Ancora su Gorino.

Di Giorgio Langella, direzione nazionale PCI

razza-capitale

Una breve premessa.

Leggendo le notizie provenienti da Gorino, sentendo chi sosteneva di non essere razzista e che, allo stesso tempo, considerava le donne e i loro figli esseri inferiori, cose non degne della nostra solidarietà, mi è tornata in mente una canzone di tanti anni fa. La cantava Billie Holiday e si intitola “Strange fruit”. Ascoltiamola nella sua struggente e dolorosa melodia. Leggiamone il testo, scarno e crudele. Tentiamo, almeno, di avere coscienza che quei linciaggi di “negri” che ci fanno ribrezzo possono capitare anche da noi. Oggi. Anche se non ci consideriamo razzisti.

UNO STRANO FRUTTO (Strange fruit) Gli alberi del Sud danno uno strano frutto, Sangue sulle foglie e sangue alle radici, Neri corpi impiccati oscillano alla brezza del Sud, Uno strano frutto pende dai pioppi. Una scena bucolica del valoroso Sud, Gli occhi strabuzzati e le bocche storte, Profumo di magnolie, dolce e fresco, Poi improvviso l’odore di carne bruciata. Ecco il frutto che i corvi strapperanno, Che la pioggia raccoglierà, che il vento porterà via, Che il sole farà marcire, che gli alberi lasceranno cadere.

Ecco uno strano ed amaro raccolto.

 “Non siamo razzisti!”

Quanto successo a Gorino (frazione di Goro), dove ci sono state barricate da parte degli abitanti per impedire l’arrivo di 12 donne e 8 bambini profughi, è indice di una crescita di intolleranza e, perché no, di cattiveria che sta inquinando il paese. Quello di Gorino non è un episodio isolato, né una incomprensione o una mancanza di informazione. È qualcosa di diverso e ben più grave. Le dichiarazioni “a caldo” e “a freddo” che si ascoltano in trasmissioni radiofoniche e televisive o che si leggono sui giornali sono emblematiche. Generalmente plaudono a quanto successo. Ci dicono che non se ne può più dei profughi, che devono restare a casa loro, che sono portatori di disordine, malattie, malvagità. Che sono diversi perché hanno una loro cultura, una pelle più scura… Intanto ci si chiude nel proprio territorio. Si afferma che non c’è posto per chi viene da fuori, che “prima vengono” i residenti e ci si dimentica di quando i cittadini che abitavano le rive del Po emigrarono a causa della povertà e delle alluvioni del secolo scorso. Oggi molto è cambiato e quello che sta montando, da decenni ormai, nel nostro paese è la cattiveria umana e sociale. È il senso di proprietà (ben diverso da quello di appartenenza a una classe) che ci viene inculcato e ci costringe a vedere il nemico in chi soffre, in quello più debole di noi, in chi è “più povero” e può compartire una minima parte del nostro “benessere”. Abbiamo terrore del diverso che ci chiede solidarietà. Nella società “moderna” è lui il nemico che si deve combattere ad ogni costo. Non importa se lo “straniero” sta fuggendo dalle guerre e dalla fame imposte dai “nostri” governi e dai “nostri” grandi monopoli per garantirsi le fonti energetiche che dovrebbero invece appartenere allo “straniero”. Non importa se, per secoli, abbiamo colonizzato e massacrato popoli interi (quelli ai quali lo “straniero” appartiene) e se continuiamo a farlo. Non importa. Nell’accezione diventata sentire comune, il pericolo sono loro, gli “stranieri”, i “profughi”, i “clandestini”. Chi distrugge interi paesi per rubare le altrui ricchezze, chi si arricchisce grazie a questo, fa parte (ci spiegano) della nostra “razza”, della nostra “democrazia” e deve essere riverito e ringraziato in quanto difensore delle nostre miserabili proprietà e dei nostri privilegi.

“Non siamo razzisti” si continua a sentire, e chi pronuncia questa frase ne può anche essere convinto in buonafede. Ma la lezione da trarre da fatti come quello di Gorino è qualcosa di più preoccupante del “razzismo” brutale come lo immaginiamo. C’è un sentimento subdolo che cresce dentro di noi e che ci fa dimenticare concetti fondamentali come solidarietà e coscienza. Qualcosa che ci fa considerare come ciarpame, una cosa vecchia superata dai tempi e dagli avvenimenti, il concetto di appartenenza a una classe (cosa ben diversa rispetto all’appartenere a una razza o a occupare un territorio). Qualcosa che ci fa lottare contro i deboli e chinare la testa di fronte ai forti. E così, senza essere razzisti, noi, sfruttati, consideriamo gli altri sfruttati (e non gli sfruttatori) i nemici da combattere. È una forma di odio pericolosa proprio perché non ce ne rendiamo più conto.

Si abbia memoria, il fascismo si è sviluppato soprattutto grazie a questo odio. Così sono state accettate (se non invocate) le leggi razziali, dalla stragrande maggioranza della gente che aveva acquisito il concetto di come i “diversi” o chi non si adeguava al pensiero del regime, fossero “inferiori” e, quindi, non degni di vivere. Un poco alla volta, lentamente, pacatamente, abbiamo odiato il nostro simile e siamo diventati il braccio armato di chi si arricchiva alle spalle del conflitto tra sfruttati e miserabili. Tra chi aveva niente e chi aveva poche briciole. Attenzione. Questo sta succedendo in Italia e nel mondo. Si sta ripetendo quella tragedia della quale, ormai, solo pochi hanno memoria. Prepariamoci a un conflitto brutale del quale si può presumere solo che non ci sarà nessun vincitore e che quasi tutti saranno dalla parte del torto. In primo luogo chi aveva gli occhi per vedere e non ha visto.

 

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