La sentenza Turetta e la banalizzazione della violenza di genere

La recente sentenza della Corte d’Assise di Venezia, che ha condannato Filippo Turetta all’ergastolo per l’omicidio brutale di Giulia Cecchettin – accoltellata 75 volte – rappresenta un momento importante ma non risolutivo nella lotta alla violenza di genere. Il rischio concreto è che l’attenzione si concentri solo sulla pena, senza interrogarsi sulle radici culturali e strutturali che rendono possibile una simile brutalità. La motivazione che ipotizza un “raptus” come elemento scatenante del delitto è particolarmente preoccupante, poiché tende a isolare l’evento da un contesto sistemico e preesistente di disuguaglianza e sopraffazione.

Questa narrazione, che riduce il crimine a una reazione emotiva incontrollata, è pericolosa e si inserisce in una visione patriarcale che continua a minimizzare l’entità della violenza di genere. Non si tratta di un “momento di follia”, ma di un comportamento radicato in dinamiche culturali, educative e sociali disuguali. La violenza maschile è il prodotto di una cultura che spesso insegna ai giovani a non rispettare i confini emotivi e fisici, alimentando così un ciclo di abusi e discriminazioni.

In questo contesto, è fondamentale non cadere nella trappola della retorica del governo attuale, che propone soluzioni superficiali come l’ergastolo per tutti i femminicidi, senza affrontare le cause profonde del fenomeno. La violenza di genere non si combatte con pene più severe, ma con interventi educativi e politiche che operano sulla prevenzione, promuovendo una cultura di rispetto, parità e gestione sana delle emozioni. Solo così si potranno affrontare le radici economiche, culturali e sociali che perpetuano la violenza.

Il sistema capitalistico, con la sua spinta verso l’individualismo e il narcisismo, contribuisce a formare giovani che non sono preparati ad affrontare le proprie emozioni in modo rispettoso. Questo è il vero campo di battaglia: quello dell’educazione, che deve trasformare la cultura in modo che il rispetto reciproco diventi un valore fondamentale. Non possiamo permettere che soluzioni palliative nascondano l’inerzia di chi detiene il potere. Inoltre, va sottolineato che l’ergastolo, purtroppo, non è una risposta adeguata. Non affronta le cause della violenza e non impedisce che altre donne siano vittime di abusi. Il sistema giuridico e sociale fallisce nel proteggere le donne e nel prevenire i femminicidi, continuando a concentrarsi solo sulla punizione invece che su misure preventive concrete.

L’Assemblea delle Donne Comuniste – PCI ribadisce che la violenza di genere non può essere trattata come un fatto isolato. È urgente un cambiamento radicale che parta dalla cultura, dall’educazione e dalla politica per garantire alle donne sicurezza, dignità e rispetto. Solo così si onorerà davvero la memoria di Giulia e di tutte le donne vittime di violenza.

A.DO.C.

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