PROPOSTE PER UN NUOVO STATUTO DEI LAVORATORI

dalle Schede ‘Pace e Lavoro’ che accompagnano le Tesi del PCI.

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di Piergiovanni Alleva, della Segreteria nazionale del PCI – responsabile del dipartimento Lavoro

1 – Danni ed insidie del Jobs Act

È opportuno muovere da una ricognizione ragionata dei guasti e delle conseguenze del Jobs Actper individuare le linee di una possibile ricostruzione del diritto del lavoro che non sia peraltro limitata ad una operazione di restauro o di riparazione dei danni, ma metta a frutto riflessioni e proposte che, se pur talvolta in maniera episodica, sono state oggetto di dibattito negli ultimi vent’anni.

Bisogna avere ben presente non solo il contenuto dei portati normativi dei vari decreti (8) che nel loro insieme costituiscono il Jobs Act, ma anche i modi della loro sinergia che fanno prevedere che l’ulteriore e ultima fase della grande controriforma del lavoro è destinata a incentrarsi sulla sostituzione della contrattazione collettiva nazionale con quella meramente aziendale, derogatoria di ogni altra disciplina, e sull’abbassamento dei livelli salariali sancito, per quanto possa sembrare paradossale, proprio dalle proposte di salario minimo intercategoriale.

Si può dire, onde chiarire in sintesi la ricordata sinergia tra mezzi di offesa, che il primo terreno della sfida portata dal Jobs Act alla civiltà del lavoro è quello dei rapporti di forza contrattuale tra il datore di lavoro, che ora ha riconquistato un’indiscutibile superiorità, e il lavoratore, ricacciato in quelle stesse condizioni di debolezza e ricattabilità tipiche della situazione pre-statutaria.

1.1 Cosa cambia nelle tutele all’interno del rapporto di lavoro

Senza ombra di dubbiol’arma principale per la ricostituzione della superiorità (72) datoriale è stata la quasi completa abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ossiadella tutela di stabilità reale contro i licenziamenti ingiustificati, norma simbolo di lunghe stagioni di confronto e di lotta tra le parti collettive e tra le forze della sinistra politica e i governi di centrodestra. Dall’entrata in vigore del D.lgs N. 23/2015 la tutela di reintegra è limitata a pochissimi casi di licenziamento, quasi casi di scuola, ed è così venuta meno la vera garanzia antiricatto che ha contrassegnato per 40 anni i rapporti tra le parti; anche se occorre ricordare che, per la grande maggioranza dei lavoratori, per quelli cioè assunti prima del marzo 2015, la garanzia della “tutela reale” sussiste ancora, seppur con le menomazioni indotte dalla Legge Fornero. La corsa alla sostituzione dei vecchi contratti stabili con i nuovi, detti per ironia, a tutele crescenti sarà però molto veloce grazie anche a specifici incentivi,il più delle volte illeciti, come quello della decontribuzione, a meno che non intervengano fattori esterni, quali un referendum abrogativo, che cambino integralmente il deprimente quadro attuale. In tale quadro, peraltro, non vi è solo il contratto a tutele crescenti disciplinato dal Dlgs 23/2015: l’arma con cui il governo Renzi ha aggredito i diritti dei lavoratori non è paragonabile ad una lancia, quanto piuttosto ad un tridente, dal momento che, accanto a quel contratto, operano ora altri strumenti non meno letali, come, da un lato, il contratto di lavoro a termine, e dall’altro le rinate collaborazioni coordinate e continuative (nuovamente senza progetto).

Con riguardo a questi strumenti,va sottolineato che ogni studioso ed ogni operatore del diritto del lavoro ha perfettamente compreso che la vera svolta è avvenuta nel momento in cui la parte datoriale è riuscita ad ottenere,prima dal governo tecnico di Monti e poi definitivamente dal governo Renzi, quel vero e proprio ossimoro rappresentato del contratto a termine senza causale, poiché porre un termine finale di operatività al contratto di lavoro ha senso solo quando l’esigenza di impiego dell’energia lavorativa abbia essa stessa un termine, ossia sia temporanea. Se il contratto risponde invece ad un’esigenza continuativa il termine non ha altro scopo che quello di porre la controparte contrattuale sotto il ricatto di un mancato rinnovo e nessuno, per quanto ci consta, è mai riuscito a trovare una diversa giustificazione. La contraddizione non è senza effetto giuridico perché lo stesso Dlgsn.Sl/2015, che ha dato rinnovata e compiuta disciplina al contratto a termine acausale, ha anche proclamato, all’art. l, che il contratto a tempo indeterminato costituisce la forma (73) normale dell’erogazione della forza lavoro. Da ciò discente una “irragionevolezza” della legge, rilevante in sede di verifica di costituzionalità, visto che lo strumento teoricamente preferito nel concreto può essere eclissato da quello che dovrebbe invece essere del tutto marginale.

