Classe, popolo, partito: una dialettica antica sempre feconda

di Alexander Höbel, Segreteria nazionale PCI

  1. In vista del 97° anniversario della nascita del Pcd’I, può essere utile tornare a riflettere sulla questione del rapporto tra classe, popolo e partito. Si tratta di un tema “classico” nell’elaborazione e nella storia del movimento comunista. Si tratta di una questione che impegna i comunisti fin dal sorgere del loro movimento; riguarda cioè i fondamenti stessi del loro agire politico. Nel Manifesto del Partito comunista (traduzione di Palmiro Togliatti), Marx ed Engels scrivevano:

Che relazione passa tra i comunisti e i proletari in generale? I comunisti non costituiscono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai. Essi non hanno interessi distinti dagli interessi del proletariato nel suo insieme. Non erigono principi particolari, sui quali vogliano modellare il movimento proletario. I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che […] rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo[1].

Dunque i comunisti, nel momento stesso in cui danno vita al loro partito, non si definiscono in primo luogo segnando una distinzione, o addirittura una separatezza, dal resto delle forze proletarie, ma al contrario si caratterizzano innanzitutto per la loro profonda internità al movimento proletario; ciò che li distingue da altre forze di classe è (o meglio, dovrebbe essere) la loro consapevolezza teorica e il rappresentare sempre “l’interesse del movimento complessivo”, le sue finalità storiche, al di là di particolarismi, corporativismi e localismi. Intanto però essi condividono l’obiettivo primario comune anche alle altre forze proletarie, la “formazione del proletariato in classe”[2].

La classe proletaria, infatti, non è data come un apriori già presente: essa, ci dicono Marx ed Engels, pur esistendo “in sé”, oggettivamente, deve raggiungere l’esistenza “per sé”, la consapevolezza di ciò che è e dei suoi fini, e ciò può accadere solo nel quadro di una più ampia dinamica sociale e politica di cui i comunisti devono essere parte integrante. Oggi siamo in una fase simile: mentre la classe operaia fordista aveva acquisito nel corso del Novecento una spiccata coscienza di sé e corrispondenti livelli organizzativi, il proletariato contemporaneo è frammentato, privo di coscienza e di identità: un deficit che si può recuperare solo riconnettendo la ripresa della resistenza e della mobilitazione di massa sul piano sociale col terreno dell’organizzazione, della rappresentanza e di una radicale alternativa di sistema, ossia con la politica. A tale riconnessione i comunisti sono chiamati a contribuire, si può dire anzi che questo sia uno dei loro compiti prioritari.

Finora abbiamo parlato del proletariato. Ma che cosa c’entra, ci si potrebbe chiedere, il popolo? Lo chiariva già Lenin nel Che fare?, il volumetto da lui dedicato proprio alla concezione del partito che avrebbe caratterizzato i bolscevichi, allora ancora all’interno del Partito operaio socialdemocratico russo.

Per la classe operaia – scrive Lenin – la conoscenza di se stessa è indissolubilmente legata alla conoscenza reciproca di tutte le classi della società contemporanea, e conoscenza non solo teorica […] quanto ottenuta attraverso l’esperienza della vita politica. […]

Per dare agli operai cognizioni politiche, i socialdemocratici devono andare fra tutte le classi della popolazione, devono inviare in tutte le direzioni i distaccamenti del loro esercito.

[…] L’ideale del socialdemocratico […] deve essere […] il tribuno popolare, il quale sa reagire contro ogni manifestazione di arbitrio e di oppressione […] sa generalizzare questi fatti e trarne il quadro completo […]; sa, infine, approfittare di ogni minima occasione per esporre dinanzi a tutti le proprie convinzioni socialiste e le proprie rivendicazioni democratiche, per spiegare a tutti l’importanza storica mondiale della lotta emancipatrice del proletariato[3].

È in questo modo che si costruisce e si rafforza il partito. Infatti – conclude Lenin –solo il partito che organizzerà veramente delle denunce che interessino tutto il popolo potrà diventare l’avanguardia delle forze rivoluzionarie. E queste parole: “tutto il popolo” hanno un significato molto vasto[4].

