di Luciano Marasca, esperto di America Latina, collaboratore del dipartimento Esteri PCI
Quando in Argentina, nel marzo 1976, l’ennesimo colpo di stato militare depose il governo legittimo in carica, in quel momento presieduto da Isabelita Peron, l’opinione pubblica mondiale, compresa quella argentina, reagì con indifferenza. In fondo non era che l’ultimo golpe in ordine di tempo dal 1930 – l’ottavo, per la precisione – e non avrebbe fatto più danni dei sette che l’avevano preceduto. Così pensavano tutti.
Ma solo un anno dopo alcune donne con dei fazzoletti bianchi in testa manifestavano – sfidando la repressione poliziesca – nella centralissima Plaza de Mayo a Buenos Aires, chiedendo conto alla dittatura dei loro figli e parenti “desaparecidos”. I nomi degli scomparsi erano scritti sui fazzoletti che indossavano. L’attenzione solitamente distratta dei più sembrò ridestarsi per un momento. Non più di tanto, probabilmente. Le manifestazioni delle “madres de Mayo” continuarono con ostinazione tutti i giovedì di tutte le settimane, con le stesse richieste; i militari lasciavano fare, evidentemente non troppo infastiditi da queste blande manifestazioni di dissenso condotte da innocue signore. Ma nel 1982 la giunta militare al potere decise di “suicidarsi”, scatenando l’avventura delle Malvine/Falkland, e dichiarando guerra – per la riconquista di quegli isolotti più vicini all’Antartide che a Buenos Aires e popolati da pecore, capre e discendenti dei coloni invasori di un secolo e mezzo prima – nientepopodimeno che all’Inghilterra di Margareth Thatcher. Fu l’inizio della fine. La guerra fu persa – con il sacrificio di centinaia di vite di giovani argentini provenienti dalle campagne e dalle zone più povere del paese – e la giunta militare ripiegò su se stessa, cedendo il passo, nel 1983, a un governo costituzionale regolarmente eletto. Immediatamente fu costituita la Commissione governativa Nunca mas (Mai più) per fare luce sui crimini della recente dittatura ed emerse quanto nessuno, se non pochissimi, si aspettava: l’ultimo governo dei colonnelli si era rivelato il più spietato di tutto il Novecento e si era macchiato, durante i suoi sette anni al potere, dell’omicidio e della sparizione di almeno trentamila cittadini argentini. La maggior parte di loro era stata sequestrata, torturata e infine lanciata dall’aereo nelle acque dell’oceano Atlantico, dove nessuno li avrebbe mai più ritrovati. I figli di gran parte di loro, rapiti in tenerissima età, erano stati affidati a coniugi appartenenti alla sfera militare, e le “abuelas” (le nonne) della Plaza de Mayo li stavano – e in molti casi li stanno ancora – cercando disperatamente. La maggior parte degli spariti e uccisi non era legata a nessuna organizzazione politica e non faceva, o non faceva più da tempo, attività politica di sorta.
L’attuale presidente dell’Argentina si chiama Mauricio Macri. Come denuncia il suo cognome è, alla pari di milioni di suoi connazionali, discendente di italiani. Di mestiere è impresario. Già sindaco di Buenos Aires dal 2007, è assurto alla massima carica dello Stato nel 2015, eletto nelle file del PRO (Propuesta Republicana), risultando così il primo presidente argentino degli ultimi ottant’anni non appartenente né al PJ (Partido Justicialista, peronista)né al PRA (Partido Radical Argentino, di centro-destra). La sua vittoria alle elezioni quasi certamente si deve al fatto che, per la prima volta, il PJ si è presentato spaccato alle elezioni presidenziali, presentando due candidati in concorrenza tra loro. La sicumera di ciascuno dei due (in fondo l’Argentina è dal 1989 che regolarmente elegge un presidente peronista, quindi ognuno dei candidati del PJ si sentiva con la vittoria in tasca) ha favorito il terzo litigante.
Fin dalle primissime settimane del suo mandato Macri, onorando le promesse fatte in campagna elettorale, ha avviato un programma accentuatamente di destra in ogni campo: sia in politica estera che all’interno, nel sociale, nella politica economica e industriale, nella politica del debito e in tutti gli altri settori possibili e immaginabili. Persino, come vedremo, nel campo della repressione e gestione dell’ordine pubblico, avendo come obiettivo privilegiato nientemeno che le Madres de Mayo.