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La terza punta del tridente è costituito dal ritorno, quasi per un malefico gioco di prestigio, delle collaborazioni coordinate e continuative libere, e cioè del lavoro cosiddetto parasubordinato, che essendo invece giuridicamente lavoro autonomo sottrae al lavoratore tutta la protezione stratificata in decenni di legislazione e contrattazione collettiva in favore del lavoro subordinato, senza che sia poi davvero possibile distinguere una tipologia dall’altra. La differenza invero sarebbe costituita solo da una “sfumatura”, nell’intensità del potere direttivo del datore di lavoro, penetrante nel lavoro subordinato e limitato invece a direttive di massima nelle collaborazioni coordinate e continuative. E poiché da questa quasi impalpabile differenza deriva la macroscopica differenza dell’applicazione dell’intero corpus del diritto del lavoro non meraviglia che, da quando nell’anno 2000 il rapporto di collaborazione fu consentito per tutte le mansioni lavorative e non più solo per quelle artistiche e di alta qualificazione, esse dilagarono fino a inondare il mercato del lavoro ed i tribunali, obbligando il legislatore ad intervenire per porre un freno. Invero, con l’art. 61 e seguenti del Dlgs n.297/2003, la possibilità di ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative fu limitato all’ipotesi in cui la collaborazione desse un risultato specifico (v. lavoro a progetto),e salvi ancora i casi particolari dei rapporti con la pubblica amministrazione o di intese tra committenti e pensionati di vecchiaia o con gli iscritti agli albi professionali.

Si noti allora l’insidiosa tecnica con la quale si è consentito e determinato il ritorno in massa delle collaborazioni coordinate e continuative “libere” ovvero senza progetto; da un lato, infatti, il Dlgs n.81/2015 ha abolito i contratti a progetto ed ha così eliminato il “tappo”, e dall’altro alle collaborazioni stesse è stato posto un nuovo limite ma del tutto illusorio. L’art. 2 del Dlgs 81/2015 riconduce sotto le norme del lavoro subordinato solo le collaborazioni coordinate e continuative che il committente organizzi anche con riferimento ai tempi e al luogo della prestazione. La novità normativa è stata molto pubblicizzata e sbandierata come strumento di eliminazione di forme dubbie e sottotutelate di impiego dei lavoratori, ma si tratta, invero, di un inganno, perché quella vantata riconduzione (74) alle regole protettive del lavoro subordinato non opera ogni volta che il committente segua l’elementare avvertenza di prevedere nel contratto individuale di collaborazione una certa flessibilità nei tempi e nei luoghi della prestazione, come già scontatamente avviene nella maggior parte delle collaborazioni coordinate e continuative.

Si può così acquisire il primo dato caratterizzante l’attuale panorama: all’interno del rapporto di lavoro il lavoratore non ha reali difese e non solo perché non opera più l’articolo 18 nei contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti, ma anche perché possono stipularsi contratti a termine senza una ragione plausibile (che non sia, appunto, quella di intimidirlo con la minaccia di mancato rinnovo), e perché quando si tratti di lavoro caratterizzato da un minimo di contenuto intellettuale potrà sempre essere utilizzata la forma della collaborazione coordinata e continuativa che si sottrae alla disciplina lavoristica di tutela.

1.2 Cosa cambia nelle tutele al di fuori del rapporto di lavoro

Veniamo però al secondo scenario di questo desolante panorama. Esso riguarda la situazione del lavoratore non più all’interno del rapporto di lavoro, ma nel mercato del lavoro e tutti ricordano, crediamo, le speciose polemiche che l’opinione di centrodestra e governativa hanno condotto per anni sulla seguente dicotomia: le “tutele nel rapporto di lavoro” possono essere vantaggiosamente sostituite dalle “tutele nel mercato del lavoro”, ovvero dalla cosiddetta flexsecurity giacché, secondo questa tesi, la facilità del licenziamento sarà ripagata da sostanziosi aiuti pubblici per garantire al lavoratore licenziato sia il reddito che una nuova occupazione, con finale vantaggio per tutte le parti. Basta però leggere i decreti legislativi (Dlgs N.92/2015 e N.148/2015) che hanno riformato sia l’indennità di disoccupazione, ora detta Naspi, sia la cassa integrazione per rendersi conto dell’enormità della falsa promessa. Sono stati abrogati, salvo poi necessitate proroghe temporanee, istituti fondamentali di salvaguardia dei diritti elementari dei lavoratori e anche della pace sociale quali l’indennità di mobilità per i lavoratori licenziati con licenziamenti collettivi e la cassa integrazione in deroga, mentre per la Naspi è stato adottato un criterio previdenziale di tipo assicurativo che punisce gravemente i lavoratori precari e discontinui, dal momento che la Naspi viene erogata solo per un periodo pari alla metà delle settimane di lavoro e quindi di contribuzione effettuate negli ultimi 4 anni. Sul versante invece degli ammortizzatori conservativi dell’occupazione (75).

