GRUPPO RILANCIO A.Do.C.

NOMECittà
Nunzia AugeriMilano
Paola BagliniCascina (Pisa)
Dina BalsamoEboli (Salerno)
Maria Carla BaroniMilano
Michela BernardiBologna
Loretta BoniAncona
Laura BottaiArezzo
Francesca BruniSiena
Cristina CirilloRoma
Enrica CivelliMilano
Ada DonnoLecce
Milena FioreRoma
Liliana FrascatiPadova
Perla GiagnoniPrato
Marica GuazzoraTorino
Pina La VillaCatania
Corinne PaliddaGenova
Lidia ManganiAncona
Gabriella ManganoniAosta
Patrizia MarongiuSassari
Lydia MastrantuonoNapoli
Agnese PalmaAprilia (Latina)
Selene ProdiReggio Emilia
Angela RavoAversa (Caserta)
Betty ToffoloVenezia
Amel SehiliBologna
Per contattare l’ADoC, rivolgersi a Maria Carla Baroni

PARTITO COMUNISTA ITALIANO

PER L’ASSEMBLEA DELLE DONNE COMUNISTE: Documento Programmatico

1) La situazione delle donne in Italia rispetto al contesto internazionale e le cause dell’arretratezza. Nel Rapporto Globale 2017 sulle Disuguaglianze di Genere (Global Gender Gap Report), che comprende informazioni e dati compilati e/o raccolti dal World Economic Forum di Ginevra, l’Italia è all’82esimo posto su 144 Paesi considerati, mentre nel 2015 era al 50esimo posto. La stessa O.N.U., all’inizio del 2012, aveva indicato l’Italia come caso di studio, insieme ad alcuni Stati arabi, per quanto riguarda la scarsa applicazione della Convenzione per eliminare la discriminazione contro le donne (C.E.D.A.W.), approvata dall’Assemblea generale dell’O.N.U. nel
1979 e ratificata dall’Italia nel 1985. In merito alla presenza femminile nei Parlamenti nazionali, l’Italia ha migliorato la sua posizione rispetto al passato: si colloca infatti al 28° posto nel mondo con il 35,7% di donne alla
Camera e del 35,3% al Senato, ma in posizione molto più arretrata rispetto – ad es. – a numerosi Paesi africani, in cui la democrazia rappresentativa è assai più giovane. Per concludere sullo spaccato a livello mondiale facciamo notare che l’Agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile (programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre 2015 dai 193 Paesi membri dell’ONU) indica come suo Obiettivo 5 uguali diritti e potenzialità tra donne e uomini. Bisognerebbe analizzare che cosa fa l’Italia per adempiere a tali obblighi internazionali.

Intanto limitiamo il campo di confronto all’Europa, per evidenti motivi di affinità socioeconomica e geopolitica; ad es. il tasso di occupazione femminile è più basso della media europea, con enormi disparità territoriali, da oltre il 60% a Milano al 29% della Sicilia. Consapevoli
dell’arretratezza italiana rispetto a quanto avviene nei Paesi più sviluppati del nostro continente, ne individuiamo come possibili cause storiche:

1) il ritardo nell’industrializzazione, verificatasi in Italia nell’ultimo decennio dell’800, e il conseguente ritardo nell’ingresso massiccio delle donne nel mondo del lavoro dipendente retribuito, avvenuto soltanto negli anni ’70 del secolo scorso, eccetto che nei periodi delle due guerre mondiali, durante i quali le donne erano state massicciamente reclutate per sostituire gli uomini al fronte, per poi essere espulse poco dopo;

2) il fascismo, con i suoi quasi venticinque anni di oppressione, particolarmente ottusa e feroce nei confronti delle donne, considerate unicamente come fattrici di nuovi esseri umani, meglio se maschi, da usare come carne da cannone per conquistare l’Impero;

3) l’incombenza nella politica italiana dello Stato della Città del Vaticano, caso unico al mondo di una religione fattasi Stato, frutto particolarmente avvelenato del fascismo, con il Concordato del 1929, che Antonio Gramsci aveva considerato una interferenza di sovranità da parte di uno Stato estero, di fronte al quale lo Stato italiano aveva capitolato. Dopo la fine della D.C. e del suo ruolo di mediazione tra Stato e Chiesa, suoi esponenti si sono
sparpagliati in quasi tutti i partiti politici, condizionandone le azioni in merito alla condizione delle donne, ai diritti civili e all’autodeterminazione nelle scelte di vita e di morte, e lo stesso Vaticano per molti decenni è sceso direttamente in campo come soggetto politico in proprio, e quindi portatore di posizioni relative, pretendendo però di rappresentare verità assolute e valori non negoziabili in quanto di origine divina. Come cause culturali e insieme strutturali della particolare arretratezza della condizione della
donna in Italia rispetto all’Europa possiamo evidenziare:

1) le caratteristiche del capitalismo nostrano, che generalmente non investe in ricerca e innovazione nelle scelte produttive, né in formazione, motivazione e fidelizzazione dei e delle dipendenti, ma punta tutto sulla riduzione del costo del lavoro (basse retribuzioni, precariato, assunzioni prevalentemente in qualifiche medio basse, preferenza all’assunzione di uomini che non vanno in maternità). La dirigenza delle imprese negli altri Paesi è invece assai più aperta riguardo: all’organizzazione del lavoro; ai congedi parentali per gli uomini (che favoriscono la condivisione dell’attività di cura tra i sessi, mentre in Italia si punta sulla conciliazione tra lavoro per il mercato e lavoro di cura, in sostanza posto a carico solo
delle donne, nonostante prime, esilissime, aperture legislative); e pure più aperta alla presenza femminile ai massimi livelli direttivi, che fa migliorare l’organizzazione del lavoro, le relazioni interpersonali e l’efficienza complessiva dell’impresa;

2) il “virilismo”, o culto della virilità, inventato alla fine dell’Ottocento per proteggere la mascolinità tradizionale in un’epoca di grandi trasformazioni economiche e sociali, divenuto pilastro delle culture autoritarie e nazionaliste, associato con i principi di gerarchia, forza e autorità, che, in concomitanza con le vicende storico-politiche, ha dimostrato e dimostra una persistenza straordinaria nella cultura italiana, anche se da qualche anno alcune associazioni e gruppi di uomini riflettono criticamente sul modo atavico di essere uomini e ricercano una nuova identità maschile;

3) il familismo, struttura antropologica della società italiana, non compensato, nonostante le lotte delle donne comuniste e di sinistra in generale, da adeguate politiche pubbliche e da uno Stato Sociale equamente diffuso nell’intero Paese, così da socializzare il lavoro di cura, che, in ogni caso, deve essere condiviso tra donne e uomini;

4) una classe politica caratterizzata da una bassissima presenza di lavoratori e lavoratrici dipendenti.

