ALBERTO MENICHELLI, un ricordo.

di Norberto Natali

Sono fiero di essere stato al suo fianco.

Dov’era la casa di Enrico Berlinguer? Sembra una strana domanda ma non lo è, se consideriamo che una personalità tanto famosa e cara a grandi masse, ancora molto popolare e al centro di interessi e di polemiche, viveva in un luogo ignoto ai più (anche a molti giornalisti) diversamente da quanto capita ad altri -anche meno famosi ed importanti- i quali fanno sfoggio delle proprie abitazioni e dei propri fatti privati.
Eppure l’ubicazione la conoscevano parecchi. Alcuni dirigenti nazionali del Partito, benché non fossero molti, poiché in pochi frequentavano la sua casa, anche perché il nostro costume era tenere ben separati (a volte anche distanti) i rapporti di amicizia personale da quelli di Partito.
La conoscevano anche i compagni della Vigilanza (la mitica). Non solo quelli propriamente addetti alla protezione del Segretario, poiché la sua casa era permanentemente vigilata. Io stesso, in momenti particolarmente difficili, ho trascorso lì qualche nottata, per rimpiazzare compagni assenti per malattia o altre cause.
Personalmente, non ho mai detto a nessuno (credo neanche a mia moglie) dove abitasse Berlinguer: non solo quando era vivo (ci mancherebbe!) ma neanche nei decenni successivi. Non credo l’abbia mai fatto nessuno dei compagni i quali, per dovere ideale e scelta politica, frequentavano quell’indirizzo. Basta questo per dirla lunga sulla morale e sul costume politico dei comunisti (non solo in Italia) di cui oggi non vi è quasi più traccia.
A questo proposito, mi ricordo ancora una risentita protesta di Giorgio Bocca il quale, volendo scrivere un libro sulla storia degli anni ’30, non riusciva a trovare un compagno (tra i protagonisti di quell’epoca) che volesse rivelargli l’indirizzo di una sede clandestina del PCI di Parigi: questo quarant’anni dopo!
Appena dieci mesi fa, è stato Alberto a rivelare in un’intervista che si trattava di via Ronciglione, a Roma. Per questo Enrico ed altri suoi familiari erano iscritti, a norma di statuto, alla sezione Ponte Milvio e la tessera gliela consegnava l’indimenticabile Sergio Ferrante.
Alberto Menichelli, mi sembra che i compagni lo soprannominassero Spillo ma -qualche mese fa- mi disse di non ricordare questo nomignolo. Che rabbia quando lo sento definire “l’autista” di Berlinguer: provo lo stesso fastidio che sentivano i compagni della Vigilanza di Botteghe Oscure (o di alcune Federazioni) quando venivano definiti “portineria”. Chi si esprimeva così, mostrava soprattutto stupidità politica, perché per noi comunisti -è ovvio- portieri e autisti sono lavoratori onorati. Stupidità ed ignoranza politica di ominicchi per i quali quei compagni erano pronti a colpire e a cadere: non certo per difendere dei singoli individui ma ideali e valori, una storia e una tradizione che risaliva ai Partigiani e ad origini anche più lontane.
Alberto Menichelli era un proletario, un borgataro romano che smise di fare l’operaio per dedicarsi a tempo pieno alla difesa del Partito, di conseguenza del suo Segretario generale. Ci voleva coscienza ed intelligenza politica per fare questa scelta e per compiere questo dovere, doti necessarie tutti i giorni, insieme al coraggio e alla forza.
Lui era il responsabile della scorta, questo era anche un incarico politico, per lo meno dal punto di vista comunista. C’era quasi una simbiosi tra i compagni della Vigilanza e i dirigenti del Partito di cui dovevano occuparsi.
La morte di Alberto, avvenuta oggi all’età di quasi novant’anni, sarà l’occasione per conoscere una ricca memorialistica, quindi non mi dilungherò in tanti aneddoti, ricordi, ecc. Molti altri potranno farlo meglio di me, a cominciare dai “suoi” compagni: Gabriele, Roberto, Danilo ed altri ancora. Qualcuno purtroppo non potrà farlo, tra questi Dante e Claudio.
Vorrei soltanto sottolineare che con il PCI, la vita concreta di una grande massa di donne e di uomini per molti decenni è stata cosa ben diversa da quella che molti (per esempio sotto i quarant’anni) potrebbero ritenere oggi, per vari motivi. Una storia di valore, di onore, che da forza al movimento comunista internazionale e al nostro paese, che rende fieri di essere italiani e comunisti. In momenti di solitudine e sconcerto, di debolezza ed anche di paura, conoscere questa storia, ispirarsi ad essa, è un antidoto che ci permette di ritrovare il nostro orgoglio e riprendere la strada del futuro.
Proprio per questo si tenta di cancellare in ogni modo questo patrimonio e quando non ci si riesce lo si deturpa, lo si seppellisce di menzogne e bugie inventate di sana pianta, continuamente. Approfitto, anzi, per invitare tutti quanti leggono queste righe, a promuovere -se possono e lo ritengono utile- un confronto aperto, pacato ma schietto e sincero con quanti diffondono, magari in buona fede, menzogne sul PCI, la sua natura, la sua storia. Personalmente sono disponibile e pronto.