Scompaiono importanti causali della cassa integrazione, quali quella per procedura concorsuale, e le altre vengono pesantemente ridotte, tanto che anche la Cigs per riorganizzazione non potrà superare i due anni all’interno del quinquennio.

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Non c’è dunque alcuna tutela nel “mercato del lavoro” che sostituisca la protezione e le tutele e i diritti “nel rapporto di lavoro”, ma un doppio peggioramento e una doppia debolezza, dentro e fuori dal rapporto di lavoro, il cui scopo reale è quello di ridurre i lavoratori in una situazione di timore, soggezione e rassegnazione come premessa per il raggiungimento di un traguardo, vanamente inseguito per decenni dalla parte datoriale: sostituire in pratica integralmente alla contrattazione collettiva nazionale la contrattazione solo aziendale, e nell’ambito di questa sostituire i minimi retributivi nazionali con un insieme di “premi aziendali di produttività” da distribuire all’insegna della discrezionalità e di sotterranee discriminazioni tra “ubbidienti” e “recalcitranti”. Si vocifera che nel complesso l’obiettivo sia quello dell’abbassamento del 30% delle retribuzioni lorde e quindi anche delle retribuzioni nette, salvo l’effetto di aliquote fiscali di favore sui premi di produttività, che addolcirebbero il sacrificio dei lavoratori ma premierebbero politicamente i datori di lavoro, da sempre contrari alle tariffe nazionali e desiderosi di avere le mani libere nell’amministrazione del salario.

Il panorama di rovine da cui si parte è pertanto quello di una precarizzazione generalizzata al di là di ogni apparenza e di un abbassamento vertiginoso della dignità e dei diritti dei lavoratori, che inducono a ricercare le vie del riscatto in una nuova legislazione. Si pongono però a questo punto due problematiche parallele: quella di definire l’ambito che la legge deve proteggere, ossia l’area del lavoro dipendente, da riconsiderare al di là delle vecchie distinzioni tipologiche, e il problema prettamente contenutistico di stabilire in che cosa debbano oggi principalmente consistere le protezioni, alla luce di una quarantennale elaborazione in materia statutaria.

Per il lavoro dipendente, possiamo anticiparlo, si intende qui quello caratterizzato dalla cosiddetta “doppia alienità”, ossia dall’essere prestato nell’ambito di una organizzazione produttiva altrui e con appropriazione immediata dell’utilità lavorativa da parte del soggetto committente, a prescindere dalla intensità delle direttive che da questi possano intervenire sull’esecuzione della prestazione lavorativa. Direttive che, ovviamente, (76) possono variare moltissimo da caso a caso senza che venga meno la sostanza socio – economica, ma anche giuridica, della dipendenza. In quest’area oggi convivono il lavoro cosiddetto subordinato, ovvero eterodiretto “in senso forte”, e il lavoro coordinato e continuativo. Non vi è più motivo alcuno a nostro avviso di applicare alle due forme diversi apparati normativi e protettivi, anche perché a ben vedere il lavoro eterodiretto è solo una specie, tra l’altro storica-mente datata, laddove il lavoro “dipendente”, che prevede una continuità della collaborazione e il suo inserimento nel processo e progetto produttivo altrui, costituisce il genere e dunque il vero punto di riferimento delle tutele.

Al di là di questo ambito, peraltro, non vi è il vuoto ma una esigenza di tutela, seppur diversa, per i lavoratori autonomi in senso proprio, riguardati dall’art. 2222 del c.c. e che, a differenza di quelli dipendenti, dispongono di una propria organizzazione di mezzi, sopportano il rischio della produzione del lavoro e agiscono secondo un loro progetto di impresa, eppure necessitando anche loro di una qualche protezione ,sia nei riguardi dei loro committenti e clienti,che potrebbero variamente vessarli con il loro maggior potere contrattuale, sia nell’ambito della realizzazione dei diritti primari e sociali comunque collegati alla disponibilità, per nulla scontata, di un livello di reddito. I cerchi concentrici della tutela del lavoro restano però due e non tre, perché alla protezione dei lavoratori autonomi veri fa seguito il cerchio stretto delle tutele più pregnanti riguardanti il lavoro dipendente,non ulteriormente divisibile, a nostro avviso, tra il lavoro subordinato e le collaborazioni coordinate e continuative.

2 –Linee guida per un nuovo Statuto dei lavoratori

Ricostituire un diritto del lavoro a partire dal devastato panorama conseguenteall’emanazione del Jobs Actsignifica certamente un’ampia normazione di problematiche vecchie e nuove, disciplinate dallo Statuto del 1970, ma anche evolutosi dopo di esso o addirittura emerse con il progresso economico sociale. I temi tradizionali e fondamentali sono quelli, certamente, della tutela contro i licenziamenti ingiustificati e della stabilità del posto di lavoro, della garanzia e del miglioramento delle capacità e della collocazione professionale, della libertà sindacale in azienda, della tutela della salute e della sicurezza ed innanzitutto della figura morale e della dignità del lavoratore.