La discriminazione delle donne rispetto agli uomini è stata ed è tuttora (tranne eccezioni e iniziative recenti) perpetuata dal sistema scolastico: nei libri di testo di ogni ordine e grado vengono riconfermati gli stereotipi di genere riguardo ai compiti “tradizionali” di uomini e donne, agli studi e ai lavori più adatti a un sesso piuttosto che all’altro e viene ignorata la storia
delle donne nel tempo, dall’antichità a oggi; l’ apporto che le donne hanno sempre dato alla produzione del cibo (a partire dalla nascita dell’agricoltura); all’economia (con il loro lavoro non retribuito nei campi, nelle botteghe artigiane, nei conventi); alla politica ( le numerosissime
donne singole determinanti in ogni tempo e Paese sia in ruoli di potere e di governo, sia di contestazione e le donne delle classi popolari negli avvenimenti più importanti della Storia, dalle popolane di Parigi nella presa della Bastiglia alle operaie di Pietrogrado nella Rivoluzione d’Ottobre); l’apporto alle arti e alle scienze, nonostante l’esclusione – tranne eccezioni – dall’istruzione e dal sapere istituzionalizzato (ad es. l’esclusione dalle università fino agli inizi del Novecento).

Non diversamente dal sistema scolastico si comporta il mondo dei media, e proprio per questo nel 2011 è nata GiULiA, Giornaliste Unite Libere e Autonome, rete che si batte contro tutti gli stereotipi nell’informazione e nella pubblicità, che, pure se meno spesso rispetto al passato, presentano ancora la donna e il corpo femminile come richiamo per gli acquisti.
E il doppio linguaggio di genere – linguaggio sessuato – stenta ancora a generalizzarsi anche tra persone istruite e/o di sinistra: tale linguaggio è sempre stato utilizzato per la condizione servile e per le basse qualifiche lavorative, mentre si contesta che debba essere utilizzato anche per posizioni di prestigio, come gli incarichi istituzionali, le professioni liberali
e le alte qualifiche, dalle quali un tempo le donne erano escluse.
Diventa dunque fondamentale che l’intero sistema scolastico e formativo e il mondo dell’informazione usino correttamente il linguaggio di genere, attuino l’inclusione e la valorizzazione di tutte le differenze – mediante specifici progetti di educazione alle differenze – e facciano conoscere la storia delle donne, non solo dal punto di vista economico e politico, ma
anche le notevoli opere di creatività, di pensiero e di ingegno da loro prodotte nel corso del tempo, talora rubate da uomini a loro vicini e sempre oscurate da una storia scritta dagli uomini: opere riscoperte in questi ultimi decenni, a partire dai “women’s studies” delle università anglosassoni, e anche in Italia da parte di numerose scrittrici e studiose.

A portare la condizione delle donne italiane al livello europeo non sono bastate l’esistenza: né del più grande partito comunista d’Occidente (in cui non mancarono maschilismo, miopia e ritardi nei confronti dei movimenti e dei diritti civili e, nei primi tempi, subordinazione al perbenismo borghese); nè di un forte movimento operaio e sindacale e di storiche lotte delle donne a partire da poco dopo la Liberazione (le tabacchine al Sud, le operaie tessili nelle fabbriche del Nord, le mondine della pianura padana, le mezzadre, le braccianti e le casalinghe del Sud nelle occupazioni delle terre incolte per la riforma agraria, le impiegate statali); né la partecipazione alla
Resistenza e a ogni campo delle scienze e delle arti, nè di donne nell’Assemblea Costituente e in Parlamento, che, seppure in poche, diedero un contributo determinante all’assetto istituzionale repubblicano e poi alla legislazione in molti campi; né l’esistenza di un innovativo movimento
studentesco e – dall’inizio degli anni ’70 – di un movimento femminista plurale e attivo, che incise e incide tuttora nella società, anche se non ancora abbastanza, ma che non affrontò le questioni dell’accesso delle donne al potere politico ; né le lotte vincenti per i diritti civili e per
l’autodeterminazione innescate dai e dalle radicali e fatte proprie dal movimento delle donne.

Soggetti e fenomeni che, favoriti dal diffondersi dell’industrializzazione e dal miglioramento delle condizioni socioeconomiche, avevano comunque determinato – dalla fine degli anni ’60 all’inizio degli anni ’80 – la grande ondata di riconoscimento dei diritti sociali e civili (del lavoro e delle donne soprattutto), di leggi a tutela della salute fisica e psichica, delle case popolari, del territorio e dell’ambiente, comportando la modernizzazione e la laicizzazione della società italiana.

2) L’oppressione delle donne come questione specifica.
L’oppressione di genere, con le disuguaglianze e le discriminazioni che ne derivano, è questione specifica, non riconducibile alla contraddizione di classe, non risolvibile nè mediante la lotta di classe di per sè sola, né mediante un generale miglioramento delle condizioni socioeconomiche, quale quello che si era verificato nei decenni ’70 e ’80. Diamo qualche cenno storico. Importanti studi pluridisciplinari che hanno utilizzato il metodo di analisi marxista hanno messo in luce come nelle società preistoriche a base comunitaria ed egualitaria era assente qualsiasi forma di dominazione maschile e che le donne, fin dalle primitive società cacciatrici e raccoglitrici
hanno sempre avuto ruoli produttivi (non ultima la caccia) accanto alla funzione riproduttiva e a quello che oggi chiamiamo lavoro di cura; e che sono state le donne, osservando la natura e poi, provando e riprovando,a dar vita nel tempo all’agricoltura, che ha permesso il passaggio a comunità
stanziali, alla produzione di surplus alimentari e alla suddivisione in ruoli sociali e in classi. L’oppressione di genere risale all’inizio della storia e ha caratterizzato anche civiltà per altri aspetti grandi, come quella greca (che dal punto di vista dei diritti politici equiparava le donne agli schiavi) e quella ebraico/cristiana; non dimentichiamo inoltre che la stessa Rivoluzione Francese, la quale, portando la borghesia alla ribalta della storia, ha prodotto la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (inteso solo come genere maschile), ma ha decapitato Olympe de Gouges,
che aveva osato scrivere la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina. Non dimentichiamo le stesse lotte operaie dell’800 e dell’inizio ‘900, in cui gli operai erano contrari all’assunzione delle donne della loro stessa classe, viste come concorrenti nella rincorsa alla sopravvivenza.

