di Segreteria Nazionale PCI
Dopo aver fatto approvare in Parlamento (luglio 2012) il patto fiscale (Fiscal Compact) che, in tema di rigore di bilanci pubblici, ha imposto ai Paesi membri dell’Unione europea un’ulteriore stretta rispetto alle già draconiane regole del Trattato di Maastricht e dopo essersi dimostrato più realista del re con l’inclusione in Costituzione del pareggio di bilancio, in ossequio agli orientamenti neoliberisti e antipopolari di Bruxelles, oggi il Pd di Matteo Renzi scopre l’acqua calda – leggi: gli effetti nefasti di tali decisioni – presagendo evidentemente le conseguenze elettorali del disastro sociale ed economico da queste prodotto. E azzarda una timida quanto improbabile correzione, provando a ipotizzare un parziale scostamento da quei rigidi dettami.
Lo fa con una proposta propagandistica e sostanzialmente di destra: chiedendo cioè il permesso di operare in deficit entro il 3% per i prossimi cinque anni, così da destinare le risorse resesi in tal modo disponibili ad un abbattimento della tassazione; e – contemporaneamente – prevedendo l’ennesima stagione di privatizzazioni del patrimonio pubblico del nostro Paese con la cessione ai privati di ulteriori quote dei pacchetti azionari delle nostre aziende strategiche e di pezzi di demanio pubblico. Con tale iniziativa, l’ex Presidente del Consiglio ha finito per scontentare sia la sua minoranza interna, critica rispetto a misure che assecondano da destra il malumore nei confronti del fisco, sia il governo in carica, restio a disturbare anche solo timidamente la tecnocrazia europea. Quel che è peggio, con tale sortita si persegue un’impossibile quadratura del cerchio: conciliare spazi di crescita economica e sociale con una ribadita osservanza dell’asse di fondo degli orientamenti dell’Ue e dei suoi Trattati.
Il Partito Comunista Italiano, coerentemente con quanto sostenuto dalla sinistra di classe in questi ultimi due decenni, alla luce della perdurante involuzione delle condizioni di vita del grosso della popolazione italiana (e in generale continentale) nonché degli assetti della nostra economia (segnatamente, con il consistente inarrestabile peggioramento del rapporto tra debito e Pil) conferma la radicale opposizione alle cosiddette politiche di austerità, ribadisce l’illusorietà del proposito di riformare questa Unione europea ricercando un’inversione di tendenza compatibile con gli orientamenti di quest’ultima. E rilancia in vista del prossimo autunno i propri contenuti programmatici: difesa delle aziende strategiche e loro rinazionalizzazione, rilancio del ruolo pubblico a cominciare dalla costituzione di un Polo pubblico del credito che finanzi produzioni socialmente e ambientalmente sostenibili, attivazione di un piano del lavoro per la creazione di occupazione buona e non precaria, difesa e incremento del potere di acquisto dei redditi da lavoro, abolizione della controriforma Fornero sulle pensioni e del Jobs act, deciso abbattimento delle spese militari. Il perseguimento dei suddetti obiettivi comporta in tutta evidenza un radicale spostamento dell’asse di governo del Paese: ma ciò non è realisticamente proponibile senza porre come premessa la rottura con questa Unione europea.
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