Sono ancora quelli di una rete di garanzie per sopravvenienze di vario tipo come malattie, infortuni, contrasto a pratiche di sfruttamento quali si verificano tipicamente nelle catene di appalti, ma anche esigenze e problematiche di nuova emersione quali quelle connesse al mobbing, alle molestie, alla spettanza e quantità del risarcimento non patrimoniale per violazioni dei diritti primari della persona.

Vi è ancora il problema, riacutizzatosi a causa di un ritorno all’indietro della legislazione, della omogeneità di tutele e diritti tra lavoratori del settore pubblico e del settore privato, e della piena fruizione del corredo di diritti del lavoratore anche qualora egli assuma· il ruolo di socio lavoratore di una società cooperativa. L’elenco è ovviamente assai lungo ma soggetto ad una questione preliminare che oggi sembra riaprirsi in modo quanto mai preoccupante: la questione, cioè, di quali siano i lavoratori che potranno in concreto fruire delle tutele siano esse rinnovate o di nuova istituzione. Per stare solo al campo dell’impiego privato infatti appare chiaro, per le considerazioni svolte al paragrafo precedente,che buona parte del mondo del lavoro non potrebbe in concreto fruirne se non si effettua una preventiva rideterminazione del campo di applicazione e delle figure sociali che si intende tutelare.

I lavoratori precari, infatti, il cui rapporto è destinato a decadere automaticamente alla scadenza, incontrano spesso difficoltà non solo psicologiche, ma oggettive e materiali, al godimento dei diritti vecchi e nuovi: ad esempio la tutela del reddito e dell’occupazione in caso di malattia non ha senso per il lavoratore precario che cessa dal rapporto per pura e semplice scadenza anche se ammalato, o per quel lavoratore che vorrebbe certamente valersi di percorsi di formazione professionale sul lavoro, ma deve subire la frustrazione della sua aspettativa per la scadenza del rapporto.

Ai lavoratori parasubordinati addirittura, semplicemente quel complesso di garanzie e di diritti non troverebbe applicazione salvo specifiche previsioni normative a loro dedicate come ad es. come già avvenuto per la tutela della maternità.

La riunificazione e l’allargamento dell’area di fruizione delle tutele è dunque l’operazione preliminare che va realizzata in più direzioni, quali la marginalizzazione del lavoro precario e la trasformazione (78) dei lavoratori precari in lavoratori a tempo indeterminato, salvo la restituzione a questi ultimi della tutela della stabilità reale ,ed ancora la riunificazione dei lavoratori del settore pubblico e di quello privato nonché delle collaborazioni coordinate e continuative sotto la comprensiva fattispecie del lavoro “dipendente”.

In particolare per quanto attiene al lavoro precario, anche se subordinato, è assolutamente necessario reagire contro l’assurdo del contratto a termine acausale e tornare per via di verifica di costituzionalità o per semplice innovazione legislativa ad un principio tanto semplice quanto efficace, e cioè che il carattere temporaneo dell’esigenza lavorativa deve sussistere concretamente ed essere specificato nella lettera di assunzione. È, in verità, lo stesso principio che veniva accolto, seppur in maniera non del tutto esplicita, nel Dlgs 368/2001 e che ha consentito in questi anni una possibilità di efficace resistenza contro l’abuso del precariato. Altra misura necessaria per il controllo della percentuale massima (20%) di rapporti a termine utilizzabili in ciascuna unità produttiva è costituita dalla consultabilità da parte di chiunque, in primis dalle organizzazioni sindacali, di un’anagrafe pubblica del lavoro (per la quale esistono già tutti i database) che consenta di “fotografare” in ogni momento la composizione organica, per tipologie contrattuali, dell’occupazione in azienda.

Più complesso è il problema delle riunificazioni del lavoro pubblico e privato dopo la produzione legislativa di impostazione reazionaria che ha caratterizzato l’ultimo decennio. Da un punto di vista di principio non vi sono difficoltà a ripetere l’operazione di privatizzazione attuata durante gli anni Novanta e a perfezionarla con il definitivo superamento, in sintonia peraltro con la giurisprudenza europea, di antichi e paralizzanti moduli organizzativi della pubblica amministrazione (piante organiche inflessibili, divieti di conversione per contratti illegittimi ecc.).