Nessun distacco, dunque, nessuna separatezza o estraneità rispetto alle lotte popolari, alle battaglie democratiche, deve caratterizzare per il leader bolscevico l’azione politica delle forze più conseguenti del movimento operaio; sarà questa l’impostazione fatta propria dal Partito bolscevico e il fattore decisivo di quella grande operazione egemonica che culminerà nell’ottobre 1917.

  1. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, nei primi anni di vita dell’Internazionale comunista, Lenin si batté per far superare ai comunisti occidentali l’idea di partiti chiusi in sé stessi, in qualche caso vere e proprie sette, ponendo invece l’obiettivo della conquista della maggioranza del proletariato, anche attraverso la politica del fronte unico, soprattutto in fasi non più rivoluzionarie come quella che si apriva negli anni Venti. Il Partito comunista d’Italia, allora diretto da Amadeo Bordiga, non recepì per tempo queste indicazioni: esemplare la vicenda degli Arditi del popolo, organismi proletari unitari che cercavano di resistere anche con le armi allo squadrismo fascista, cui il Pcd’I bordighiano decise di non partecipare, privilegiando le squadre di difesa del Partito, contribuendo così alla debolezza e all’impotenza degli uni e delle altre[5].

Questa concezione basata su un’idea astratta di “purezza” dei comunisti, che impediva loro di convergere con altre forze, rispondeva a un’idea di costruzione del partito quasi in vitro, in laboratorio, anziché nel vivo delle lotte proletarie e popolari, spesso spontanee e unitarie: una concezione che il nuovo gruppo dirigente che faceva perno su Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti superò con decisione, ponendo le basi per le successive evoluzioni del Pcd’I. Lo stesso rovesciamento del fascismo iniziò quindi a essere affidato non più a una rivoluzione immediatamente proletaria e socialista, ma a “una rivoluzione popolare degli operai e dei contadini alleati ad alcuni strati delle classi medie”, come recitava la risoluzione del Comintern sulla situazione italiana del gennaio 1927[6]. La rivoluzione italiana sarebbe stata dunque in prima battuta una rivoluzione antifascista, popolare, volta alla istituzione di un regime democratico avanzato: quella “democrazia di tipo nuovo” di cui Togliatti parlerà a metà degli anni Trenta, riferendosi alla Spagna repubblicana nel pieno della stagione dei Fronti popolari; un modello che si svilupperà in quella “democrazia progressiva” posta da Ercoli come obiettivo della lotta di liberazione nel 1943-44, in piena sintonia con Luigi Longo, Pietro Secchia ed Eugenio Curiel, alla testa della lotta partigiana – un’altra esperienza fondamentale in cui i comunisti seppero svolgere un ruolo unitario e di avanguardia.

Nel discorso dell’aprile 1944 ai quadri dell’organizzazione comunista napoletana, quello della “svolta di Salerno”, Togliatti collegava tale prospettiva ai caratteri del “partito nuovo”, il partito comunista di massa e di quadri che lanciava in quella occasione:

Noi siamo il partito della classe operaia – affermava – e non rinneghiamo, non rinnegheremo mai, questa nostra qualità. Ma la classe operaia non è stata mai estranea agli interessi della nazione. […] Noi rivendichiamo queste tradizioni della classe operaia italiana. Noi rivendichiamo le tradizioni del socialismo italiano, di questo grande movimento di masse operaie e di popolo, che irrompendo sulla scena politica, reclamando il riconoscimento degli interessi e dei diritti dei lavoratori, chiedendo che fosse assicurato al popolo il posto che gli spetta nella direzione del paese, ha adempiuto una grande funzione nazionale di risanamento, di ravvivamento e rinnovamento di tutta la vita italiana.