Non dimentichiamo che anche adesso sindacalisti uomini firmano accordi che penalizzano le operaie rispetto agli operai, ad es. escludendole di fatto dal premio di produzione. Se il sindacato accetta che il salario sia in parte significativa basato sulla produttività legata alla presenza, questa conseguenza è inevitabile, ma è indispensabile metterne in luce la discriminazione contro le donne.

Per chiarire una volta per tutte che le discriminazioni e le disuguaglianze tra i sessi esistono anche all’interno delle classi lavoratrici e della stessa condizione operaia, citiamo alcuni passaggi dell’inchiesta Fiom del 2008 sulle condizioni di lavoro e di vita delle donne metalmeccaniche.
“Dall’inchiesta (sulle condizioni di lavoro nel settore metalmeccanico in Italia) emerge anche una questione specifica, che è quella femminile, drammaticamente presente come condizione di maggior svantaggio e di maggiore sofferenza su tutti gli aspetti, così che anche quando le
condizioni di lavoro sono pessime per tutti, per le donne finiscono sempre per essere peggiori”. E ancora: “Le donne continuano a vivere una condizione di maggior fatica e di maggior sfruttamento, perché a loro continuano a essere offerti i posti di lavoro peggiori e perché su di loro pesa tutto il lavoro riproduttivo”. E ancora: “le donne guadagnano sempre meno (degli uomini), anche a parità di livello, di anzianità lavorativa, perfino di orario di lavoro”: E ancora: “Per le donne, inoltre, i ritmi di lavoro sono più incessanti e i margini di autonomia e di controllo della prestazione minori”.
Quasi in ogni tempo e paese (escluse attualmente le pochissime comunità matriarcali tuttora esistenti, ad es. i Moso nello Yunnan e i Minangkabau a Sumatra), così come in ogni classe sociale, sia pure in forme diverse e di diversa gravità, le donne sono state e sono tuttora oppresse, svantaggiate, discriminate e ostacolate, dagli uomini e rispetto agli uomini, proprio in quanto donne.

Tuttora, anche in Italia, le donne – nonostante alcune norme di legge che prescrivono parità di diritti – sono discriminate nell’accesso al lavoro, nelle diversità retributive a parità di qualifica e mansione (soprattutto nelle piccole e medie imprese), nell’accesso a posizioni di vertice nelle
imprese private, nella Pubblica Amministrazione, nelle università, nelle istituzioni e nei partiti politici, e perfino negli sport, in quanto per legge non possono diventare professioniste. Qualche esempio. Vi è una sola donna alla Corte costituzionale su 15 componenti (il 6,6%) e ve ne sono 4 nel Consiglio superiore della magistratura su 27 (il 14,8%), anche se le magistrate sono il 52% della magistratura e nell’ultimo concorso il 63% delle persone vincitrici sono state donne. Nel mondo accademico sono donne il 52% dei dottori di ricerca, e via via decrescendo man mano che si sale: sono donne il 48% dei ricercatori, il 37% dei professori associati, il 22% degli ordinari. Le mediche iscritte all’albo hanno ormai superato i medici di oltre 4.000 unità, ma le
primarie ospedaliere sono appena il 15,6% del totale dei primari.

Le posizioni di vertice nei principali quotidiani nazionali sono coperte per il 91% da uomini e per solo il 9% da donne. Per quanto riguarda le differenze salariali, un aggiornatissimo studio delle organizzazioni confindustriali di Torino, Cuneo, Milano, Bergamo, Brescia e Vicenza rileva che, a parità di ruoli e funzioni, le donne guadagnano mediamente meno degli uomini a tutti i livelli: – 14% tra gli operai, – 16,5% tra gli impiegati, – 6% tra i quadri e -18% tra i dirigenti. Non si tratta quindi – lo ribadiamo – di questione di classe, ma di discriminazione di genere in tutte le classi sociali. E’ del tutto
evidente, però, che le operaie, come anche, ad es., le commesse e le cassiere della grande distribuzione commerciale, subiscono sia l’oppressione di classe, sia la discriminazione di genere. Ricordiamo poi che in Italia fu il fascismo ad accentuare pesantemente le differenze salariali a scapito delle donne per indurle a lasciare il lavoro in cui avevano sostituito gli uomini al fronte durante la prima guerra mondiale e che la parità retributiva a parità di qualifica e di mansione è stabilita in Costituzione (art.37), oltre che nella Dichiarazione dei diritti umani del 1948 (art.23) e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000 (art.23).

Che esista una tragica, inaccettabile, dominazione degli uomini sulle donne è poi dimostrato dal fatto che è tuttora esercitata, in tutto il mondo cosiddetto civilizzato e in tutte le classi sociali, dai dirigenti e dai professionisti come dagli operai e dai sottoproletari, la violenza degli uomini contro le donne: violenza fisica (dalle botte al femminicidio), sessuale ( dalle molestie sessuali ai ricatti sessuali sul luogo di lavoro fino allo stupro), atti persecutori (stolking), violenza psicologica
(minacce, umiliazioni, distruzione dell’autostima) ed economica. Il femminicidio è esercitato soprattutto dal compagno o dall’ex compagno di vita, che non riesce ad accettare la libertà delle donne nel porre fine a una relazione; è quasi sempre premeditato e prevedibile e le istituzioni
(servizi sociosanitari pubblici, forze dell’ordine, magistratura), spesso tuttora impregnate di sessismo, non sono capaci di contrastarlo, e poi di valutarlo, quanto e come sarebbe necessario. Altro dato su cui riflettere: le donne con disabilità sono colpite da violenze fisiche o sessuali in una
percentuale più di tre volte maggiore rispetto alle altre donne e la violenza domestica sulle donne disabili viene denunciata in percentuale minima, solo nel 10% dei casi. Questa situazione è ben evidenziata dal rapporto ombra che una trentina di associazioni di donne ha da poco presentato al Gruppo di esperte sulla violenza di genere del Consiglio d’Europa, che si occupa di monitorare l’applicazione della Convenzione di Istambul del 2011, nata proprio per contrastare tale violenza, ratificata dall’Italia nel 2013.

