Dati ISTAT. Alcune considerazioni sul lavoro.

di Giorgio Langella, Direzione Nazionale PCI e Dennis Vincent Klapwijk, responsabile nazionale Lavoro FGCI

L’ISTAT nella presentazione della “Nota mensile sull’andamento dell’economia italiana” scrive:

“In un quadro economico internazionale favorevole, si rafforza la crescita dell’economia italiana, sostenuta dal settore manifatturiero e dagli investimenti. Prosegue il miglioramento dell’occupazione, che interessa anche i giovani e le donne. L’indicatore anticipatore torna ad aumentare rafforzando le prospettive di crescita a breve termine.”

Sarà anche vero, forse, ma il “miglioramento” dell’occupazione rilevato a cosa si riferisce? All’oscillazione di un decimale (in meno o in più) nella stima del tasso di disoccupazione rispetto ai quattro mesi precedenti? Un aumento, per altro, inferiore all’errore ammissibile per le stime calcolate. Oppure ai 61 mila disoccupati stimati in meno rispetto all’agosto del 2016? Il governo, con la voce del ministro Padoan, proclama di aver ottenuto un milione di posti di lavoro in più rispetto a quelli del 2013 e che, per questo, bisogna ringraziare le “meravigliose” soluzioni trovate dal governo Renzi e dalla sua fotocopia Gentiloni. Sarà anche vero, ma si dovrebbero leggere i numeri e fare, almeno, alcune considerazioni prima di osannare lo “strepitoso” successo del “jobs act”.

L’andamento dei principali dati relativi all’occupazione e alla disoccupazione in Italia stimati ad agosto degli ultimi dieci anni sono riportati in tabella.

F.lavoro Occup. Indet. Termine 15-24 25-34 35-49 50-64 >64 Disocc
2008 24.771 23.093 15.030 2.276 1.445 5.490 10.606 5.190 392 1.678
2009 24.597 22.674 14.869 2.118 1.289 5.179 10.504 5.334 368 1.915
2010 24.405 22.438 14.627 2.103 1.188 4.804 10.549 5.537 361 1.967
2011 24.659 22.612 14.710 2.291 1.129 4.745 10.597 5.762 379 2.046
2012 25.224 22.537 14.611 2.334 1.112 4.491 10.484 6.035 416 2.686
2013 25.280 22.181 14.485 2.183 969 4.148 10.292 6.338 435 3.099
2014 25.410 22.259 14.518 2.269 921 4.110 10.091 6.662 475 3.151
2015 25.526 22.579 14.645 2.438 939 4.100 10.080 6.971 489 2.947
2016 25.713 22.749 14.921 2.450 973 4.041 9.924 7.283 528 2.964
2017 26.027 23.124 14.988 2.800 1.029 4.125 9.777 7.562 604 2.903

Raffrontiamo i dati dell’agosto 2017 con quelli dello stesso mese del 2013. Gli occupati (la stima ISTAT considera occupato chiunque abbia lavorato almeno un’ora nella settimana presa a riferimento) sono cresciuti di 943mila unità mentre i disoccupati sono calati di 196mila unità. Un risultato positivo, certamente, ma si leggano anche gli altri dati per capire dove si concentra l’aumento dell’occupazione. Se si considerano i lavoratori dipendenti (tra l’agosto del 2013 e del 2017), l’aumento degli occupati con contratto a tempo indeterminato è di 503mila unità mentre sono 617mila in più quelli che hanno un contratto a termine. Se si considerano i dati degli anni relativi all’esistenza del “jobs act” (i contratti a tutela crescente sono in vigore dal 2015) l’aumento degli occupati a tempo indeterminato si riduce a 343mila unità e di quelli con contratto a termine a 362mila unità. È evidente come abbiano influito molto di più le decontribuzioni precedenti rispetto alle nuove regole imposte dal “jobs act” (abolizione di fatto dell’articolo 18 e contratto a tutele crescenti). Infatti, nell’ultimo anno, i dipendenti con contratto a tempo indeterminato sono aumentati di 67mila unità, mentre per quelli con contratto a termine l’aumento è di 350mila unità. Il risultato del “meraviglioso jobs act” non è altro che un aumento della precarietà. Qualcosa di assolutamente prevedibile ma, anche, l’esatto contrario degli obiettivi che il governo Renzi e il suo clone Gentiloni sbandieravano e confermano come successo delle loro scelte.

Se si comparano i dati (agosto 2013 e agosto 2017) per fasce d’età si rileva che gli occupati (ISTAT fornisce la stima totale dei dipendenti e degli indipendenti) sono 60mila in più per i giovani tra i 15 e i 24 anni, 23mila in meno per un’età compresa tra i 25 e i 34 anni, 515mila in meno nella fascia d’età tra i 35 e i 49 anni, 1milione 224mila in più per chi ha tra i 50 e i 64 anni e 169mila in più tra gli ultra sessantaquatrenni. Lavoratrici e lavoratori sempre più anziani possono garantire un futuro e una speranza al paese? Il dubbio è d’obbligo.