Andiamo con ordine: la prima decisione di Macri, appena insediato, a dicembre 2015, è stata la liberalizzazione dei cambi, con conseguente e immediata svalutazione del peso argentino nell’ordine del 30% circa. Questa misura, oltre a stabilire una netta inversione di rotta rispetto alle politiche dei governi precedenti – Nestor Kirchner e Cristina Fernandez avevano sempre tenacemente difeso il regime dei cambi fissi, per dare un po’ di ossigeno al Paese e consentirgli di ripagare almeno in parte l’ingente debito estero – ha provocato un crollo verticale del potere d’acquisto di lavoratori e pensionati, che hanno perso così d’un colpo il 15% del valore reale dei loro redditi, valore che a tutt’oggi non è stato possibile recuperare.
Un’altra svolta netta si è avuta nella questione dei cosiddetti fondi avvoltoio, praticamente la richiesta, da parte di creditori statunitensi, del pagamento del debito argentino a condizioni capestro. Una lunga ed estenuante trattativa con i creditori condotta dall’ultimo governo peronista, quello di Cristina Fernandez, aveva conseguito un accordo con la maggior parte di essi per la ristrutturazione e la dilazione del debito, finché non è saltato fuori un giudice di New York, cui si era rivolto un pugno di creditori che non aveva accettato l’accordo, il quale ha dato ragione a questi ultimi. La posizione del governo Macri, ora, è quella di dare soddisfazione ai creditori più ostinati, con il rischio che anche gli altri, con cui si era addivenuti a un accordo, facciano a questo punto marcia indietro per non restare esclusi dalla spartizione della torta. Chiedendo in sostanza il pagamento del debito nei termini originariamente sottoscritti. In ballo sono, per il momento, circa 12,5 miliardi di dollari, che non è poco per una nazione prostrata come quella argentina, che, nonostante gli sforzi degli ultimi due governi peronisti, non si è ancora ripresa dalla crisi catastrofica del 2000-2003. Va segnalato che il grosso del debito estero argentino si è prodotto durante l’ultima dittatura militare, che si è servita della gran massa di denaro così affluita sia per una politica di riarmo esasperata (che servì a finanziare tanto la repressione quanto l’infelice guerra delle Falkland/Malvine)che per l’immissione sulla piazza di una quantità esagerata di denaro facile (fu il periodo della cosiddetta “plata dulce”), che favorì da un lato subitanei arricchimenti, più o meno leciti, dall’altro, al momento del brusco risveglio, tracolli e fallimenti a catena. Quasi tutte le famiglie argentine ne furono coinvolte. E’ in questo periodo – parliamo dei primi anni Ottanta – che l’Argentina si trasforma, per la prima volta nella sua storia, da paese di immigrati a paese che esporta mano d’opera.
Siccome tutto si lega, il pagamento del debito estero si scarica sulle spalle dei lavoratori e dei pensionati, di tutti i cittadini. Il debito estero si trasforma così in debito pubblico interno. Il governo Macri ha provveduto a aumentare le tariffe di tutti i servizi basici e a bloccare stipendi e salari. E anche le pensioni, che rischiano di vedere saccheggiato – in maniera del tutto illegittima – il fondo pensioni per far fronte alle richieste vampiresche dei creditori nordamericani. Con l’inflazione galoppante (stimata al 40%), e il licenziamento avvenuto in questi mesi di decine di migliaia di lavoratori dei settori pubblico e privato, l’indice di povertà è passato dal 29% del dicembre 2015 al 32% del marzo di quest’anno.
Da questa svolta a destra d’impronta sfacciatamente neoliberista (tutta una serie di agevolazioni, compresa la riduzione di dazi e tariffe sull’importazione di beni provenienti da Stati Uniti ed Europa, ha accompagnato peraltro l’azione del governo Macri) non è esclusa neanche una rivisitazione in chiave revisionista della storia recente. Così i desaparecidos e vittime dell’ultima dittatura non è detto che siano 30mila – parole dell’attuale presidente, che così si fa beffe dei risultati acclarati e definitivi di una commissione governativa – ma forse molti ma molti di meno. “Tutta la questione dei diritti umani non è altro che una bolla speculativa”, chiosa l’inquilino della Casa Rosada. Aldo Rico, un ufficiale dell’esercito protagonista, in anni recenti, di uno dei quattro “levantamientos” (tentativi insurrezionali) scatenati per ottenere dalla magistratura sentenze assolutorie per le responsabilità avute nell’ultima, feroce dittatura, ha partecipato in pompa magna a una festa solenne delle forze armate e il presidente Macri si è affrettato – non poteva essere altrimenti – ad andare a stringere la mano al genocida. A corollario di tutto questo sta l’ordine di arresto, comminato da un giudice della capitale, per Hebe de Bonafini, 87 anni, la storica e indomita leader delle Madres de Plaza de Mayo, a causa di una presunta malversazione di fondi, accusa che Bonafini ha respinto sdegnosamente. Una folla di manifestanti ha sbarrato la strada ai poliziotti venuti ad eseguire l’ordine, che il giudice si è visto così costretto a revocare. Il commento di Macri? “Hebe de Bonafini è una “desquiciada” (matta)”.