Però, come ha messo in evidenza il movimento Non Una Di Meno, partito dall’Argentina nel 2015 e ormai diventato planetario (che nel nostro Paese comprende donne di ogni età, dalle femministe storiche a moltissime donne giovani e giovanissime), la violenza contro le donne non è solo la violenza domestica esercitata dal compagno o dall’ex compagno di vita o da altro familiare, ma è soprattutto quella messa in atto dal sistema capitalistico in quanto tale congiuntamente al patriarcato. Per questo Non Una Di Meno ha elaborato un piano contro la violenza sulle donne che è contemporaneamente femminista e anticapitalista. Il patriarcato, che non è affatto frutto di natura, ma di storia e di cultura e risale a vari millenni fa, è dunque ben più antico del capitalismo, ma è stato da questo assunto in quanto funzionale a mantenere divisioni nel corpo sociale, anche all’interno delle stesse classi lavoratrici.

3) Le donne nel lavoro dipendente. Conseguenze.
Occorre ora qualche altra considerazione in tema di lavoro dipendente. Il tasso di occupazione è assai differenziato per classi sociali: nella classe dirigente è del 65%, inferiore a quello delle famiglie impiegatizie, ma più che doppio di quello delle famiglie a basso reddito, che è del 31,8%.
A fronte di un lieve aumento del numero delle occupate dal 2007 al 2017, la qualità dei posti generati è peggiorata: aumento del tempo parziale involontario, prevalenza del tempo determinato e dei contratti precari e ultraprecari: il lavoro precario rende precaria anche la vita. Nel settore della Grande Distribuzione Organizzata in particolare vigono: orari spezzettati lungo il corso della giornata, che partono dalla mattina presto e contemplano il lavoro serale; il lavoro domenicale, coperto per il 61% da donne; il frequente cambiamento di orari e di turni – in base al prevedibile
flusso della clientela – determinato da algoritmi e quindi sottratto alla contrattazione sindacale.
Tutto ciò rende il lavoro incompatibile con qualsiasi altro aspetto della vita individuale, familiare, di relazione, collettiva: per tutti, ma soprattutto per le donne, su cui grava il lavoro di cura.
In tutti i settori, nelle fabbriche, nell’agricoltura e nella distribuzione commerciale le donne sono occupate prevalentemente in mansioni non specializzate, di routine, quelle che nei prossimi vent’anni saranno massicciamente minacciate dalle trasformazioni tecnologiche, come ha messo in evidenza un recente studio di sei economiste del Fondo Monetario Internazionale; l’automazione colpirà quindi – in proporzione – più le donne degli uomini. Il caporalato e il supersfruttamento in agricoltura fiorenti in alcune regioni non risparmiano le donne, italiane e immigrate. Segnaliamo
poi l’intollerabile presenza del precariato tra le lavoratrici della scuola, da stabilizzare.
Vi è poi il lavoro a domicilio, quasi esclusivamente femminile, che isola le donne, le intrappola in posizioni lavorative basse e prive di autonomia e di possibilità di sviluppo, e impedisce qualsiasi distacco anche psicologico fra tempo di lavoro e tempo di vita, nell’illusione che consenta di conciliare meglio salario e cura di figli/e e vecchi/e. Ennesima forma di
subordinazione e oppressione cui le donne sono sottoposte dalla carenza di servizi educativi e sociosanitari, da orari di lavoro troppo lunghi per tutti/e e dall’arretratezza culturale e politica che permea ancora la società italiana in merito alla divisione dei ruoli tra i sessi.

Per quanto riguarda il lavoro femminile dipendente potremmo concentrare approfondimenti e iniziative su quattro tipologie: fabbriche, grande distribuzione organizzata, scuola e sanità, per una combinazione di fattori che le accomuna, sia pure con diversa entità, e cioè per l’elevata concentrazione di lavoratrici, per le peculiari caratteristiche –anche se diverse tra loro – che contraddistingue il lavorare in queste tipologie e per il particolare significato che la prevalente presenza femminile potrebbe portare all’umanizzazione dell’organizzazione del lavoro e alla
produzione di servizi pubblici fondamentali.
Inevitabile conseguenza del fatto che tra le donne sono più elevate la disoccupazione, la sottoccupazione, il precariato e l’inoccupazione, che siano costrette a restare a casa temporaneamente o per sempre a causa dei figli, che mediamente guadagnino di meno per le mansioni ripetitive più frequentemente svolte e per le disuguaglianze retributive rispetto agli
uomini, è che le donne percepiscono mediamente pensioni più basse e che la povertà – in aumento in tutto il Paese, anche se con forti disparità territoriali e molto maggiore al Sud – sia prevalentemente donna.

Un libro dell’ottobre 2018 scritto da donne – “Se il mondo torna uomo” (Edizioni Alegre) – ha messo in luce come da più parti, che sono comunque espressione del sesso maschile tuttora dominante – senza che per questo vi sia tra esse un progetto unitario – , sia stato posto in atto un attacco all’ascesa delle donne e ai loro movimenti: dalle destre radicali e dagli integralismi religiosi in materia di sessualità e riproduzione, dal neoliberismo – con i tagli allo stato sociale e con nuove forme di sfruttamento e di organizzazione del lavoro – ad alcune istituzioni che puntano allo sgombero degli spazi in cui le varie anime del femminismo operano da molto tempo, a vantaggio non solo delle donne ma delle intere classi subalterne. Ancora più difficile è la situazione delle donne immigrate, in aumento, che sempre più spesso arrivano da sole e – secondo le aree geografiche di provenienza – o per poter mantenere la famiglia nel Paese d’origine o per liberarsi da situazioni matrimoniali e familiari insostenibili.