Ecco perché – proseguiva –il carattere del nostro partito deve cambiare profondamente da quello che fu nel primo periodo della sua esistenza […]. Non possiamo più essere una piccola, ristretta organizzazione di propagandisti […]. Dobbiamo essere un grande partito, un partito di massa, il quale attinga dalla classe operaia le sue forze decisive, al quale si accostino gli elementi migliori dell’intellettualità di avanguardia, gli elementi migliori delle classi contadine e quindi abbia in sé tutte le forze e tutte le capacità che sono necessarie per dirigere le grandi masse operaie e lavoratrici[7].

E ancora:

Noi dobbiamo essere il partito più vicino al popolo. […] È dovere dei comunisti di essere vicini a tutti gli strati popolari, a tutti coloro che soffrono; agli operai che lavorano o che sono disoccupati, ai giovani, alle donne operaie e di casa, agli intellettuali, ai contadini. Dobbiamo riuscire a comprendere tutte le necessità di questi strati popolari e impegnarci per soddisfarle. […] Noi siamo il partito il quale guarda con maggior fiducia alle nuove generazioni […][8].

È stata questa la grande ispirazione che ha caratterizzato e reso forte il Partito comunista italiano: la capacità di essere sempre presente nella classe e nel popolo, di essere lievito di organismi di massa unitari, di intercettare le spinte nuove provenienti dalla società e dalle giovani generazioni, come accadde nel luglio 1960 e per certi versi anche di fronte ai movimenti del 1968. In quest’ultima occasione fu Luigi Longo, allora segretario generale del Pci, a sostenere in prima persona una linea di apertura verso il movimento. Esso – affermò nelle conclusioni del CC del marzo di quell’anno – matura in una direzione non certo estranea alla nostra lotta ed alla nostra strategia. Matura, è vero, ancora con incertezze, contraddizioni e confusioni […]. Ma è proprio qui che il discorso ci chiama in causa […]. È per questi motivi che io concordo con quei compagni che hanno posto l’accento […] sulla necessità di rimuovere ogni mentalità di routine, ogni tentazione di guardare i fatti attraverso schemi precostituiti. Dobbiamo invece incoraggiare […] un atteggiamento di apertura, di intelligente comprensione del nuovo[9].

Alla dialettica classe-popolo-partito si aggiungeva dunque un altro elemento, quello dei movimenti. Anche in questo caso, la capacità del Pci fu quella di stabilire un dialogo, diversamente da quanto avvenne in Francia, dove tra Pcf e studenti lo scontro fu frontale. Un atteggiamento che produsse risultati nell’immediato, col successo elettorale del maggio 1968, ma anche nei mesi e negli anni successivi, consentendo al Pci di giungere più forte alle sfide degli anni Settanta, allorché Enrico Berlinguer cercò di utilizzare i nuovi rapporti di forza per attuare la “seconda tappa della rivoluzione democratica” apertasi nel 1943-46 e poi bloccata dalla guerra fredda e dalla conventio ad excludendum anticomunista.

Sono questi dunque alcuni degli insegnamenti che ci giungono dalla teoria e della storia del movimento comunista internazionale e in particolare del Partito comunista italiano: insegnamenti di una impostazione unitaria e anti-settaria, sempre volta a “fare politica” e mai mera testimonianza, lavorando per la ricomposizione di classe e l’unità delle classi popolari, rafforzando e facendo crescere in questo lavoro il Partito comunista; insegnamenti tuttora fecondi e validi, dai quali abbiamo ancora tanto da imparare.

[1] K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito comunista, traduzione di P. Togliatti, Editori Riuniti 1962, p. 76.

[2] Ibidem.

[3] Lenin, Che fare?, Editori Riuniti 1970, pp. 106, 116-117.

[4] Ivi, p. 126.

[5] P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. I, Da Bordiga a Gramsci, Einaudi 1967, cap. IX.

[6] A. Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, vol. II, 1924-1928, Editori Riuniti 1974, tomo 2, pp. 707-710.

[7] P. Togliatti, La politica di unità nazionale dei comunisti, 11 aprile 1944, in Id., Opere, vol. V, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti 1984, pp. 14, 17.

[8] Ivi, pp. 34-35.

[9] “l’Unità”, 29 marzo 1968.

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