L’altro imperativo dell’ora però è quello di superare definitivamente, e di non consentire comunque il consolidamento e l’allargamento, di una distinzione tra lavoro subordinato e parasubordinato. Di ciò si è già trattato nel precedente paragrafo e qui occorre solo dedicare una nota di attenzione alla problematica specifica delle cosiddette “false partite IVA” sulle quali il legislatore ha tenuto fino ad oggi un atteggiamento oscillante ed incerto (si consideri la confusa normativa dell’art. (79) 69 bis Dlgs 297/2003) perché consapevole, da un lato, delle illusioni realizzate tramite le false consulenze professionali in favore di soggetti quasi unici committenti del professionista, ma incapace, dall’altro, di prendere una posizione precisa in questa materia, caratterizzata d’altra parte da una normativa di diritto tributario non poco equivocata e complessa.

Esistono interi settori produttivi o di servizi, come ad esempio gli studi tecnici e le case di cura private, che utilizzano medici, ingegneri architetti ecc. pagando la loro prestazione con fattura mensile o bimensile come se si trattasse di normali professionisti entrati in occasionale rapporto professionale con il committente, con l’ulteriore danno di esser poi destinatari di forme previdenziali, ossia di casse professioni private, spesso ben più avare della stessa gestione separata che I’Inps ha istituito per i co.co.co. Qui la questione deve essere risolta in maniera molto netta, chiarendo una volta per tutte che è soggetto IVA chi esercita un’ arte e una professione in maniera indipendente, cosi come espressamente richiede la sesta direttiva Cee ed oggi direttiva 2006/112/Cee. Proprio per questo, e cioè perché il collaboratore coordinato e continuativo non è realmente indipendente nell’esercizio della sua arte o professione dal momento che opera all’interno di un’organizzazione e strategia di impresa altrui, egli non è soggetto IVA, come espressamente detto dall’art. 5 comma Ilo Dpr n. 633/1972 (legge suii’IVA), a monte del quale non si considerano effettuate nell’esercizio di arti o professioni le prestazioni di servizio inerenti ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. L’apparente frontale contraddizione con l’articolo 50 lettera c bis Tuir, che invece consente che si possa essere titolari di partita IVA e fatturare collaborazioni coordinate e continuative rientranti nell’oggetto dell’arte o professione, si può risolvere evidentemente solo chiarendo che la collaborazione coordinata e continuativa non può essere l’unica, o quasi unica, attività di quel soggetto, bensì una tra le molte prestazioni di lavoro autonomo da lui compiute e fatturate.

Ci sembra molto opportuno a questo punto precisare che si ha perfetta coscienza del fatto che l’assorbimento senza residui delle collaborazioni coordinate e continuative nelle regole del rapporto di lavoro subordinato, se da una parte risolve casi numerosissimi e scandalosi di falso utilizzo della partita Iva, dall’altro può esser considerato da alcuni eccessivamente cogente, e quasi un’ espropriazione di libertà dei giovani professionisti o lavoratori intellettuali, i quali vorrebbero, sì,essere protetti nei loro bisogni e diritti come lavoratori subordinati ma intendono anche mantenere un’autonomia operativa nell’esplicazione della loro attività professionale. Ritorna allora ciò che sopra si diceva circa il carattere ormai inessenziale per la tutela del lavoro dipendente di tutto l’apparato di disciplina paramilitare che avvolgeva la prestazione lavorativa di stampo fordista, e che ancora trova nel nostro codice civile diverse espressioni, quale l’ articolo 2104 in tema di gerarchia aziendale, quale l’art. 2106 ( e art. 7 Statuto dei lavoratori) in tema di sanzioni disciplinari e l’art. 2108 e susseguente legislazione speciale in tema di orario di lavoro. Di questi contenuti normativi si può fare a meno nella moderna prestazione lavorativa, ed invero esistono categorie di lavoratori subordinati come quadri e dirigenti che non sono soggetti ad una specifica gerarchia aziendale né ad orario di lavoro, mentre per altro verso la graduazione delle sanzioni disciplinari cosiddette conservative (biasimo orale o scritto, multa, sospensione) appartengono ad una realtà del mondo del lavoro assai simile ad una vecchia caserma.

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Questa antiquata normativa di eterodirezione può essere eliminata, o quantomeno resa del tutto derogabile per accordo tra le parti, anche per fatti concludenti, senza che nulla cambi nelle condizioni di produttività dei lavoratori di qualifica media e medio alta. In definitiva, nulla osta ad una unificazione invece assai necessaria sotto l’egida del lavoro economicamente dipendente tra l’attuale lavoro subordinato e l’attuale collaborazione coordinata e continuativa, preferibilmente con eliminazione dei risalenti profili di autoritarismo datoriale.