In Italia si inseriscono nella grande maggioranza dei casi nel “terziario povero” o nei servizi alle famiglie, come colf o come “badanti” : termine che svilisce sia loro sia le persone di cui si prendono cura. Le immigrate che nel nostro Paese riflettono sulla loro condizione ci hanno fatto notare che
proprio la loro presenza testimonia il fallimento dell’emancipazione, dato che le italiane, più delle altre donne europee, hanno mancato l’obiettivo di conquistare la condivisione con gli uomini del lavoro di cura e servizi sociali ed educativi adeguati. Paga in nero, mancanza di riconoscimento contrattuale, giornata lavorativa senza limiti con l’impossibilità di tenere separati gli ambiti di vita e di lavoro collocano tali lavoratrici a uno dei gradini più bassi della gerarchia del lavoro anche quando possiedono (come spesso accade) livelli medioalti di istruzione e qualificazione.

4) Il compito delle comuniste e dei comunisti.
Questo è lo scenario di dominazione maschile – a tutti i livelli e in tutti gli ambiti – in cui dobbiamo operare. Il PCI, proprio in quanto si pone l’obiettivo di ricostituire nel tempo un partito comunista di massa in grado di superare il sistema capitalistico, non può più eludere la contraddizione di genere in tutta la sua portata, che va affrontata insieme a quella capitale lavoro e a quella capitale natura. Le tre contraddizioni si intrecciano in molti modi e senza capire e affrontare questi intrecci, e senza tener conto degli apporti dei movimenti femministi e ambientalisti, non è possibile dotarci di una teoria e di una prassi che ci consentano di perseguire scopi ambiziosi e difficili da raggiungere come quelli che ci poniamo.
E proprio perché agisce nel Paese europeo con la più arretrata condizione femminile, il nostro partito – in quanto partito comunista al passo con i tempi e inserito in una realtà complessa e multiforme – ha il dovere politico ed etico di farsi carico della contraddizione di genere con tutta la
determinazione necessaria. Quale altro soggetto politico italiano può assumersi questo compito se non il PCI?
Occorre però partire da un dato di fatto: il PCI non è in grado – attualmente – di interessare, attirare e aggregare le donne, che costituiscono il 52% della popolazione italiana. Tutti i partiti italiani soffrono di una scarsa partecipazione femminile, non perché le donne non siano propense a un impegno sociale o collettivo, tanto è vero che sono numerosissime – spesso
prevalenti – e sempre molto attive nei movimenti misti e nel volontariato, laico e cattolico: quanto piuttosto per la struttura stessa dei partiti politici, che sono organizzazioni gerarchiche e selettive pensate da uomini per gli uomini, in un’epoca in cui le donne erano totalmente relegate nella
dimensione privata, cioè privata della dimensione pubblica. Questa non è una né una giustificazione, nè una consolazione: è una presa d’atto
indispensabile da cui partire.

Il PCI si è accorto dell’ enorme squilibrio nella sua composizione di genere – presente negli stessi soggetti che lo avevano fatto rinascere ed evidentissimo in ogni riunione nazionale e locale ai vari livelli – nel suo documento costitutivo del 2016, nel paragrafo intitolato: “ La liberazione della donna è una prospettiva comunista”, frutto del lavoro collettivo di alcune compagne. Impostazione assai significativamente rafforzata nella tesi del primo congresso, dal titolo “Non può esistere prospettiva comunista senza la liberazione della donna”.
La questione della differenza sessuale, però, nel corpo del partito è ancora spesso vissuta o come questione marginale che interessa solo le donne, o come questione di categoria o di soggetto debole da tutelare, o come argomento trito e noioso che ci si rifiuta di affrontare nonostante
sollecitazioni scritte e verbali, o come questione che si rimuove sostenendo che può essere affrontata e risolta solo in una prospettiva di classe, contro ogni evidenza storica e attuale; ciò significa che esiste ancor oggi, nel PCI come nell’intera società, una “questione maschile” più che una questione femminile.
La scarsissima partecipazione di donne alla vita del partito è un problema del partito: non è imputabile alle donne.
La crisi economica strutturale che dal 2007 interessa i paesi del Nord del mondo, colpisce pesantemente i ceti popolari e i ceti medi e, al loro interno, in particolare le donne; i tagli ai servizi pubblici e allo Stato sociale (che occupano molte donne e di cui causano la fuoriuscita dal mercato
del lavoro in proporzione maggiore che tra gli uomini) e il fatto che il lavoro di cura sia tuttora scaricato dal sistema quasi totalmente sulle donne (anche se si notano a livello individuale miglioramenti nel comportamento degli uomini più giovani) rendono inoltre oggettivamente molto più difficile riuscire a coinvolgere nell’ impegno politico persone particolarmente gravate da molteplici problemi.
Ma questa è la situazione in cui abbiamo scelto di operare e dobbiamo farlo al meglio delle nostre possibilità, con la consapevolezza che aprire il partito alle donne e alla differenza sessuale è parte fondamentale della costruzione del PCI. Dobbiamo agire su vari fronti:

1) tenere viva la memoria e promuovere la conoscenza delle grandi donne del Comunismo internazionale e nazionale, a partire da Camilla Ravera, da inserire nelle figure di riferimento della nostra azione di comunisti e comuniste italiani/e;

2) l’azione politica e culturale all’interno del partito con nuovi strumenti, che si trasformi in azione esterna in grado di contribuire sia alla crescita qualitativa e quantitativa del partito, sia al miglioramento della condizione delle donne nel nostro Paese;

3) l’individuazione e l’uso di norme e di meccanismi interni che agevolino la partecipazione delle compagne agli organismi e alle sedi decisionali, in analogia a quanto è sempre più diffusamente previsto dalla legislazione statale e regionale, nel nostro come negli altri Paesi europei, e da normative interne di molteplici soggetti pubblici e privati in ogni settore di attività. Interessante è quanto prevede lo statuto della CGIL, in base al quale nessun genere può essere rappresentato in misura inferiore al 40%: norma in vigore da anni e sostanzialmente rispettata.

