Nella stagione dell’individualismo imperante sono poche le pratiche in sofferenza, e divenute sostanzialmente sconosciute nei suoi significati operativi, come quella della disciplina di Partito.
Eppure essa viene ancora ampiamente esibita particolarmente da singoli o da insiemi politici che si richiamano ad una cultura come quella comunista.
E’ opportuno ricordare che questa cultura individua la pratica collettiva come strumento principe per la risoluzione dei problemi sia sociali che individuali, partendo dalla constatazione ovvia che la forza dei potentati economici possa essere contrastata solo da una solida e disciplinata organizzazione di lavoratori.
Solida e disciplinata almeno quanto solido e tentacolare è l’apparato capitalistico con cui vuole misurarsi.
E’ in questo contesto di necessità oggettiva che nasce la forma partito moderna nella sua rappresentazione più evoluta, come luogo in cui si sviluppa la dialettica interna ad una parte sociale, la classe operaia, che non ha altri strumenti per farsi valere.
Il Partito gramsciano, quello della guerra di posizione, era divenuto il simbolo rispettato e temuto di un’autonomia progettuale e di sistema in grado di sostanziare non solo la forza di una classe ma anche la compiutezza di una democrazia in quanto unico reale contrappeso ai poteri forti, perché senza contrappesi nessuna democrazia è data, quali siano le regole costituzionali.
Inutile dire che il Partito, come qualsiasi altro umano istituto, è soggetto a degenerazioni ma, per chi sta scrivendo queste righe, rimane il più alto esempio di costruzione sociale e politica.
Agire sulla base di una linea politica autonoma, elaborata e vissuta in una costante dialettica interna, col fine di incidere al meglio nella società e per la società partendo non dalle disponibilità economiche del mercato ma dalla scelta collettiva di stare uniti e dare peso a chi non potrebbe mai averne altrimenti, non fu un’intuizione ma un processo che richiese decenni di instancabili dedizioni e verifiche.
L’irrinunciabile autorevolezza dei gruppi dirigenti non avrebbe mai potuto darsi senza quella esibizione di compattezza che, in apparenza, consentiva loro qualsiasi scelta senza apparente turbamento alcuno della base.
La disciplina dunque, non per attribuire autorevolezza ai propri dirigenti ma per attribuirla a sé.
La fallibilità o meno dei dirigenti in realtà non è mai stata un dogma, il dogma era piuttosto l’infallibilità della dialettica interna che avrebbe consentito di trovare, nel tempo, la strada giusta nella complessità delle situazioni e degli errori commessi.
Oggi che tutto pare cambiato, nello sfilacciamento delle organizzazioni che non siano padronali, misuriamo l’abisso che ci separa da quelle pratiche. L’individuo, divenuto paradigma di tutto ciò che sembra avere un senso, nelle organizzazioni politiche appare in tutta la sua fragilità , incapace di raccordarsi con altri per più di poche ore, rendendo perennemente labili le proprie appartenenze sino a riprodurre l’inutile frammentazione di oggi..
Ogni elemento non condiviso di un programma, non importa quanto limitato, viene drammaticamente assunto come finale, degno di essere sottolineato con feroci accuse e abiure.
Tornano alla mente i due anni forse più difficili per un militante comunista, quelli dal ’37 al ’39, gli anni che andarono dalla firma del patto Ribbentrop – Molotov all’inizio della seconda guerra mondiale. I comunisti che avevano guidato sino a quel momento l’opposizione al nazismo erano scesi a patti con Hitler! Quei militanti cosa hanno pensato e cosa avrebbero dovuto dire quando si sparse la notizia?
Pochissimi capirono, molti non capirono subito ma solo dopo di cosa si trattava, quasi tutti tennero duro e furono i protagonisti di una vittoria epocale.
Certo tutto è cambiato, si sta ricominciando da capo in un contesto in cui le prospettive sono incerte se non invisibili, mentre la sovraesposizione singola del militante alle intemperie della cultura del politicamente corretto ne misura ora per ora la capacità di tenuta.
Eppure è proprio questa difficoltà quasi insormontabile e disperante a dirci che proprio questa è l’opera che manca e che vale la pena di essere tentata, che proprio il Partito tanto inviso a benpensanti e anarchisti gran borghesi è l’elemento mancante dell’equazione che tenta di comporre gli interessi di classe con le condizioni reali dei lavoratori.
La disciplina di cui si parla non è tale perché tende ad escludere dubbi e divergenze ma perché le dà per scontate e tende a comporle in una dialettica costante in cui le verifiche, queste sì, devono essere ferocemente condotte nell’interesse primo della tutela dello strumento. E il tempo per poter valutare tutti gli elementi assunti diviene dimensione fondamentale nella concezione gramsciana della politica militante. Non importa, o poco importa, quanto sia buono quello che pensi o quello che fai, importa per quanto tempo sei in grado di farlo.
Ottimo