di Alberto Ferretti di PCI Marche
Con l’avvicinarsi della scadenza referendaria del 4 dicembre, la retorica allarmista dell’apparato politico-mediatico legato ai centri economici dominanti assume toni surreali. Secondo il Financial Times, la vittoria del NO spingerebbe l’Italia automaticamente fuori dall’Euro; per il presidente di Confindustria, invece, bloccherebbe tutti gli investimenti passati, presenti e futuri e condurrebbe il Paese alla rovina; per l’agenzia di notazione S&P, l’Italia non ha bisogno di una crisi politica ora (sottinteso, in caso vincesse il NO) (1). Insomma, la convergenza tra capitalisti internazionali sull’esito sperato del referendum costituzionale italiano è significativa del contenuto di classe che sottende tale riforma.
Perché? Ce lo spiega in poche e autorevoli parole il presidente della Bce Mario Draghi, in un intervento all’Europarlamento a Strasburgo in data 21/11: “L’attuazione delle riforme strutturali (leggi il taglio degli stipendi e delle protezioni sociali dei lavoratori) deve essere accelerata […] per migliorare l’ambiente per le imprese.” (2) Il rappresentante istituzionale più organico al grande capitale organizzato entra in questo modo a gamba tesa nel dibattito, rimettendo ordine alle priorità gli interessi in gioco.
In questo contesto si iscrive dunque la battaglia contro “il bicameralismo perfetto” – vero e proprio leit motiv dei riformatori – il cui superamento costituisce il cuore della controriforma costituzionale sulla quale i cittadini sono chiamati a esprimersi il 4 dicembre. Tale bicameralismo pare impedisca il buon corso dell’attività legislativa, attività legislativa che consiste oggi sostanzialmente nel recepire le direttive liberali e anti-operaie elaborate dalla Commissione Europea, le « riforme strutturali » come le chiama Draghi.
Iniziamo col dire che tutto ciò è palesemente falso: quando c’è volontà politica nessun meccanismo istituzionale è in grado di impedire la promulgazione di leggi in tempi certi, vedi le rapide approvazioni del Jobs Act e delle svariate norme salva banche. Tuttavia, ed è qui risiede il nodo politico, l’impianto bicamerale è obsoleto agli occhi delle classi dominanti in quanto obbliga i governi a un certo grado di dialogo e negoziato, aspetto potenzialmente foriero di ostacoli: altrimenti detto, può favorire un’opposizione, tale da esprimersi con ritardi di approvazione e conseguente cortocircuito mediatico-sociale. Con una società in ebollizione a causa del degradarsi costante delle condizioni di esistenza dei ceti popolari, questo è un pericolo da scongiurare, « per le imprese ».
Quel che si cerca oggi sono approvazioni immediate, che non lascino tempo al dibattito, come richiesto dalle Borse che vivono al ritmo vertiginoso dei risultati finanziari a breve termine e delle trimestrali di cassa dei grandi gruppi. In ossequio a tali direttive, la controriforma messa in cantiere dal duo Renzi/Boschi prevede dunque un depotenziamento del Senato, al quale sono sottratte gran parte delle attribuzioni legislative (ma non quelle costituzionali ad esempio).
Un Senato i cui senatori non saranno più eletti dal popolo, giacché la riforma abroga il suffragio universale e diretto assegnando ai Consigli regionali l’elezione “con metodo proporzionale, di senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori” (3). Palese è dunque la dinamica di svuotamento democratico, tendenza politica di questa fase storica, e di cui la riforma si fa interprete.
A peggiorare il quadro, il fatto che la legge elettorale ultra-maggioritaria, conosciuta sotto il nome di Italicum, venga a innestarsi su questo progetto di accentramento di potere nella Camera dei deputati. L’Italicum prevede, per il partito o lista che ottenga il 40% dei voti, un premio di maggioranza tale da attribuirgli il 54% dei seggi, accompagnato da una soglia di sbarramento al 3% su base nazionale, senza possibilità di coalizione. Una truffa. Che consegnerebbe a una singola forza minoritaria una Camera blindata per i numeri parlamentari gonfiati. L’Italicum è stato chiaramente pensato e voluto per favorire i partiti più grandi, un’impostazione – frutto del patto del Nazareno quando FI e PD erano maggioritari – messa però in difficoltà dall’ascesa, per lo meno nei sondaggi, del Movimento 5 stelle. Insomma, grande è la confusione sotto il cielo delle palazzi romani.
L’unica certezza è che il mondo degli affari spinge per la vittoria del Sì; ciò permetterebbe all’esecutivo di applicare « le riforme » senza mediazioni e contrappesi, in modo da aprire la strada alla dittatura sempre più diretta del Capitale.