4) L’Assemblea nazionale delle Donne Comuniste e le assemblee locali.
A questo fine nello Statuto del PCI compare come nuovo strumento:
l’Assemblea Nazionale delle Donne Comuniste (A.Do.C.) come luogo delle donne del partito, nel partito e per il partito, luogo aperto, accogliente, includente, in cui sperimentare e trovare parole, azioni e strategie per affermare la libertà femminile contro le discriminazioni in base al sesso dentro il partito e nella società, e per portare nella politica il punto di vista delle donne in merito a obiettivi, priorità, strumenti; costituito alla pari da tutte le compagne interessate a farne parte, dalle semplici iscritte alle dirigenti a ogni livello alle donne con incarichi istituzionali; senza numeri precostituiti e senza gerarchie; senza rappresentanze interne o esterne; funzionante con le modalità via via individuate dalle compagne partecipanti, mantenendo però – sempre – la totale apertura a tutte le
compagne che via via si aggiungessero.

Oltre all’A.Do.C. nazionale è fondamentale costituire Assemblee locali delle Donne Comuniste (A.Do.C. locali) a qualunque livello e in qualunque realtà territoriale ci siano le condizioni e la volontà di attivarle, eventualmente utilizzando anche nomi di gruppi già esistenti; con modalità di funzionamento consone alle esigenze e ai desideri delle donne che ne fanno parte, anche in modo differente da quanto individuato per l’A.Do.C.
nazionale, in modo da sperimentare e confrontare le esperienze; A.Do.C. aperte non solo alle iscritte, ma anche a simpatizzanti, a donne che si sentono comuniste ma non hanno mai fatto e non fanno parte di nessuna formazione politica, a quelle che ci guardano con interesse o anche solo con
curiosità, o che vogliono conoscerci, a donne che provengono da altri partiti o movimenti o associazioni o che ne fanno ancora parte in modo critico, o che finora non hanno sperimentato nessuna appartenenza, a ex compagne deluse che potrebbero ripensarci, a compagne che hanno interrotto l’attività e che forse potrebbero riprenderla su basi nuove.
Le A.Do.C. sono quindi luoghi in cui si confrontano e interagiscono i diversi modi di essere donne comuniste, sempre rafforzando e diffondendo la consapevolezza della differenza tra donne e uomini, non solo biologica, ma anche per quanto riguarda valori, desideri, priorità, e la consapevolezza dell’oppressione sistematica del genere maschile sul genere femminile, da cui le donne vogliono liberarsi; luoghi in cui cercare di coinvolgere le più giovani, perché esse rappresentano il futuro e devono affrontare difficoltà diverse da quelle affrontate a suo tempo – e anche oggi – da madri e nonne, come ad es. la grande difficoltà a poter essere – contemporaneamente – lavoratrici e madri; come luoghi in cui le più inesperte e le più timide
siano invogliate a parlare e a proporre; luoghi, per tutte, di confronto tra varie generazioni, di donazione reciproca di conoscenze ed esperienze, di arricchimento collettivo e di maggiore contatto con una realtà complessa; luoghi di riferimento in una società individualista e disgregata.
Le A.Do.C. hanno il compito di analizzare, approfondire, proporre, agire autonomamente su qualunque tema, e poi interagire e collaborare con gli organismi dirigenti del partito a ogni livello, arricchendolo con il punto di vista delle donne, con il doppio sguardo maschile e femminile.
L’A.Do.C. nazionale deve costruire relazioni stabili con le donne degli altri partiti comunisti nel mondo, a cominciare da quelli europei, con l’obiettivo di un rafforzamento reciproco, e partecipare sempre più ai movimenti e alle associazioni internazionali, come ad es. l’Associazione Donne della Regione Mediterranea.

Le A.Do.C. a ogni livello devono interagire con le donne dei partiti di sinistra, dei sindacati, delle Case delle Donne (ad es. di Roma, Torino, Milano, Lecce, ecc.), dei collettivi femministi, delle associazioni (come ad es. l’U.D.I., Unione Donne in Italia, che ebbe il merito di porre l’obiettivo della democrazia paritaria, 50% uomini e 50% donne, in ogni sede decisionale) e dei movimenti (come Non Una Di Meno), portandovi il proprio contributo di donne comuniste – con la prospettiva di una società egualitaria, possibile solo in una prospettiva comunista – e ricevendo contributi e stimoli significativi di analisi, conoscenza, esperienza e lotta e una buona carica di
entusiasmo. Meglio ancora: poichè come comuniste abbiamo il compito di stare sia nelle organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici sia nei movimenti, possiamo/dobbiamo svolgere un ruolo fondamentale di ponte, di messa in relazione tra donne delle varie forme della politica – ad es. tra
donne della Cgil e donne di Non Una Di Meno – su obiettivi comuni, che non mancano, cercando di spingere questi obiettivi comuni su contenuti sempre più avanzati. Ad es. possiamo proporre a tutta la Cgil di proclamare lo sciopero dell’8 marzo insieme a Non Una Di Meno, come hanno già
fatto gli anni scorsi alcune categorie.
Costruire relazioni, alleanze e unità d’azione tra soggetti in vario modo antagonisti rispetto al sistema capitalistico dovrebbe essere compito anche dei compagni, ma cominciamo da noi donne: dovrebbe essere chiaro a tutte e a tutti che il sistema ha interesse a che i vari soggetti rimangano divisi tra loro.

