nel giugno del 2017 allorché gli Usa di Trump decidono di uscire dall’Accordo di Parigi, la Repubblica Popolare Cinese, importante firmataria, respinge con forza la scelta americana e difende le regole del patto in questi termini: «Crediamo che [l’Accordo] rifletta l’ampia approvazione della comunità internazionale sulla questione dei cambiamenti climatici…Le parti interessate dovrebbero custodire questo risultato conquistato a fatica»[8].
La dirigenza del PCC ha insistito particolarmente sull’importanza della questione ambientale: riconoscendo nel 2013 ancora una debolezza della nazione in questo campo il Presidente Xi Jinping ha incoraggiato un processo di «rimboschimento volontario» e invitato a tenere sempre a mente che «i boschi sono una risorsa fondamentale per l’ecosistema della terra, sono una garanzia importante per la sopravvivenza e la crescita dell’umanità». È necessario quindi lavorare affinché «la società tutta» rafforzi «la propria coscienza ecologica»[9] e avanzi «verso una nuova era di civiltà ecologica del socialismo». Per far ciò, continua, bisogna «promuovere ancora più consapevolmente uno sviluppo che sia verde, di riciclo e a basse emissioni di carbonio» facendo in modo che «l’idea di “linea rossa” ambientale» si radichi «saldamente» nell’animo di tutti i cittadini. A nessuno deve essere data la possibilità di «trasgredire, a meno di non incorrere in pesanti sanzioni», ciò che accade soprattutto a «chi fa scelte politiche alla cieca ignorando l’ambiente o causando danni seri»[10].
Nel corso degli anni la Repubblica Popolare Cinese è divenuta il primo paese produttore di tecnologie ecosostenibili e avanguardia mondiale della green economy, mostrando come il rapporto fra modernità ed equilibri ecosistemici sia non già antitetico, ma complementare, e che la scienza e la tecnica, liberate dalla gabbia del puro calcolo egoistico e della mera logica del profitto, costituiscono gli unici strumenti con cui far fronte razionalmente ai problemi ambientali[11].
Dall’altro lato gli Usa di Trump hanno cancellato i limiti per le emissioni alle centrali elettriche a carbone nonché le norme che le obbligava a controllare i versamenti in acqua di arsenico e mercurio tutelando in tal modo i profitti dell’industria elettrica al prezzo di gravi danni ecologici; hanno annullato i restringimenti in virgore per le emissioni di metano, ridotto le ispezioni e congelato la norma che impone alle aziende automobilistiche di concentrare la produzione sulle automobili a minor consumo di carburante; infine hanno eliminato le restrizioni all’uso dei pesticidi, dei fertilizzanti chimici e liberalizzato l’utilizzo di amianto per l’industria delle costruzioni[12]. Lo stesso inquilino della Casa Bianca si è spinto d’altro canto a negare apertis verbis la stessa esistenza dei cambiamenti climatici o quantomeno, come poi più tardi ha specificato, la loro imputabilità alle attività umane.
Possiamo ben comprendere da quanto osservato fin qui che se la Repubblica Popolare Cinese, per quanto concerne la contraddizione tra capitale e ambiente, si trova impegnata in una lotta volta a difendere i diritti dell’ambiente, gli Usa appaiono più che mai impegnati in una lotta finalizzata a tutelare gli interessi del capitale.
Non possiamo sapere al momento come il conflitto tra Usa e Cina si evolverà, né quali saranno le posizioni politiche (più progressive o più reazionarie?) che Greta Thunberg potrá assumere in futuro. Quel che è certo è che allo stato attuale l’attenzione posta dalla militante svedese sull’ambiente costituisce una mano tesa oggettiva nei confronti della Repubblica Popolare Cinese e un pungo allo stomaco contro la politica portata avanti dagli Stati Uniti. Si tratta di un aspetto di cui i detrattori più oscurantisti di Greta – oggi presi a campione da quegli intellettuali della destra liquida impegnati a inglobare l’anticapitalismo di sinistra in un orizzonte antimoderno di destra (ovvero ad appiattire Gramsci sul discorso di Gentile e Marx su quello di Heidegger)[13] – si sono resi ben conto: così attaccano la ragazzina e assieme a lei ogni tentativo di riportare la luce del nomos sull’anomia americana. Il tentativo di stabilire regole condivise viene quindi denunciato come un feroce attacco alla libertà, come un tentativo di estendere il «controllo sulla vita umana», di imporre «un sistema di multe e restrizioni dell’attività economica» e di «sorveglianza con satelliti ecologici». A questo imponente attacco, proveniente perlopiù dall’Europa, soltanto la tenacia rivoluzionaria del Presidente americano sarebbe riuscita a reagire: sì, per la fortuna di tutti, «Trump ha distrutto questo piano ritirando gli Usa dall’Accordo di Parigi». Occorre quindi avversare chi apre fabbriche «in Cina» e ribadire che «l’investimento “ecologico” è un investimento “vuoto”, sostanzialmente sterile, che “sterilizza” la moneta»[14]. Ecco che i detrattori più reazionari di Greta non nascondono in alcun modo il proprio disprezzo verso la Cina e il proprio amore verso Trump. Un sentimento opposto sembra invece animare la militante svedese che ai microfoni dei telegiornali italiani ha dichiarato: «Non so cosa direi a Donald Trump se lo incontrassi, probabilmente niente, perché con lui i fatti non funzionano»[15]. Soltanto un mese prima, in un intervista rilasciata a Die Welt, il presidente americano era stato definito una figura «molto pericolosa»[16]. E non è mancato, d’altro canto, chi ha attaccato esplicitamente Greta per avere sbagliato bersaglio: non l’Occidente capitalistico, non gli Stati Uniti che eludono ogni regolamentazione ecologica sono i nemici contro cui occorre scagliarsi, ma «i paesi in via di sviluppo…la Cina, l’India, i paesi dell’Africa». Sono questi i principali artefici della crisi ambientale nella quale ci troviamo ed è contro di essi che bisognerebbe concentrare i colpi. Disgraziatamente, invece, la ragazzina svedese, dal basso del suo infantilismo e della sua ingenuità, colpisce gli obbiettivi sbagliati: sì «il discorso politico di Greta Thunberg non prende di mira loro [Cina, India e paesi africani], ma attacca soprattutto i governi occidentali, i “ricchi”»[17]. Al contrario, quella che è stata definita come la sua nemesi, Izabella Nilsson Jarvandi, oltre ad avere espresso la sua simpatia per Orban, ha inquadrato il proprio paese come una vittima dei poveri, non esitando quindi a parlare di «genocidio del popolo svedese» per opera dei flussi migratori che contaminerebbero la purezza etnica dei propri concittadini. Se per Greta è dal mondo ricco e occidentale che provengono i pericoli, per Izabella questi giungono da quello povero ed extraeuropeo, di carnagione perlopiù non bianca.