Così come nulla osta alla riduzione del lavoro precario a quella dimensione marginale e transeunte che gli è propria e che per meglio dire è propria dell’incidenza percentuale delle esigenze lavorative temporanee sulle esigenze lavorative complessive: una percentuale stimata del 13/14% che rende assolutamente anomala una percentuale di conclusione dei contratti a termine superiore ai due terzi del totale dei rapporti accesi, così come avvenuto in tutti questi anni. Infine una revisione nel senso di una vera omogeneizzazione tra regole del rapporto di lavoro pubblico e privato metterebbe fine a quel poco commandevole gioco a nascondino tra la nostra magistratura e la Corte di giustizia europea con riguardo alla fruizione da parte dei lavoratori pubblici di diritti non diversi e non inferiori a quelli dei lavoratori privati. Ci si può solo augurare che questa necessità di riunificazione sia correttamente apprezzata e accolta dalle proposte di riforma di diritto del lavoro, e dunque di superamento del Jobs Act, che cominciano ad affacciarsi in particolare da parte della maggiore organizzazione confederale. Ci auguriamo non si cada nell’errore di accettare una tripartizione dannosissima, e che si ritiene ormai superata, tra lavoratori subordinati, coordinati e continuativi e lavoratori autonomi in senso proprio, sotto l’egida di principi di tutela comune di tutte le forme di lavoro che costituirebbe un concetto in sé tanto affascinante quanto poco praticabile. Il lavoro economicamente dipendente deve invece es-sere unificato anche allo scopo di segnare con nettezza la differenza rispetto all’autentico lavoro autonomo svolto con propri mezzi, propria organizzazione e a proprio rischio, che necessita sì anch’esso di tutele, ma di diversa consistenza ed intonazione, non solo nei confronti della clientela, ma anche in quelli del sistema di sicurezza sociale.

3 – Riformulazione e innovazione dei principali contenuti statutari

Una volta ricostituita la platea dei destinatari di una nuova legislazione statutaria non è difficile individuare i provvedimenti di maggior importanza ed anche urgenza, tra i quali il primo posto non può essere negato alla reintroduzione della tutela di stabilità reale per il contratto di lavoro dipendente “a tempo indeterminato” nell’accezione comprensiva sopra chiarita. Va ribadito in primo luogo che, in ogni caso, a tale scopo occorre da subito proporre il referendum abrogativo della disciplina del contratto a tutele crescenti, ossia del Dlgs 23/2015. Questa iniziativa referendaria si presenta anche concettualmente come molto agevole, proprio perché si è introdotta una nuova disciplina peggiorativa decorrente da una certa data senza eliminare la disciplina precedente. Ne consegue che una volta abrogato per via referendaria il decreto 23/2015 la vecchia disciplina valida per i contratti stipulati fino al marzo 2015 si estenderebbe a tutti i rapporti in essere da qualsiasi data costituiti. Non bisogna dunque temere una rassegnazione o uno scarso interesse da parte dei lavoratori ex precari che comunque hanno conseguito il “beneficio” del contratto a tutele crescenti e a tempo indeterminato, proprio perché sarebbero essi, in primo luogo, ad avere interesse al successo di quei referendum, in quanto il loro rapporto lavorativo verrebbe sostanzialmente rinforzato dall’introduzione anche per loro di una tutela reale. Probabilmente, però, il ritorno alla disciplina di licenziamenti, come risultanti dalle modifiche peggiorative della legge Fornero all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, non dovrebbe essere l’unica misura, pur essendo la prima e la più importante. Infatti lungo un arco di 40 anni la disciplina dell’art. 18 ha subito una troppo lunga serie di rimaneggiamenti e pertanto una volta recuperata la tutela di stabilità reale sarebbe del tutto auspicabile riportarla alla sua linearità e coerenza, quale emergeva ancor prima dello Statuto dei lavoratori nella vecchia legge sulle clausole di nubilato (cfr. art. 2 legge 7/1963).

Il licenziamento, in altri termini, non può che essere nullo se il recesso, che è negozio causale, manca nella specifica fattispecie della causa in concreto, e dunque il rapporto non si risolve ma continua con decorrenza della retribuzione. Non vi è mai stata ragione di allontanarsi da questa conformazione che, ad esempio, è anche quella accolta nel diritto tedesco, salvo eventuali temperamenti su regimi ulteriori di regolazione degli interessi concreti, una volta dichiarata la nullità del licenziamento. Tale potrebbe essere per le piccole aziende, il potere del giudice di apprezzare la permanenza di condizioni di effettivo attrito e contrasto con potere risolutorio del rapporto di lavoro, ma con indennizzo davvero adeguato. Soprattutto importante sarebbe la reintroduzione della tutela reale per licenziamenti collettivi illegittimi, che anch’essi verrebbero travolti dalle conseguenze della nullità della causa per qualsiasi motivo, mentre con riguardo al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo prima ancora che della sanzione è necessario rivedere il concetto stesso di giustificazione; invero non è possibile, per motivi di elementare giustizia, identificarlo con la semplice volontà del datore di lavoro di effettuare una modifica organizzativa che elimini un lavoratore che risulti per qualche motivo sgradito.

