Di Giorgio Langella – Responsabile nazionale dipartimento lavoro PCI
Luana D’Orazio (22 anni), Laila El Harim (40 anni), Luisa Scapin (62 anni) tre donne, tre età, tre operaie morte in maniera orribile mentre lavoravano. Uccise da “macchine assassine”, scrive qualcuno … non è così. Sono state uccise da un sistema che fa della competizione, della fatica, del ricatto occupazionale, della quantità che si deve produrre in sempre minor tempo, della conseguente mancanza di attenzione, del taglio dei costi, cose necessarie per “restare sul mercato” e fare sempre maggior profitto. Vero e unico scopo finale, più importante della salute e della vita di chi lavora.
Così le tragedie, gli “omicidi sul lavoro” si susseguono a ritmo incessante. Il 21 ottobre la notizia che Luisa Scapin è deceduta dopo tre giorni dal gravissimo infortunio. Lo stesso giorno, Yaya Yafa di 22 anni, l’età di Luana, è morto all’Interporto di Bologna. Era il suo terzo giorno di attività come lavoratore interinale. E, in questi giorni, altri morti. Lavoratori ultrasessantenni come Romano, operaio di 70 anni, precipitato dal tetto di un capannone, come il muratore di 66 anni caduto mentre lavorava, come Paolo di 61 anni schiacciato da un vagone ferroviario …
Da inizio anno al 21 ottobre, sono 585 le lavoratrici e i lavoratori morti a causa di infortunio nei luoghi di lavoro. Una media spaventosa di 60 “omicidi bianchi” al mese che diventano oltre 1180 se si considerano anche i decessi in itinere (fonte Osservatorio Nazionale morti sul lavoro).
Un’emergenza che va affrontata con decisione. Questo viene dichiarato da chi è nelle istituzioni e governa. Poi si fa qualche promessa del tipo “vedrete” o “faremo” o “stiamo pensando” e tutto ritorna nella normalità delle centinaia di morti ogni anno. Cambia poco o niente. E non si può pensare che basti fare formazione (necessaria, per carità, nessuno vuole dire il contrario) o prevenire o condannare (spesso solo a parole) o aumentare le sanzioni (quasi sempre solo pecuniarie) … ci vuole di più.
Si deve agire per garantire che il lavoro sia meno faticoso e alienante, cancellare la precarietà e il caporalato, impedire turni di lavoro insopportabili e retribuzioni che non permettono di condurre una vita serena e dignitosa. Bisogna capire (e legiferare in tal senso) che chi è anziano è più esposto ai pericoli, che ha diritto al riposo, che deve poter smettere di lavorare e ricevere una pensione adeguata a vivere.
Che sia normale che tanti siano sfruttati per il profitto di pochi è un dogma che ci viene inculcato da tanto tempo e troppi si sono convinti che quella nella quale viviamo sia l’unica società possibile. Non è e non può essere così. Ogni giorno vediamo lo sfruttamento, tocchiamo con mano l’ingiustizia di un sistema che permette a pochi ricchezze stratosferiche e diffonde una povertà crescente. Lo facciamo contando chi si ammala, chi si infortuna, chi muore mentre lavora; lo capiamo (lo dovremmo capire) assistendo alle chiusure delle attività produttive e a migliaia di licenziamenti, osservando come si lavora e che si vive in perenne precarietà, malpagati, sfruttati, ricattati.
È necessario distribuire a tutti il lavoro e la ricchezza prodotta. Non possiamo aspettare sperando che siano altri ad interrompere il massacro di vite e di diritti. Dobbiamo lottare perché quel dogma sia cancellato e che si possa lavorare meglio, meno, in sicurezza e giustamente retribuiti.