Greta naturalmente non è una rivoluzionaria: il suo discorso è poco più che culturale e morale e in grado di essere perfettamente assorbito dagli istrioni liberali del nostro continente. Tale capacità di assorbimento, tuttavia, non implica alcuna identificazione. Il discorso di Greta è senz’altro culturale-morale, ma mostra ripercussioni sul piano politico nella misura in cui incide sugli equilibri di consenso e dissenso. Esso, inoltre, pone in rilievo alcune contraddizioni del sistema capitalistico dell’Occidente che il liberalismo tenta di occultare attraverso un meccanismo di cooptazione: il discorso di Greta, vale a dire, non coincide con la cultura capitalistica occidentale ma quest’ultima tenta di neutralizzarlo entro sé, di incamerarlo al fine di offuscarne il disavanzo, quella componente di irregolarità da cui affiorano le contraddizioni strutturali che si intendono celare. Se lo spazio discordante fosse stato troppo ampio e avesse mostrato una incompatibilità di fondo il discorso di Greta sarebbe stato respinto e lei demonizzata o ignorata. Si tenta invece di addomesticarla, diffondendo una parvenza di medesimezza. Sta quindi a noi rivelare tale operazione, mostrare i tratti di incompatibilità, denunciare il tentativo di addomesticamento e lottare affinché esso non vada in porto, evidenziando i tratti di non coincidenza fra i due universi.
Ma indipendentemente dalle finalità future per le quali occorrerebbe adoperarsi, rimane un dato oggettivo presente: il discorso di Greta appartiene attualmente ad un campo narrativo e valoriale che si coniuga molto più con il discorso e la prassi politica di Xi Jinping che con quelli di Donald Trump. E se riteniamo che nello scontro tra Cina e Usa sia oggi in atto uno scontro tra progresso e reazione, per quanto quella di Greta possa costituire una spinta soltanto culturale-morale, essa nondimeno, all’interno di un tale campo, non può che configurarsi come una spinta di carattere progressivo.
[1]La lezione di Greta ai leader del mondo: «Ci state rubando il futuro», Corriere della Sera, 17-12-2018.
[2]Ibidem.
[3]Ona: a Taranto +500% di tumori tra lavoratori dell’ex Ilva, La Stampa 27-04-2019.
[4]Cfr. Gela, il petrolchimico e l’inferno dei bambini, L’Espresso, 10-12-2015; Gela, ex operaio: “Seppellivo rifiuti del petrolchimico Eni. Mi dicevano che qui sarebbero morti tutti di tumore”, Il Fatto Quotidiano, 03-11-2018.
[5]Sull’impiego del Semiautomatico Benelli M4 Super 90 (M1014 JSCS) nella guerra in Afghanistan e in Iraq, cfr. https://www.militaryfactory.com/smallarms/detail.asp?smallarms_id=169.
[6]D. Losurdo, Il marxismo occidentale, Laterza, Roma-Bari 2017, p. 62.
[7]A. Gramsci, Domande a Bruno Buozzi, in Id., Per la verità, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 310-311.
[8]Clima: Trump annuncia l’addio all’accordo di Parigi. Europa e Cina contro: ‘Indietro non si torna’, ANSA, 03-06-2017.
[9]Xi Jinping, Un ambiente migliore per una “Cina bellissima”, in Id, Governare la Cina, Giunti, Firenze 2016, pp. 261-262.
[10]Ivi, Avanzare verso una nuova era di civiltà ecologica del socialismo, in Id, cit., pp. 263-266.
[11]Cfr. su ciò, G. Marrucci, Civilizzazione ecologica e Cina green, in F. Giannini-F. Maringiò (a cura di), La Cina della Nuova Era, La Città del Sole, Napoli 2019, pp. 245-273.
[12]M. Gabbanelli-M. Gaggi, La guerra all’ambiente di Trump: sì ad amianto, carbone e pesticidi, Corriere della Sera, 09-08-2018.
[13]Su ciò cfr. E. Alessandroni, Su rossobruni e dintorni. Logica meccanicistica e logica dialettica, Contropiano 23-01-2019.
[14]M. Blondet, Facciamo un esperimento con Greta, 14-04-2019: https://www.maurizioblondet.it/facciamo-un-esperimento-con-greta/.
[15]Greta Thunberg a Sky Tg24: “Con Trump i fatti non funzionano. Non ho tempo per lui”, Affaritaliani.it, 15-04-2019.
[16]Donald Trump ist nur ein sehr gefährlicher Verrückter, Welt, 15-03-2019.
[17]F. Costa, Greta Thunberg ha ragione, ma sbaglia bersaglio, Il Post, 14-03-2019.