di Giorgio Langella, Direzione nazionale PCI
I titoli che riportano, più o meno parzialmente, i dati sull’occupazione diffusi da ISTAT sono del tipo: “Italia a livelli pre-crisi”, “23 milioni di occupati come nel 2008”, “Renzi: Un milione di posti merito di Jobs Act e nostre politiche”.
Tutto bene, allora? Forse.
Ma sarebbe meglio cercare di interpretare dati, leggerli in maniera critica e, magari, confrontarli con quelli diffusi da INPS nel suo “Osservatorio sul precariato” che si riferisce ai primi sei mesi dell’anno in corso e con quelli relativi alla sicurezza e agli infortuni nei luoghi di lavoro.
È bene farlo perché prendere i dati senza fare un minimo di confronto tra loro è come credere a un dogma. Ci vuole una fede cieca. E, su queste cose, è bene non averla.
Innanzitutto bisogna rilevare che, ed è bene ripeterlo per l’ennesima volta, i dati ISTAT sono stime, statistiche che hanno un margine di errore spesso e volentieri superiore alle differenze che si rilevano tra i mesi presi in esame.
Un’altra cosa, tutt’altro che marginale, che deve essere considerata in maniera critica è quanto la collettività ha speso per raggiungere i “traguardi” evidenziati dall’ISTAT (in termini di bonus e decontribuzioni varie) e a quale livello sono le retribuzioni percepite da chi ha un posto di lavoro. Per quanto riguarda la “questione salariale” è bene ricordare che spesso i lavoratori con contratti a termine o quelli costretti ad aprire partita IVA hanno retribuzioni irrisorie che raramente superano i 1.000 euro lordi al mese e spesso si assestano su paghe orarie ben inferiori ai 5 euro “tutto compreso” (è normale che, chi “vuole entrare” nel mercato del lavoro non lo fa gratuitamente o con rimborsi spesa ridicoli, percepisce poche centinaia di euro al mese).
Inoltre, probabilmente, i dati ISTAT di luglio possono essere “anomali” in quanto, visto che risulta occupato chiunque abbia lavorato almeno un’ora nella settimana di riferimento per la stima, considerato il periodo estivo è plausibile che l’aumento dell’occupazione sia soprattutto dovuto a lavori intermittenti, “occasionali” e stagionali.
Infine è bene porsi la domanda di quale sia il livello di sicurezza nei luoghi di lavoro e conoscere quanti sono i decessi per infortunio.
Ecco che, con un quadro più ampio si può avere maggiore coscienza sulla quantità e sulla “qualità” reale dell’occupazione.
Per i dati ISTAT confrontiamo il dato di luglio 2017 con quelli di luglio 2016 e di luglio 2008. Sono stime assolute e le relative percentuali rispetto al totale della forza lavoro.
Luglio 2017 | % su totale | Luglio 2016 | % su totale | Luglio 2008 | % su totale | |
Occupati | 23.083.000 | 88,67 | 22.769.000 | 88,47 | 23.130.000 | 93,37 |
Disoccupati | 2.950.000 | 11,33 | 2.967.000 | 11,53 | 1.643.000 | 6,63 |
Affermare che l’Italia è “a livelli pre-crisi” sembra un po’ azzardato. Se è vero che gli occupati sono stimati in oltre 23 milioni e che questo è un numero inferiore solo di 47 mila unità rispetto a quello del luglio 2008, i disoccupati sono cresciuti, invece, di 1.307.000 unità passando dal 6,63% all’11,33% del totale della forza lavoro. Si dirà che gli inattivi sono calati ma su questi bisognerebbe stimare quanti sono realmente i “rassegnati” (le persone che vorrebbero lavorare e non riescono a trovare occupazione da così troppo tempo che hanno rinunciato alla ricerca e non compaiono tra i disoccupati) e quanti sono quelli che non vogliono o non hanno bisogno di trovare un’occupazione. I primi, secondo le stime di Eurostat, sono circa 3 milioni e sono più o meno stabili nel tempo.
Un altro confronto che è utile fare è sulla tipologia di rapporto di lavoro degli occupati. Mentre i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato sono più o meno stabili tra il 2008 (15.167.000) e il 2017 (15.040.000), quelli con contratto a termine sono cresciuti del 18,93% passando dai 2.440.000 del 2008 ai 2.902.000 del 2017. Tenuto anche conto che nel 2008 esisteva ancora la garanzia dell’articolo 18 (praticamente cancellato con il “Jobs Act”) è evidente che il lavoro è diventato ancora più precario.
