Riprendiamo da Fuoripagina.it e pubblichiamo questa interessante intervista del Compagno Vindice Lecis a Sergio Flamigni sull’assassinio Moro.
La verità avanza troppo lentamente nelle nebbie delle complicità e delle connivenze internazionali, indicibili ma ormai facilmente intuibili, che hanno impedito che si facesse piena luce sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. La vulgata ufficiale, la pax tra brigatisti e lo stato basato sul famoso memoriale Morucci benedetto dalla Dc, è sempre meno credibile. Il protagonista instancabile della ricerca della verità è Sergio Flamigni, classe 1925 (iscritto al Pci clandestino nel 1941 e capo di stato maggiore della 29esima brigata Gap “Gastone Sozzi”) parlamentare comunista dal 1968 al 1987, e componente delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul Caso Moro, Antimafia e sulla loggia P2. E’ autore di numerosi e approfonditi saggi sul caso Moro e sull’eversione. Ecco che cosa ci dice oggi, a quarant’anni da via Fani.
La verità dopo 40 anni è davvero ancora lontana?
“La verità che conosciamo è solo parziale. C’è chi non vuole che si conosca. Soprattutto da parte di chi ha avuto la gestione degli apparati di sicurezza e ha sostenuto le tesi di comodo per nascondere come si sono svolti i fatti e quali siano stati i reali protagonisti”.
Il nodo è sempre il memoriale Morucci base di quello che lei chiama il patto di omertà. Tra chi?
Tra pezzi dello Stato e terroristi. Nel mio libro del 2014 ponevo una serie di interrogativi relativi ai buchi neri del caso Moro. Domande per fare chiarezza rispetto alle tante contraddizioni e omertà, appunto, domande che, in gran parte, attendono ancora risposte, come questa: di quale apparato fu la regia dell’operazione congiunta del 18 aprile 1978, quella del comunicato falso del lago della Duchessa e della “scoperta” del covo di via Gradoli?
La commissione presieduta dal senatore Fioroni però questa volta scioglie qualche nodo.
“Scopre alcuni fatti che la inducono a non dare credito alle verità di comodo che i brigatisti e gli apparati ci hanno sempre raccontato e continuano a raccontarci. Verità di comodo per nascondere, appunto, un patto di omertà che affonda le radici nella situazione italiana ma in un contesto internazionale”.
La commissione Fioroni circoscrive il memoriale Morucci nel perimetro delle cosiddette verità dicibili.
“Ci sono quindi anche le verità indicibili: quelle coperte dal segreto, riguardanti complicità dei servizi segreti diretti da uomini della P2, oppure relative ai collegamenti internazionali e ingerenze straniere che ebbero parte nella vicenda Moro. Le verità dicibili, di cui i cittadini dovrebbero accontentarsi, sono le verità di comodo, del memoriale Morucci e Faranda. Quel memoriale, sollecitato dal capo del Sisde, il servizio segreto del ministero dell’interno, redatto dal giornalista Cavedon, consegnato da suor Tersilla Barillà al presidente della Repubblica Cossiga il 13 marzo del 1990, venne da lui trasmesso al ministro dell’Interno Gava tramite il prefetto Mosino solo il 26 aprile dello stesso anno. Che a sua volta lo fece pervenire finalmente alla Procura della Repubblica. Fu il capo della polizia, il prefetto Parisi, a consegnarlo ai magistrati, il 9 maggio 1990. Da allora quella è stata considerata la verità”.
Invece di che cosa si tratta?
“Di una sequenza di menzogne, sulle quali si sono attestati brigatisti e una parte di alti funzionari dello Stato in una sorta di accordo del silenzio”.
Per quale motivo?
“Per nascondere complicità interne e internazionali. Ma la Commissione parlamentare sulla morte di Moro che ha lavorato nell’ultima Legislatura, ha accertato l’origine deviante e il contenuto menzoniero del memoriale Morucci, secondo il quale l’operazione Moro sarebbe stata compiuta dalle sole Prigate Rosse. La verità è che la strage di via Fani, il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro costituiscono un’operazione internazionale su cui continua a vigere il segreto di Stato in vari paesi. Viene cioè tenuta ancora nascosta la partecipazione di potenze alleate alla vicenda. Non si tratta infatti di un delitto casalingo, ma tutto il caso Moro è un intrigo internazionale. Non è mai stato individuato il tiratore che in via Fani ha sparato 49 dei 90 colpi sparati dai terroristi”.
La commissione fa comunque un passo in avanti.
“Certo, ma ancora oggi nelle rievocazioni del quarantennale molti ancora prendono per buono e valido quello che raccontano i Br, riassunto nel memoriale Morucci e concordato con i servizi segreti”.