Ci sono state molte compagne e compagni i quali, dal 1946 in poi, per le scelte che hanno compiuto e le azioni di cui sono stati protagonisti, possono essere definiti partigiani del nostro tempo ovvero hanno dato prova di tale coscienza e coraggio da poter essere certi che -se ne avessero avuto l’età- avrebbero militato senz’altro nei ranghi della Resistenza. Checché se ne dica, tra questi ci sono molti compagni della Vigilanza, Alberto Menichelli in prima fila.
Tornando al valore politico del suo delicato compito, mi limito a rivelare un fatto, visto che è un periodo che ho deciso di “spifferare” qualcosa. Alberto era il capo della scorta del Segretario del PCI, il quale provvedeva benissimo da sé alla propria difesa. Tuttavia il Segretario del Partito disponeva anche di un regolare servizio di protezione da parte delle forze dell’ordine (come i segretari di tutti i partiti ed altre personalità di pubblica fama).
Questo ha dato luogo, talvolta, a delle polemiche un po’ faziose e puerili. C’è sempre qualche rivoluzionario da salotto che sa come devono combattere gli “altri”. Il PCI voleva la scorta ufficiale in primo luogo per un motivo di principio. La Repubblica e la Costituzione sono nate sul sangue dei Partigiani (e non solo dei Partigiani) comunisti. Era preciso dovere dello Stato, quindi, farsi carico della sicurezza di chi rappresentava una parte così importante della storia e del popolo di questo paese.
In secondo luogo, non si doveva dare alcun alibi alle forze e alle trame reazionarie che pure agivano all’interno degli apparati statali e bisognava, invece, responsabilizzare al massimo le autorità, senza concedere loro alcun alibi. Quindi i corpi di polizia dovevano esserci e rispondere di quanto sarebbe potuto accadere, in momenti drammatici e violenti, al massimo rappresentante del Partito della classe operaia, il maggior Partito dell’opposizione. Insomma, era giusto che si accettasse, anzi si pretendesse, la presenza delle forze di polizia.
Tuttavia il Partito non era ingenuo, non ignorava le suddette trame e forze reazionarie né i rischi di colpo di stato, eravamo pronti a mettere in salvo e al sicuro il Segretario del Partito, anche nei casi più malaugurati. Oltre al normale servizio di scorta, in alcuni momenti e in alcuni luoghi, c’erano compagni preposti a provocare un incidente (incruento) con le auto della Polizia, in modo da fermare e distrarre gli uomini in divisa, separarli ed isolarli dal convoglio di compagni che seguivano Berlinguer, in modo che questo fosse libero di raggiungere la destinazione predisposta.
Questo tanto per far capire la storia e il PCI, soprattutto per far comprendere l’attendibilità di chi mente sul nostro Partito e non serve aggiungere altro.
Infine mi sembra significativo ricordare che tra lo stipendio che percepiva Alberto dal Partito e quello che prendeva Berlinguer, c’era una differenza molto inferiore a quella che si può credere oggi, una differenza infima rispetto a quella che corre tra un autista e, per esempio, un grande manager. Anche questo era il PCI.
Alberto non solo non era un “autista”, tanto meno era -come si direbbe volgarmente oggi- un “bodyguard”. Forse guidava meglio di un autista e “menava” più di un bodyguard ma era un combattente della democrazia e della libertà, per la causa dei lavoratori, della pace, del socialismo.
Era un proletario comunista ed ha servito la sua coscienza e i suoi ideali con scrupolo, disinteresse, sprezzo del pericolo e tanta fatica.
Dopo oltre trent’anni di lontananza, l’ho rincontrato solo l’anno scorso, presso la “sua” associazione. Gli raccontai di quando eravamo stati insieme l’ultima volta, ossia del giro di comizi che Berlinguer fece in Calabria nella primavera del 1983. Qualche mese fa ho già raccontato quella storia, quando collaborai con loro della scorta in quell’occasione, durante la quale -tra l’altro- sventai a Reggio Calabria, in anticipo, il tentativo di un boss dell’ndragheta (mi sembra un certo De Stefano “nano ghiacciato”) di avvicinarsi al compagno Berlinguer e farsi fotografare mentre gli dava la mano.
Ovviamente Alberto non si ricordava di me in quell’occasione ma mi disse subito: “ah sì, quella volta… C’era pure un mafioso che si voleva avvicinare…”. Si ricordava ancora dell’episodio.
Poco tempo dopo fu investito e ricoverato al Policlinico di Roma, subito mi diedi subito da fare e -grazie all’aiuto di un compagno- ottenemmo che fosse visitato al più presto da specialisti molto stimati.
L’ultima volta l’ho incontrato ad una serata musicale che aveva organizzato in onore di Claudio Villa. Fu contento di vedermi e mi diede un’allegra pacca sulle spalle: ho temuto che mi avesse fatto venire la scoliosi, tanto era forte a novant’anni (o giù di lì).
Queste storie, questa Storia, devono tornare a guidarci a cambiare l’Italia e il suo posto nel mondo. Per farlo dobbiamo riflettere severamente, rigorosamente, sugli errori che abbiamo commesso, perché il cammino del PCI merita che in futuro non se ne commettano più. Tuttavia potremo svolgere meglio questo compito se sapremo far vivere al massimo, il più a lungo possibile, l’esempio e il significato di vite come quella di Alberto. Per questo sono fiero di aver potuto essere, qualche volta, al suo fianco.

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