Le ultime notizie rimandano invece a presunte malefatte, su cui la magistratura sta indagando, del presidente argentino e che hanno a che fare con i famigerati Panama papers. Da questi sarebbe emerso che Macri fa capo a una società offshore, con sede nella capitale centramericana, la quale ha transato la bellezza di 9 milioni di dollari tra Panama, Brasile e Bahamas, servendosi dei buoni uffici di una firma illegale. Macri si era ben guardato in precedenza dal rendere noto il possesso di capitali depositati all’estero.
Questo quadro sconfortante che, al di là delle esternazioni fascistoidi e dei “peccatucci” fiscali del primo mandatario, delinea una netta deriva a destra dell’apparato governativo, rischia di vanificare in poco tempo le conquiste faticosamente raggiunte dai ceti popolari nell’ultimo quindicennio con Nestor e Cristina Kirchner. Ma si inserisce giocoforza nel disegno complessivo, a guida USA, di “socialdemocratizzare” il Mercosur e di azzoppare l’ALBA, l’Alleanza Bolivariana dei popoli latinoamericani, voluta da Hugo Chavez. In questa direzione vanno la criminalizzazione di Lula e Dilma Rousseff in Brasile, i colpi di stato in Honduras e Paraguay e i tentativi di golpe in Ecuador e in Bolivia, per non parlare del Venezuela. La ricreazione è finita, sembrano voler dire gli yankee al loro ex cortile di casa, ridateci il possesso delle materie prime, la liberalizzazione di beni e servizi, insomma il ritorno al libero mercato; rimettete la testa a posto, o ci incarichiamo noi di farvi rinsavire.
La situazione è ben chiara a quanti, in Argentina, si oppongono da mesi all’aggressiva politica neoliberista, e prona agli interessi statunitensi, del governo Macri. Manifestazioni nazionali e di massa si sono tenute, al ritmo di almeno una al mese, e molte altre si sono avute a livello locale e di categoria. L’opposizione, guidata dai sindacati e dalle forze di sinistra, ma a volte organizzata in maniera spontanea, sembra per il momento non scalfire la ferrea volontà del macrismo di proseguire sulla strada già tracciata con chiarezza nello scorso dicembre. Ma siamo solo agli inizi, il cammino è lungo e neanche le forze di opposizione demordono.
Ma a che scopo, in questa breve disamina della situazione argentina, accostare l’attuale governo alla feroce dittatura del 1976-83, ricordata all’inizio? I punti di divergenza sono evidenti: nel primo caso siamo pur sempre di fronte a un potere costituzionale e regolarmente eletto, cosa che non si può certo dire della giunta de facto di quegli anni. Anche la repressione e le pur presenti tendenze fascisteggianti del momento attuale non si possono certo comparare con la brutale repressione messa in atto alla fine degli anni Settanta. E’ pur vero, però, che la vocazione neoliberista è presente a chiare lettere in entrambi i tipi di regime. Sommessamente diciamo che un governo chiaramente autoritario non risponde più, in questo periodo storico, ai desiderata del capitale mondiale e dell’imperialismo. Peraltro le giunte militari, si sa, sono imprevedibili: non dimentichiamo il funesto episodio della guerra del 1982, in cui una potenza di rango inferiore, l’Argentina, osò sfidare la Gran Bretagna, la più stretta e solida alleata degli USA, che era come dichiarare guerra alla NATO, creando una lacerazione non da poco all’interno del blocco militare occidentale. La narrazione neoliberista procede spedita, ora con tutti gli orpelli della legalità costituzionale al loro posto. Ma, ancor più sommessamente, ricordiamo che alla giunta militare argentina nessuno all’inizio prestava molta attenzione. Ecco un altro punto di contatto, forse non secondario: mutatis mutandis lo stesso sta avvenendo, ci pare, con il macrismo. E se è vero che la storia, come disse qualcuno dotato d’indubbia autorevolezza, si ripete due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa, speriamo che di fronte a questa amara commedia gli argentini, ma non solo loro, non debbano piangere lacrime amare. Più di quelle che già stanno versando.