Altro tema di cruciale importanza è quella della tutela della professionalità che il Jobs Actha manomesso in modo rozzo con riguardo soprattutto alle modifiche di mansione a parità di inquadramento in qualifica. Si tratta di un intervento soprattutto ideologico perché non è probabile che un datore di lavoro, ad esempio, invii un disegnatore tecnico ad espletare le mansioni di un gruista, e viceversa, anche se i due profili appartengono allo stesso livello di qualifica. Lo scopo vero è quello di negare attraverso la previsione di una possibilità di tal genere quello che è il cuore stesso della tutela professionale, ossia per dirla con la massima della Cassazione: “il mantenimento del bagaglio di conoscenze professionali acquisito nella fase precedente del rapporto”. Il legislatore per conto della Confindustria ha voluto lasciare intendere che quel piccolo tesoro professionale personale ha in realtà così poco valore da poter essere legittimamente disperso dal datore di lavoro anche per semplice capriccio, ma non si tratta qui soltanto di contrattaccare sulla base del riconoscimento costituzionale e comunitario del diritto alla professionalità come parte del diritto al lavoro, bensì di sanzionare, con una certezza che fino ad ora è mancata, le lesioni della figura professionale consumate non solo tramite spostamenti ingiustificati, ma anche soprattutto tramite deprivazione di mansioni. Occorre in altre parole prevedere positivamente, per questo come per altri diritti della personalità del lavoratore (alla salute, alla dignità personale, alla riservatezza, alla libertà di espressione ecc.), la possibilità del risarcimento del danno non patrimoniale nella triplice accezione di danno morale, biologico ed esistenziale. In particolare non si può assolutamente ritenere soddisfacente l’elaborazione giurisprudenziale in tema di mobbing che postula, chissà perché, un vero e proprio piano persecutorio, la continuità e la ripetitività degli attacchi, la variata tipologia degli stessi, laddove la fattispecie illecita dovrebbe ritenersi comunque consumata con l’accertamento del carattere volontario e non occasionale delle vessazioni. Per altro verso in questa materia non può essere considerata bastevole la tutela di tipo risarcitorio, dovendosi invece consentire ad una intrusione più forte nel sistema organizzativo aziendale e prevenire il ripetersi dei comportamenti lesivi predisponendo ulteriori sanzioni in caso di recidiva.

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Anche sotto il profilo della giusta remunerazione è ormai matura l’esigenza di importanti interventi, a cominciare da un’esplicitazione in sede di legislazione ordinaria della norma dell’articolo 36 Cost. Se infatti è vero che questa norma costituzionale è direttamente applicabile e ha costituito un validissimo baluardo contro le pratiche di sotto salario è, però, altrettanto vero che tale funzione si è scolorita negli anni per una serie di successivi restringimenti giurisprudenziali che, ad esempio, hanno puntato quasi esclusivamente sulla sufficienza della retribuzione e sul riferimento alle tariffe di contratto collettivo nazionale, le quali, come si sa, da molto tempo si limitano a perseguire (non certo a raggiungere) la cosiddetta invarianza salariale, ma certamente non distribuiscono nessun aumento di produttività. L’introduzione di un salario minimo garantito intercategoriale non sarebbe di per sé espressione dell’articolo 36 Cost. il quale ,a nostro giudizio, comunque andrebbe riferito alla media dei guadagni contrattuali per sommatoria delle contrattazioni di ogni settore lavorativo, bensì un suo cattivo surrogato sicuramente di tipo peggiorativo. Appare del tutto ovvio che la retribuzione minima per legge non potrebbe che essere allineata alla possibilità di pagare della impresa marginale di settori arretrati. Si noti che di un obbligo legale di adeguato compenso può ragionevolmente parlarsi anche al di là dell’area del lavoro economicamente dipendente, comprendenti l’attuale lavoro subordinato e le collaborazioni coordinate e continuative, estendendosi altresì al lavoro autonomo in senso proprio con modifica dell’articolo 2225 cc. Norma quest’ultima profondamente equivocata e svuotata dall’interpretazione giurisprudenziale neo liberista secondo cui qualsiasi compenso concordato tra committente e lavoratore autonomo è valido indipendentemente dal suo ammontare, anche se in ipotesi contrario alla dignità della professione, che costituirebbe – assurdamente – un criterio vincolante per il giudice, se le parti per ipotesi non avessero stabilito nulla, ma non per le parti stesse in sede di trattativa.