E’ importante per noi comuniste partecipare alle lotte delle donne in ambito locale, specie a quelle per il lavoro, per le case popolari, per la cura del territorio, dell’ambiente, del clima e della salute, per la scuola pubblica e laica. Tra le tante possibili campagne, azioni e lotte, ogni A.Do.C. locale scelga quella/e che ritiene più adatta/e a sé e prioritaria/e nella realtà territoriale in cui opera. Così come è importante partecipare alle giornate di lotta internazionali: l’8 marzo, che ricorda sia il rogo delle operaie tessili in una fabbrica di New York nel 1911, sia lo sciopero delle operaie
tessili di Pietrogrado nel 1917, che innescò di fatto la Rivoluzione d’Ottobre; e il 25 novembre, nel dicembre 1999 dichiarata dall’O.N.U. Giornata mondiale contro la violenza sulle donne a seguito dell’assassinio di tre giovani dominicane, le sorelle Mirabal, avvenuto il 25 dicembre 1960.
All’interno del partito le A.Do.C. servono anche per rafforzare il ruolo e il peso politico delle compagne, per migliorare le loro possibilità di proposta e di iniziativa, per sostenersi e rafforzarsi a vicenda nelle varie sedi e realtà in cui operano; conseguentemente anche per ottenere più incarichi in tutti gli organismi dirigenti, non come fine, ma come mezzo per attrezzare il partito a leggere e a capire meglio la complessità di quanto ci circonda con il doppio sguardo di genere, maschile e femminile: nell’interesse del partito, perché il partito possa agire con più efficacia e quindi crescere anche quantitativamente.

La democrazia paritaria negli organismi dirigenti a ogni livello è il nostro obiettivo: con quali strumenti culturali e statutari e con quali tappe raggiungerla concretamente è materia di approfondimento e discussione nell’A.Do.C. nazionale, nelle A.Do.C. locali, negli organismi dirigenti e nei congressi ai vari livelli. Fermo restando che A.Do.C. locali, operanti in realtà con maggiore presenza e partecipazione di compagne e condizioni generali più favorevoli, possano decidere, utilizzando i congressi territoriali e la proposta negli organismi dirigenti locali, di sostenere obiettivi più ambiziosi e di accelerare i tempi rispetto a quanto possibile a livello
nazionale. La democrazia paritaria negli organismi dirigenti e nelle nostre rappresentanze istituzionali non è solo questione quantitativa: bisognerà approfondire e decidere anche chi e con quali criteri sceglierà le compagne che ne faranno parte. Un contributo importante all’avanzamento del doppio sguardo di genere e al rafforzamento delle compagne verrà sicuramente dato dalla rivitalizzazione del blog “donnecomuniste” e dalla
partecipazione delle compagne all’arricchimento dei siti del partito, a cominciare da quello nazionale. Nei siti per cui si avrà la forza necessaria, si potrà creare una sezione dedicata alle donne e alla differenza sessuale, con un nome da individuare uniforme per tutto il partito, che contenga
anche il foglio telematico dall’omonimo titolo.

5) Adeguamenti politico/organizzativi e azioni possibili.
La consapevolezza della differenza sessuale comporta per il partito alcuni adeguamenti politico/organizzativi – anche per fotografare la realtà odierna e monitorarne le modificazioni nel tempo – che richiedono il coinvolgimento pieno non solo dei e delle responsabili organizzazione a
ogni livello, ma di tutto il gruppo dirigente a ogni livello:
1) inserire una compagna A.Do.C. in ogni dipartimento di lavoro del partito;
2) far sì che in ogni segreteria a ogni livello vi sia almeno una compagna;
3) distribuire materiale dedicato specificatamente alle donne in ogni competizione elettorale a ogni livello in cui ci presentiamo o da soli o in liste in cui compaiano il nostro nome e il nostro simbolo;
4) rilevare sempre e dappertutto i dati sugli iscritti suddivisi per sesso in ogni sezione e in ogni ambito provinciale e, quindi, regionale e nazionale;
5) rilevare la composizione per genere di tutti gli organismi dirigenti;
6) diffondere la composizione per genere degli iscritti e degli organismi dirigenti alle segreterie di tutte le federazioni, per stimolare una competizione costruttiva;
7) tenere presenti un 50% di compagne nell’individuare le candidature a incarichi di partito e a cariche elettive;
8) mettere a disposizione di ogni compagna facente parte di una segreteria l’elenco delle iscritte, con relativi recapiti completi, della sua sezione o federazione o regionale.

Possibili azioni per migliorare la partecipazione e il peso politico delle donne nel partito:

  • partire dalla condizione materiale e culturale specifica, dai bisogni e dai desideri delle donne
    nel lavoro politico quotidiano;
  • convegni, seminari e assemblee su contenuti e proposte interessanti direttamente le donne;
  • usare sempre il linguaggio di genere, parlato e scritto;
  • candidare un ugual numero di compagni e di compagne anche nelle teste di lista;
  • far partecipare anche compagne agli incontri decisionali con altri soggetti politici;
  • uomini e donne a relazionare in ogni iniziativa del partito e nelle presidenze dei congressi;
  • formazione dei compagni e delle compagne sulle questioni di genere con formatori di entrambi i sessi, a partire dai e dalle giovani della FGCI: se le compagne devono acquisire o accrescere la loro coscienza di essere donne, i compagni devono poter arrivare a mettere in
    discussione sia il modo tradizionale di essere uomini anche a livello individuale, sia il potere che esercitano nella società in quanto genere dominante;
  • negli scritti e nelle bibliografie tener presenti, consultare e citare anche testi scritti da donne;
  • puntualità nell’inizio delle riunioni e modalità facilitanti (poter portare i figli nelle sedi con forme di autorganizzazione, forme di sostegno reciproco con altre donne o uomini per la cura di figli e vecchi per la durata delle iniziative politiche, partecipazione alternata di padri e madri, fondi di solidarietà per la partecipazione a iniziative politiche fuori sede, ecc.).
    La prima azione esterna per interessare e coinvolgere più donne deve essere – lo ripetiamo – la predisposizione di iniziative e di materiale elettorale dedicato specificatamente alle donne e solo alle donne, come è stato fatto nelle elezioni politiche del marzo 2018, da estendere il più velocemente possibile a ogni competizione elettorale.
    Le donne sono sempre state ignorate dalle proposte elettorali di tutti i partiti: sta a noi richiamare l’attenzione sulla potenziale forza delle donne, far loro vedere che possono ottenere quanto loro serve proprio in quanto donne – non in quanto metà della popolazione –, che possono contare, che la liberazione delle donne è possibile, che un mondo anche di donne e per le donne è possibile.

