di Giusi Greta Di Cristina, CC, Dipartimento Esteri – Responsabile Nazionale per i rapporti con l’America Latina
È l’alba del 28 giugno del 2009. Un gruppo di militari si reca nell’abitazione privata di Manuel Zelaya: gli ordina di prendere le sue cose e lo porta via con la forza. Da qui lo porta alla base aerea Hernán Acosta Mejía, dove viene picchiato dai militari. Nel giro di poche ore, l’ormai ex presidente è già in Costa Rica.
Nelle medesime ore, il Congresso Nazionale dell’Honduras legge una presunta lettera scritta da Zelaya, con la data di tre giorni prima, in cui il presidente rinunciava al suo incarico. Viene, farsescamente, votata la destituzione, che trova il Congresso unanime. Al posto di Zelaya viene designato Roberto Micheletti, presidente del Congresso, che avrebbe dovuto sostituire l’ex presidente fino alla fine del mandato.
Dal Costa Rica, Zelaya denuncia di non aver scritto nessuna lettera e di essere stato vittima di un vero e proprio golpe.
Cosa aveva fatto, Manuel Zelaya, per meritare simile trattamento?
Il governo di Zelaya era inizialmente un governo liberale. Ma già dal primo anno, nel 2006, il presidente honduregno ha iniziato ad avvicinarsi all’esperienza bolivariana del Venezuela di Hugo Chávez. Due anni dopo Zelaya dichiara la virata di sinistra e socialista del suo governo. Poco dopo il Paese entra nel Petrocaribe e nell’ALBA.
Ma il motivo che scatena il colpo di Stato è la decisione di Zelaya di promuovere un referendum per chiedere al popolo la convocazione di un’Assemblea Nazionale Costituente, atta a rivedere la Costituzione del 1981. La reazione dell’establishment liberale non si fa attendere: dal Tribunale Supremo Elettorale alla Corte Suprema di Giustizia, dal Congresso della Repubblica sino allo stesso Partito Liberale, tutte le forze si esprimono contro la consulta, definendola illegale.
Si paventa immediatamente la possibile longa manus di Washington dietro al golpe, d’altronde pratica non nuova utilizzata in America Latina qualora i governi si spostino troppo a sinistra. Gli Stati Uniti, dal canto loro, si sono sempre dichiarati estranei e preoccupati per la situazione, e allo stesso modo anche l’OEA e gli altri organismi internazionali. Fatto sta che solo le Nazioni Unite chiedono l’annullamento dell’estradizione per Zelaya, che era stato accusato di crimini terribili. E fatto sta che fin quando non vi furono le elezioni, nel 2010, con la vittoria di Porfirio Lobo (del Partido Nacional) a Manuel Zelaya non fu concesso il ritorno in Patria, reso possibile tra l’altro solo grazie alla costante pressione del comandante Hugo Chávez.
Dopo anni di vittoria delle destre, una settimana fa hanno vinto i socialdemocratici. Diciamolo chiaro: hanno vinto i socialdemocratici, con ben il 57% delle preferenze. Ma ad un certo punto il Tribunale Supremo Elettorale dice che i voti si devono ricontare, che si dovrà aspettare qualche giorno, quattro di preciso. Si comincia a parlare chiaramente di brogli, ma non da parte dei vincitori ma degli sconfitti. La gente scende in piazza, cominciano gli scontri. E i primi feriti. E i primi morti.
La prima vittima degli scontri è una ragazza di soli 19 anni. I genitori intervistati non si piegano: “ Vogliamo la verità su queste elezioni”. Il coraggio e la dignità di chi non è più disposto a cedere un solo centimetro della propria libertà di decisione.
Salvador Nasralla, del partito vincitore Alianza de Oposición (di cui anche Manuel Zelaya fa parte), chiede chiarimenti al TSE dato che, ogni ora che passa, quello schiacciante distacco iniziale diminuisce sino a far presto presagire che il risultato si ribalterà.
Dinnanzi alla folla – che in questi giorni è andata sempre più ad aumentare – il governo ordina il coprifuoco: nessuno deve stare per le strade, nessuna bandiera rossa in giro. Ma questa decisione produce l’effetto esattamente opposto e sempre più numerosi si fanno gli scontri.