Una revisione delle discipline legali appare ugualmente necessaria per la materia delicatissima degli appalti e dei subappalti e, in connessione ad essa, della interposizione di manodopera che l’articolo 29 della legge Biagi ha finito con il rilegittimare accordando, almeno nell’interpretazione giurisprudenziale, valore discriminatorio tra il lecito e l’illecito, alla circostanza della direzione da parte dell’appaltatore dei suoi lavoratori, ancorché l’appalto si riduca alla mera fornitura di manodopera. Si è trattato di una degenerazione molto grave, di una vera e propria legittimazione del caporalato, che si è diffusa come una malattia infettiva in particolare nel mondo cooperativo, rendendo ormai abituale l’affidamento di appalti di servizi a cooperative che pagano compensi assurdamente bassi, anche di tre euro l’ora ai loro soci lavoratori. Fenomeno degenerativo che è tanto più grave in quanto i committenti sono il più delle volte enti pubblici che in questo modo credono di porre rimedio alle varie leggi di blocco delle assunzioni.

Tra i tanti temi da sviluppare adeguatamente per la corretta gestione dei rapporti vi è poi sicuramente quello della prestazione di lavoro nei gruppi di impresa, in presenza di una giurisprudenza che non è stata in grado di compiere quel minimo progresso di “superamento del velo” della separata personalità giuridica, che è del tutto normale nella giurisprudenza dei principali paesi europei.

Degli altri tre grandi campi di intervento è qui possibile solo indicare quello già devastato dal Jobs Act degli ammortizzatori sociali, che deve comportare a parer nostro una vera e propria ripartenza per definizione di fattispecie e di istituti, tra i quali va ormai annoverato anche il cosiddetto reddito minimo garantito al quale è stato negato per lungo tempo, e forse teoricamente a ragione, la natura di ammortizzatore sociale in senso proprio, ma che è ora candidato a tale ruolo grazie alle restrizioni legislative del sistema degli ammortizzatori sociali di tipo assicurativo.

L’altro settore è quello fondamentale della contrattazione e della rappresentanza sindacale. È stato oggetto negli ultimi anni di non poche “prove d’orchestra” sotto specie di accordi sindacali di livello confederale che hanno definito istituti di rappresentanza e un sistema di contrattazione con previsione di efficacia degli accordi. Resta però insuperabile al momento la critica di ineffettività di tali intese discendente dalla fonte di regolazione scelta, e cioè della fonte contrattuale che, per ragioni antologiche, non potrà mai avere quella inclusività tipica solo della legge. Legge assolutamente necessaria oggi che il sindacalismo confederale non costituisce affatto la forma esclusiva di organizzazione dei lavoratori. L’importante è, a nostro avviso, che una legislazione in tema di rappresentanza e di livelli di contrattazione, nonché di efficacia dei contratti collettivi nazionali ed aziendali, adotti come sua stella polare la validazione degli accordi stessi da parte dei lavoratori interessati attraverso forme anche differenziate di referendum. Non meno importante, però, è che gli accordi aziendali, anche se confermabili da referendum, non possano mettere in discussione il sistema di contrattazione in quanto tale e dunque portare deroghe discrezionali ai contratti nazionali e alle leggi. Il pericolo è, evidentemente, che, indeboliti e ricattati dal Jobs Act, i lavoratori della singola azienda finiscano con il sancire anche attraverso il referendum la totale indipendenza, dell’azienda stessa e del suo contratto collettivo particolare, dall’intero sistema della contrattazione, dai suoi rinvii dall’uno all’altro livello e dalle stesse leggi fondamentali in materia di lavoro.

Non può essere sottaciuto, ancora, quello che è purtroppo divenuto ambito di grande interesse per interventi di ricostituzione e miglioramento delle tutele, ovvero la tematica stessa dei modi della difesa stragiudiziale e giudiziale dei diritti. La principale preoccupazione dei legislatori, sia di centrodestra sia tecnici o di centrosinistra che si sono succeduti da oltre un lustro a questa parte, sembra infatti quella, non di ridurre, ma di reprimere il contenzioso del lavoro, impedendo di fatto, o rendendo estremamente difficile per i lavoratori, la tutela dei loro diritti. Intanto si è avuta, come si è visto, un notevolissimo indebolimento dei diritti sostanziali, ma soprattutto si è abbattuto su quella capacità di difesa un’arcigna serie di decadenze e di implicite sanatorie di ogni genere di illegittimità (si pensi alle sanatorie previste dall’art. 32 legge183/2010). Si è affermata la premeditata tendenza a punire con pesantissime condanne per spese legali i lavoratori che hanno osato rivolgersi ai giudici, evidentemente perfettamente in sintonia su questa materia con l’intenzione repressiva del legislatore.

Il programma delle forze politiche democratiche dovrebbe dunque essere quello di perseguire anzitutto la riunificazione del mondo del lavoro dipendente e di ridare vita ad un sistema di tutele superiore a quello che il Jobs Actha voluto distruggere, concependo però questo perimetro di difese e di tutele non come un campo trincerato, ma come il punto di irradiazione di principi di sicurezza e garanzia del contraente debole capaci di espandersi anche verso il mondo del lavoro autonomo e delle piccole imprese.

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