D’altronde, gli istituti finanziari hanno ben chiara la natura della nostra Costituzione, e da tempo nei loro report – celebre quello della banca JP Morgan del 2013 – (4) vedono nel carattere anti-fascista e « socialista » della stessa un intralcio alle loro attività e ne consigliano il « depotenziamento ».
Intendiamoci, dal punto di vista di una banca d’affari, questa analisi regge. Lo Stato italiano si è costituito nella sua forma repubblicana in seguito alla Resistenza, e quando si afferma che la Costituzione di questo Stato è antifascista, non si fa altro che registrare il peso delle forze socialiste e comuniste nella nascita dello stesso, in virtù del loro contributo determinante alla lotta di Liberazione.
Una lotta concreta che determinò la nascita della « Repubblica democratica fondata sul Lavoro », in cui le forze operaie, strutturate in solide organizzazioni di massa, contribuivano allo sviluppo del Paese sulla base del compromesso anti-fascista, svolgendo la funzione di contrappeso a una borghesia italiana uscita a pezzi dalla guerra, ma pur sempre depositaria del potere economico. Un’epoca in cui il proletariato italiano entra per la prima volta nell’arena politica con autonome rivendicazioni, strappando importanti concessioni alla borghesia protetta dalla DC. Un’epoca di progresso sociale dunque, pur in regime capitalista.
Questo rapporto di forza tra le classi era registrato e si sviluppava all’interno della cornice formale della « Repubblica democratica fondata sul Lavoro », che noi ereditiamo. Una formula che, lungi dall’essere vuota retorica come lo è oggi, delineava gli orientamenti ideali della neonata Repubblica: « democratica », nel senso liberale e borghese del termine, ma « fondata sul Lavoro », capace cioè di prendere in conto gli interessi dei lavoratori e tendente al socialismo come aspirazione sul lungo termine.
Tuttavia, dati i cambiamenti economici occorsi dagli anni ’80 in poi – quando il Paese inizia a essere confrontato a un’impetuosa concentrazione della produzione e della ricchezza -, e a causa del conseguente impoverimento delle classi lavoratrici, accompagnato dall’indebolimento delle organizzazioni operaie, questo parziale equilibrio tra le classi registrato all’epoca dalla Carta si è spezzato.
In conseguenza, nelle attuali condizioni sociali, la borghesia degli affari, dominante, vede spazi per rimaneggiare la Carta accentuandone i caratteri regressivi, mentre mancano le condizioni oggettive e soggettive per attuarla realmente, in particolare nei suoi principi esplicitamente socialisti, come i diritti economici enunciati negli articoli 35-47, purtroppo sempre disattesi.
Ed è qui che la responsabilità delle odierne forze comuniste e progressiste è grande. Esse portano nella battaglia per il NO la consapevolezza che solo a partire dalla Costituzione antifascista potranno svilupparsi condizioni favorevoli al progresso sociale. Che solo integrando nei programmi delle forze popolari certi aspetti prefigurati nel ’48, e non certo smantellandone alcune parti per assecondare il dispiegamento del Capitale, si potrà parlare di socialismo in Italia. E che ignorare tale voto come fosse indifferente allo sviluppo delle lotte di classe in Italia sarebbe un grave errore. Al contrario, come abbiamo visto, il voto al Referendum ha un forte contenuto di lotta di classe, è una tappa importante di questa dinamica, e tra le tante, la più immediata.
Un NO che significa difesa della Costituzione borghese antifascista, intorno al principio della centralità del Parlamento rispetto all’Esecutivo – strumento svuotato sempre più delle sue funzioni in favore di governi imposti da istanze terze come la UE, l’FMI e la NATO – e al contempo rilancio della lotta per le più attuali questioni della rinascita di uno Stato sociale e di una rappresentanza progressista nei luoghi di lavoro e nella società.
I comunisti sono per l’abolizione totale del Senato (storicamente orpello aristocratico delle democrazie borghesi), non certo per una sua riforma pastrocchio elaborata per accontentare le baronie locali e foriera di nuovi bizantinismi procedurali. Per un sistema monocamerale autentico, da eleggere col proporzionale puro, ben più rappresentativo della volontà popolare che il maggioritario.
Quello che ci propone il governo Renzi invece è lontano mille miglia da tali obiettivi, anzi li allontana, facendo della “volontà popolare” una chimera e una foglia di fico alle velleità dittatoriali del partito unico dei mercati, contro cui occorre il 4 dicembre far fronte comune, convintamente votando NO.
[…] PER ATTUARE LA COSTITUZIONE SERVONO I COMUNISTI […]