Da tenere in conto c’è anche l’aspetto relativo all’età degli occupati che evidenzia un loro progressivo invecchiamento che non può lasciare indifferenti.
Fascia d’età | Luglio 2017 | Luglio 2016 | Luglio 2008 |
18 – 24 | 1.013.000 | 965.000 | 1.443.000 |
25 – 34 | 4.083.000 | 4.092.000 | 5.511.000 |
35 – 49 | 9.820.000 | 9.935.000 | 10.551.000 |
oltre 50 | 8.147.000 | 7.776.000 | 5.625.000 |
Se si confrontano i dati del 2017 con quelli del 2008 si evidenzia come ci sia stato un deciso calo degli occupati con età inferiore a 50 anni (-2.589.000) e un forte aumento di quelli più anziani (+2.522.000).
Leggendo, poi, i dati INPS relativi ai nuovi rapporti di lavoro attivati nei primi sei mesi dell’anno l’aumento di precarietà che investe il mondo del lavoro risulta ancora più evidente.
Nuovi rapporti di lavoro | gennaio – giugno 2017 | gennaio – giugno 2016 | gennaio – giugno 2015 |
Tempo indeterminato | 640.532 | 665.677 | 965.464 |
A termine | 2.351.719 | 1.852.414 | 1.798.327 |
Apprendistato | 144.177 | 113.250 | 96.874 |
Stagionali | 410.896 | 339.896 | 367.161 |
Le nuove assunzioni crescono per i lavori a termine, per gli apprendisti, per i rapporti stagionali. I nuovi contratti a tempo indeterminato (che, non esistendo più la tutela dell’articolo 18, sono anch’essi ormai indistinguibili da quelli precari) sono in forte calo (in due anni sono calati del 33,66%).
E’ bene, inoltre, ricordare che i dati INPS si riferiscono al numero dei contratti e non alle persone e che una stessa lavoratrice o uno stesso lavoratore possono aver stipulato più contratti.
Se si considerano i licenziamenti “per giusta causa o giustificato motivo soggettivo” (prima regolati dall’articolo 18 dello statuto dei Lavoratori), da quando è entrato in vigore il “Jobs Act”, questi sono aumentati in maniera determinante (si considera il periodo gennaio-giugno) passando dai 26.836 del 2015 ai 35.586 del 2016, ai 37.281 del 2017 con un aumento, in due anni, pari al 38,92%.
Anche sul fronte della sicurezza nei luoghi di lavoro si assiste a un deciso peggioramento.
I recenti dati INAIL relativi al periodo gennaio-luglio 2017 rilevano 591 decessi pari a un aumento del 5,16% rispetto allo stesso periodo del 2016. Questi dati sono riferiti ai soli lavoratori assicurati INAIL. Se si leggono i dati pubblicati quasi giornalmente dall’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro, si viene a conoscenza che al 1 settembre 2017, i morti per infortunio nei luoghi di lavoro (tutti documentati) sono 457 (furono 438 nel 2016 e 408 nel 2008) e che sono quasi mille quelli stimati considerando i decessi avvenuti sulle strade e in itinere (così come vengono calcolati da INAIL).
La situazione del mondo del lavoro, allora, risulta tutt’altro che rosea o in miglioramento. Basarsi su numeri ISTAT che spostano di qualche decimo di punto (spesso inferiore al possibile errore statistico) le stime di occupati e disoccupati, rilevare solo i dati positivi e “fare propaganda” non risolve nulla. Dare incentivi a imprenditori attenti ai loro profitti, molto probabilmente, serve solo a aumentare la loro ricchezza e costa a tutta la collettività. Si pensi che il costo per lo Stato dovuto alla decontribuzione alle imprese prevista per le assunzioni nel triennio 2015-2017 è stimato tra i 14,5 miliardi e i 22,6 miliardi a seconda dello scenario dovuto alla durata del contratto di lavoro .
Ripianare i debiti dei privati, pagare buonuscite milionarie a manager che hanno contribuito a distruggere aziende pubbliche, salvare banche private a suon di miliardi pubblici, rimanendo ai margini senza diventare proprietari e operare direttamente nell’economia è un “lusso” che, oltre che essere costoso e ingiusto, non ci possiamo permettere come collettività e come Stato.
La parola d’ordine “più stato e meno mercato” non è qualcosa che riguarda il passato. È un progetto per il futuro, una soluzione per risolvere dalle fondamenta le storture di un sistema che si basa sul profitto individuale e crea disuguaglianze insostenibili.