I punti oscuri sono numerosi. Ad esempio la gestione dei 55 giorni.
“Molti dovrebbero ricordare, e anche il Corriere della Sera che sembra non avere troppi dubbi sul memoriale di comodo, che in quei 55 giorni la P2 controllava totalmente i comitati di crisi. Piduisti erano i dirigenti dei servizi segreti, da Santovito a Grassini a Federico Umberto D’Amato, dai generali Giudice e Lo Prete agli ammiragli Torrisi e Geraci, ai prefetti Pelosi e Guccione, che rispondevano a Licio Gelli. E almeno quella cinquantina di uomini che da loro dipendevano e facevano parte degli organi operativi che avrebbero dovuto trovare la prigione di Moro. Costoro non hanno condotto indagini per scoprire la prigione di Moro e, anzi, hanno depistato. Che senso ha oggi consentire ai brigatisti, sui giornali e in televisione, di esporre le loro verità di comodo omettendo invece questioni di grande rilevanza? Con loro prevale una verità concordata con funzionari dei servizi di sicurezza, dirigenti della DC e uomini di governo”.
Che cosa si vuole offuscare?
“Principalmente vengono messi in ombra gli aspetti internazionali del caso Moro, il ruolo degli alleati, il ruolo svolto dall’americano Steve Pieczenik che si è vantato di avere indotto le Br ad uccidere Moro e di essere così riuscito a stabilizzare l’Italia. Moro non era amato e, anzi, veniva contrstato dagli Usa e di conseguenza anche da una parte degli alleati europei che non vedevano di buon occhio la sua politica di apertura ai comunisti”.
Di questo le chiederò più avanti. Torniamo alle prigioni di Moro: qualcuno crede ancora a Via Montalcini?
“La prigione di via Montalcini descritta dai Br era un angusto vano di tre metri di lunghezza e 90 centrimetri di larghezza, dotato di un WC chimico e una bandiera delle Br. Secondo la verità ufficiale in quella prigione Moro, immobilizzato in una brandina, avrebbe scritto le lettere e il memoriale per rispondere all’interrogatorio dei brigatisti. In quel pertugio Moro sarebbe stato costretto per tutti i giorni della prigionia. Dopo l’assassinio, i medici legali e i periti nel procedere alla svestizione, prima dell’autopsia, rinvennero della sabbia nel risvolto dei pantaloni, nei calzini e sotto le scarpe dove vi erano anche residui di bitume, vegetali e filamenti di tessuti, materiali dello stesso tipo erano anche nei pneumatici e nei pianali della Renault. Durante l’ispezione del cadavere il professore Maraccino, coordinatore dei periti, constatò il colore abbronzato delle parti del corpo solitamente esposte alla luce e ciò, aggiunto alla sabbia, gli fece pensare che fosse stato al mare; la muscolatura non era per nulla atrofizzata ma solida. Non erano le condizioni di un corpo che avesse sofferto una restrizione in quel bugigattolo di prigione che la televisione ci ha trasmesso anche in questi giorni, Lo dicevano i tessuti e la muscolatura. Già da allora sarebbe stato utile prendere atto della bugia brigatista sull’unica prigione”.
La commisione rivela che un’altra sede-covo è stata utilizzata: quella di via Massimi, in una palazzina assai sospetta.
“Esattamemte. La commissione ha scoperto via Massimi 91 come prima prigione, dopo via Fani. Solo questo dovrebbe far saltare il memoriale Moruci con il fiorilegio di falsità, sul trasbordo di Moro in Piazza Madonna del Cenacolo e trasporto fino al nuovo trasbordo nel magazzino della Standa e poi destinazione via Montalcini. La Commissione ha invece individuato con certezza l’arrivo di Moro dopo l’agguato nel compiacente garage della palazzina di via Massimi, a otto minuti di macchina da via Fani. Dal garage si può accedere con l’ascensore direttamente nel piano più alto del palazzo come aveva precisato un confidente della Guardia di Finanza”.
Stabile di proprietà dello Ior vaticano…
“Una palazzina di proprietà della banca vaticana, abitato anche da alcuni cardinali e frequentato dall’arcivescovo Marcinkus. Non solo: finalmente si accerta che nello stabile operava la sede di un ufficio di intelligence statunitense che lavorava, in modo coperto, con la Nato. Inoltre viene rivelato che un ufficiale dell’aeronautica e sua moglie entrambi legati all’area di Autonomia e inquilini nella stessa palazzina, hanno ammesso di avere dato ospitalita al brigatista Prospero Gallinari nell’autunno 1978, da settembre fino alla vigilia di Natale. Nella stessa palazzina ha abitato durante il caso Moro una giornalista tedesca, che aveva rapporti con Piperno e Scalzone di Autonomia operaia. In via Massimi dal garage si può salire direttamente in ascensore sino all’attico dove è stato rinvenuto un manufatto che avrebbe potuto fungere da prigione. Quel palazzo dello Ior dipendeva amministrativamente da Mennini, consigliere dell’Istituto, padre di quel don Mennini che avrà un ruolo nel recapito delle lettere di Moro dalla prigionia”.