9) Perché è importante rafforzare la partecipazione delle donne?
Rafforzare le donne nel partito e coinvolgere nel partito sempre più donne: per che fare? Per contribuire a risvegliare la forza delle donne qui e ora e a migliorare il mondo: per condividere alla pari con gli uomini il governo del mondo per poterlo cambiare alla radice.
Il mondo attuale, frutto di millenni di patriarcato e di secoli di capitalismo, è basato: sullo sfruttamento e sullo svilimento degli esseri umani durante il tempo di lavoro e durante il tempo in cui non si lavora, condizionato dal primo, e mediante la disoccupazione; sulla distruzione sistematica e progressiva della natura, del territorio, dell’ambiente, del clima, della salute umana e delle specie viventi; sull’oppressione e sulla violenza maschile sulle donne, di una ristrettissima classe dominante sulle classi subalterne, delle persone cosiddette “normali” su quelle più deboli o ritenute tali; sulle guerre per le risorse (energia, minerali e terre rare, acqua) e per i profitti derivanti dalla produzione di armi e dalla ricostruzione di ciò che prima è stato distrutto. Le donne vogliono un mondo basato: 1) sulla cura del territorio, dell’ambiente, delle città, degli esseri umani e della loro salute psicofisica e di tutte le specie viventi; su città e paesi riqualificati e rigenerati a misura di donne e bambini/e e quindi di tutti; 2) sul lavoro qualificato e con meno orario per tutti e tutte, che tenga insieme realizzazione personale e contributo al ben essere collettivo qualunque mansione si svolga; un lavoro a cui la tecnoscienza e le macchine di
qualunque tipo tolgano fatica, monotonia e stress, ma in cui il contenuto dei lavori, l’organizzazione del lavoro e gli orari (cioè il tempo di lavoro e il tempo di vita) siano contrattati dai lavoratori e dalle lavoratrici e dalle loro organizzazioni, non imposti da algoritmi e da macchine sempre più
sofisticate che generano nuovo sfruttamento e nuova schiavitù; 3) su uguali diritti e uguali opportunità per tutte e tutti indipendentemente dal luogo di nascita e dall’orientamento sessuale; 4) sulla partecipazione paritaria al governo del mondo a tutti i livelli. In questa prospettiva le donne comuniste devono da subito privilegiare due settori di lotta:

  • proporre e sostenere in ogni sede una grande vertenza generalizzata sulla riduzione significativa dell’orario di lavoro a parità di retribuzione per tutte e tutti; questa è l’unica rivendicazione che può ricomporre il frammentato e disperso mondo dei lavori dipendenti e
    falsamente autonomi, in quanto accomuna e avvantaggia tutti e tutte: uomini e donne; operai, impiegati e dirigenti; lavoratori e lavoratrici stabili (a cui ridona tempo di vita) e precari/e e disoccupati/e (per cui crea lavoro);
  • conquistare per tutte il doppio sì contemporaneo: il diritto alla maternità e il diritto al lavoro, in quanto oggi le italiane e le immigrate nel nostro Paese non possono effettivamente scegliere se e quando essere madri o se non esserlo; e cioè per un verso conquistare:
    politiche incentivanti l’occupazione femminile in ogni settore e livello; la diffusione in ogni parte del Paese di servizi sociali ed educativi pubblici, di qualità e gratuiti; la riduzione dell’orario di lavoro per tutti e tutte anche per consentire la condivisione del lavoro di cura,
    che deve diventare paritaria; congedi parentali uguali per donne e uomini; la completa tutela della maternità per le lavoratrici dipendenti di ogni settore, etnia, regime contrattuale e di orario, per le disoccupate e per le lavoratrici autonome; il mantenimento dei piccoli reparti di maternità diffusi sul territorio; il rifiuto della gravidanza per altri, per non trasformare il donare la vita per amore a lavoro per il mercato; e per l’altro verso conquistare: l’applicazione diffusa e completa della legge 194/1978 sull’interruzione volontaria di
    gravidanza, con l’abrogazione dell’art. 9 sull’obiezione di coscienza da parte dei medici dipendenti da strutture pubbliche e convenzionate; il rilancio dei consultori come servizio pubblico di base e gratuito per la tutela della salute delle donne di ogni età e condizione, da garantire 1 ogni 20.000 abitanti nelle aree urbane e 1 ogni 10.000 nelle aree rurali;
    l’educazione affettiva e sessuale nelle scuole di ogni ordine e grado con metodiche adeguate alle varie età e l’educazione alle differenze e alla loro valorizzazione, oltre alla contraccezione gratuita, per non aver bisogno di ricorrere all’aborto se non in casi limitati; il
    sostegno finanziario pubblico ai centri antiviolenza, anche a quelli autogestiti dalle donne; il ritorno alla sanità pubblica basata sulla prevenzione come era stata prevista dalla grande riforma sanitaria universalistica – la legge 833/1978 – ottenuta dalle lotte operaie e sociali, tenendo conto che il corpo femminile è differente da quello maschile, che tra uomini e donne sono diverse l’incidenza delle malattie e dei fattori di rischio fisici e chimici nei luoghi di lavoro, le necessità di prevenzione e la risposta alle terapie.
    Per il marxismo la condizione di sfruttamento e di oppressione delle donne ha avuto origine con la divisione sociale del lavoro. La subordinazione femminile è il prodotto della sua esclusione dai rapporti produttivi e la sua relegazione nell’ambito della famiglia. A queste affermazioni, confermate da una realtà sotto gli occhi di tutti e tutte, occorre però aggiungere alcune frasi di Lenin, contenute in un articolo del 1921: “Il risultato principale, fondamentale, conseguito dal
    bolscevismo e dalla rivoluzione d’ottobre è di aver trascinato nella politica proprio coloro che erano più oppressi sotto il capitalismo…Non è possibile però far partecipare le masse alla politica se non vi si attirano le donne. In regime capitalistico, infatti, la metà del genere umano, formato dalle donne, subisce una duplice oppressione “.
    Il doppio sguardo di genere – maschile e femminile – sul mondo è fondamentale per poterlo interpretare correttamente e integralmente, per poi agire con efficacia: questa è per noi la scommessa del XXI secolo, se vogliamo essere comunisti e comuniste.
Assemblea Nazionale delle Donne Comuniste – A. Do.C. 8 marzo/13 luglio 2019