Se si leggono i dati degli ultimi dieci anni, da quando, cioè, si sono susseguiti governi liberisti di destra (Berlusconi), “tecnici” (Monti) e a guida PD (Letta, renzi, Gentiloni), un partito che è non solo azzardato ma sbagliato e dannoso definire di “sinistra” che ha usufruito dell’alleanza e dell’appoggio di formazioni chiaramente di destra (da Alfano a Verdini), e da quando i comunisti non sono più in Parlamento, la situazione è decisamente imbarazzante.

La forza lavoro dall’agosto del 2008 all’agosto del 2017 è cresciuta di 1milione 256mila unità. Gli occupati totali sono 31mila in più. I dipendenti con contratto a tempo indeterminato sono calati di 42mila unità, quelli a termine sono 526mila in più. I disoccupati sono 1milione 226mila in più.

Tutte i dati forniti dall’ISTAT sono stime, certamente, ma le differenze che si possono calcolare in questi dieci anni di assenza di opposizione reale alle politiche liberiste sono immensamente più importanti rispetto ai decimi di percentuale che fanno gridare al miracolo gli attuali governanti.

La situazione reale è aggravata, poi, dal fatto che la precarietà crescente comporta anche un problema dovuto alle retribuzioni sempre più insufficienti per chi vive del proprio lavoro. I giovani soprattutto (ma non solo loro) sono costretti ad aprire partita iva per “fare esperienza” (cioè per poter lavorare). Così, anche attraverso queste forme di moderno sfruttamento, sono diventate abituali retribuzioni mensili di poche centinaia di euro (il che significa paghe orarie onnicompresive che oscillano tra i 2 e i 4 euro) e condizioni di assenza totale di qualsiasi tutela per le lavoratrici e i lavoratori.

Senza contare le delocalizzazioni e gli “esuberi” che gettano nel lastrico migliaia di famiglie e ne tengono altre migliaia sotto ricatto occupazionale. Si riportano due esempi di situazioni che spiegano molto bene lo scenario attuale e che si prospetta per il futuro. A Vicenza viene chiusa la produzione nella storica Lovato Gas (oggi di proprietà della Landi Renzo Group spa) con la perdista di lavoro da parte di 110 lavoratrii e lavoratori (90 dipendenti e 20 interinali). La Lovato Gas, non è in crisi e produce utili ma la chiusura è stata decisa per delocalizzare la produzione in paesi (Polonia, India, Iran) dove il lavoro costa meno e i lavoratori possono essere maggiormente sfruttati. All’ILVA di Taranto, la nuova proprietà (Arm InvestCo la “cordata” che comprende Arcelor Mittal e gruppo Marcegaglia) annuncia oltre 4.000 “esuberi”. I restanti 10.000 lavoratori (circa) verranno “riassunti” utilizzando il “jobs act” e, quindi, potranno essere licenziati seguendo le sue nuove e permissive (per i padroni) regole da esso stabilite. Il commento del viceministro dello Sviluppo Teresa Bellanova  “nessuno resterà senza tutele” sembra una battuta del teatro dell’assurdo, una presa in giro per chi perderà il lavoro e per chi continuerà a lavorare sotto ricatto occupazionale, con la prospettiva della precarietà stabilita dalle norme del “jobs act”.

Dal fronte della sicurezza nel lavoro provengono notizie drammatiche. Dall’inizio del 2017 al 7 ottobre, i morti per infortunio nei luoghi di lavoro sono 519 (certificati dall’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro) e sono stimati in oltre 1.070 considerando anche i decessi sulle strade e in itinere.

Questa è la reale situazione di chi vive del proprio lavoro.

Disoccupazione stabilizzata su livelli elevatissimi, occupazione a livelli di dieci anni fa solo grazie alla proliferazione dei contratti a termine e all’aumento della precarietà.

Retribuzioni che raggiungono livelli di pura sussistenza (per essere ottimisti).

Una mancanza di coscienza e solidarietà di classe che permette e favorisce qualsiasi ricatto padronale.

Non c’è niente di strano, è soltanto il trionfo del modello capitalista che fa del privilegio e del profitto personale l’unico obiettivo da raggiungere. Un sistema brutale e spaventoso che non può essere “corretto” o “aggiustato” ma deve essere abbattuto per costruire un nuovo modello di sviluppo, una società di liberi e uguali. Un mondo nuovo dove lo sfruttamento delle persone non sia la maniera di fare profitto ma un crimine, un cancro da debellare.

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