Alianza de Oposición aveva chiesto al TSE che venissero rivisti oltre 5000 atti di voto, ma il TSE ne rivede solo 1000.
Alla fine, dopo una lunga e sanguinosa settimana di attesa, ieri finalmente il risultato arriva, ma come previsto è ribaltato: secondo quanto dichiarato da David Matamoros, presidente del TSE, il vincitore delle elezioni è Juan Orlando Hernández, del Partido Nacional, con il 42,98% dei voti, contro il 41,39% di Salvador Nasralla.
Ma la situazione si è addirittura incendiata: il popolo grida alla frode elettorale, interi gruppi della polizia di Stato si sono uniti alla folla, rifiutandosi di sparare contro il proprio popolo. Per convincere la polizia a “fare il proprio dovere” il governo ha promesso, qualche ora fa, aumenti in busta paga: la polizia ha risposto proclamando lo sciopero e il rifiuto a sparare sul popolo.
Quel che più ci ha colpiti, in questi lunghi giorni di attesa, in cui seguivamo in diretta le notizie, allibiti per uno smacco così audacemente e vergognosamente messo in atto, è stato il silenzio del mondo attorno all’Honduras. A parte, come è ovvio, la denuncia dei Paesi latinoamericani dell’ALBA, non abbiamo sentito una sola parola di sdegno, una sola parola di denuncia da chi da mesi, per esempio, si riempie la bocca e utilizza i propri mezzi politici per una battaglia ingerentista nei confronti del Venezuela. Neppure l’OEA, così prodiga nel chiedere a tutto il mondo sanzioni contro il Venezuela, pare essersi accorta di nulla: solo ieri, dopo l’annuncio della destra vincitrice, ha timidamente chiesto al TSE il conteggio delle 5000 schede, come aveva chiesto Alianza de Oposición.
Non abbiamo sentito nessuno, da Trump a Rajoy, dalla Merkel a Gentiloni, muovere una critica, una denuncia per quel che stava e sta ancora accadendo in Honduras. Non abbiamo saputo di alcuna “azione punitiva” da parte dell’UE contro il governo honduregno, come da anni subisce Cuba, da mesi il Venezuela, e che si vorrebbe anche per la Corea del Nord. Solo oggi qualcuno ha avanzato l’ipotesi di ottenere dei chiarimenti dal governo honduregno.
Nulla, il vuoto più assoluto. Un vuoto che è assieme politico e finanziario, perché pare persino superfluo precisare che si sta tentando in tutti i modi che il blocco progressista in America Latina riprenda forza, specie dopo i risultati delle elezioni appena prossime (quelle del ballottaggio in Cile del 15 dicembre) e soprattutto quelle del prossimo anno (Venezuela, Bolivia, Brasile).
Non una parola neppure da parte dei socialdemocratici di casa nostra, attenti sempre a non pestare i piedi a mamma USA.
Nessuno che abbia chiamato col suo nome, ovvero golpe, quanto è accaduto. Ci sarebbe da aspettarsi, in casi come questo, che la comunità internazionale non riconosca il nuovo presidente, ma tutto scoppierà come una bollicina, basterà effettuare le prime visite ufficiali a Washington e a Bruxelles e garantirsi l’amicizia dell’establishment finanziario, ça va sans dire.
Ecco che, dunque, è un’urgenza delle comuniste e dei comunisti, nel marco della nostra coscienza internazionalista e antimperialista, gridare più forte che si può dinnanzi all’ennesima ingerenza, all’ennesima prova di forza, all’ennesima violazione della capacità di autodeterminazione dei popoli.
In queste ore, il popolo honduregno ci sta dando delle grandissime lezioni di civiltà, di libertà, di dignità politica. Noi diciamo, con tutta la nostra rabbia e tutta la nostra consapevolezza, che solo la lotta contro l’imperialismo può liberarci dalle catene. Che avranno forse cambiato forma o colore, ma continuano ad arrestare il nostro cammino verso l’indipendenza e il miglioramento della vita degli esseri umani tutti.
Viva il popolo d’Honduras!
Viva l’America Latina!