La commissione infatti racconta che Moro ebbe anche la visita di un prete che lo confessò. Andiamo avanti: dopo via Massimi dove fu portato Moro?
“In una zona del litorale laziale, probabilmente a Palo Laziale, dove oggi vi è un lussuoso albergo “La Vecchia posta”ma all’epoca lo stabile con il parco, oasi, munito di un eliporto, già di proprietà del petroliere americano Paul Getty, era in una fase di stallo e stava per passare di proprietà ad una società svizzera. Il 21 marzo venne segnalata al Sismi la presenza di Moro in quella zona dell’Aurelia. Cossiga allertò i Comsubin, gli incursori della marina militare, ma alle 13 li smobilitò e di questo non fornì spiegazioni plausibili. Quella zona è adiacente al lido di Palidoro, proprio quel tratto di spiaggia e arenile che il professore Lombardi, nelle conclusioni della sua perizia geologica e botanica, da per certo essere il luogo di provenienza della sabbia e altri materiali rinvenuti su alcuni indumenti e sotto le scarpe di Moro e nella Renault che ha trasportato il corpo di Moro in via Caetani. Preciso: Lido di Palidoro e non lido di Ostia dove la Faranda e la Balzarani dicono di essere andate a prendere la sabbia e l’acqua di mare per inscenare un’azione di depistaggio. Indizi seri portano a ritenere che una prigione di Moro possa essere stata allestita nello stabilimento balneare della Guardia di finanza a Fregene.
Ma vorrei concluere ancora sulla prigione di via Massimi…”
La considera una scoperta importante?
“Sì, perchè conferma quanto il caso Moro avesse attori e dimensione internazionali. Solo adesso scopriamo che in quello stabile c’era un ufficio dell’intelligence americana. E si accerta che due appartamenti di un’intero piano erano occupati da monsignor Vagnozzi, il cardinale già nunzio apostolico negli Usa. Secondo un testimone, Moro avrebbe fatto visita al cardinale Vagnozzi in momenti politici delicati. Lo stabile era poi frequentato dallo stesso Marcinkus. E di costui il brigatista Morucci era in possesso del suo recapito telefonico rinvenuto tra le carte sequestrategli in viale Giulio Cesare, unitamente al recapito del padre domenicano Felix Morlion, capo della Pro Deo e del servizio segreto del Vaticano. Nello stesso palazzo abitava un finanziere libico che si occupava anche di traffico d’armi e operava in accordo con i servizi segreti. Un testimone ha dichiarato che il finanziere libico era stato visitato alcune volte da Andreotti.
La sua tesi, e quella di altri autorevoli studiosi, è che con l’omicidio Moro si sia voluto bloccare il dialogo e la successiva collaborazione tra la Dc di Moro e il Pci di Enrico Berlinguer.
“Si questo è stato lo scopo dell’operazione Moro. Moro era stato avvertito già nel settembre 1974 durante il suo viaggio negli Usa accompagnando il Presidente della Repubblica. L’avvertimento era stato minaccioso al punto che ebbe un malore nella Chiesa di san Patrich e decise di disdire alcuni appuntamenti e anticipò il suo rientro in Italia. Nel dicembre prese la guida di un governo Moro – La Malfa che con l’apporto anche del Pci realizzò importanti riforme e giunse alle elezioni politiche del giugno 1976 il cui risultato portò a due vincitori: la Dc che manteneva la maggioranza relativa e il Pci che ebbe la più grande avanzata e senza il suo concorso non era possibile governare il paese. Tra Moro e Berlinguer si inaugurò la nuova fase della politica italiana, quella della solidarietà nazionale, che incontrava sospetti e ostilità degli Stati Uniti e altri alleati: Nel gennaio 1978, quando Moro e Berlinguer si accordarono per un govrrno Dc sostenuto da una nuova maggioranza parlamentare programmatica in cui entrava a fare parte anche il Pci si misero in all’erta le forze gia pronte a strumentalizzare il terrorismo delle Br già infiltrate e da incanalare per l’operazione Moro che doveva realizzare il sequestro Moro per dividere le forze della politica di unità nazionale e uccidere Moro”.