Effetti economici del fascismo

di Lorenzo Battisti

 I duri anni di crisi che stiamo attraversando stanno portando una rinascita dei movimenti di estrema destra in tutti i paesi europei. Questo aumento è dovuto anche ai consensi che questi partiti riescono ad ottenere nei quartieri popolari. Il successo di questi partiti non è solo elettorale o legato esclusivamente al voto di protesta, ma è testimoniato dal diffondersi del sostegno a questa ideologia in vasti strati sociali dei paesi europei: sulle reti sociali si osserva periodicamente il riproporsi diffuso di testi che rivendicano e ricordano i successi del ventennio fascista in Italia, fatto di grandi investimenti e di istituti sociali a favore della popolazione. In sostanza il fascismo viene descritto come un regime bonapartista che, sotto la guida carismatica di Mussolini, ha soggiogato la borghesia italiana, ha contribuito al rilancio e al successo economico del paese e ne ha diffuso i benefici tra tutta la popolazione. Questi risultati vengono ulteriormente esaltati facendo il confronto con gli insuccessi politici ed economici della democrazia repubblicana. Tutto questo è vero? È vero che il fascismo ha migliorato la condizione di tutta la popolazione? I suoi risultati sono stati migliori della democrazia repubblicana?

Il fascismo

 Cerchiamo prima di descrivere quello che fu il fascismo storicamente. Un’approfondita analisi del fascismo fu fatta da Togliatti nel celebre “Corso sugli avversari”, tenuto a Mosca nel 1935: questa analisi copre tutta l’evoluzione del movimento fascista, dalle origini fino alla soglia della Seconda Guerra Mondiale.

Togliatti parte dalla definizione di fascismo data dall’Internazionale Comunista, secondo cui “il fascismo è una dittatura terrorista aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti, più imperialisti del capitale finanziario[i]. Questa dittatura, per Togliatti, è caratterizzata dall’unione di due elementi: la dittatura della borghesia e il movimento delle masse piccolo borghesi.

Da una parte infatti, il fascismo rappresenta per Togliatti il partito della borghesia:

“La borghesia italiana ha nel Partito Fascista un’organizzazione politica di tipo nuovo adatta ad esercitare la dittatura aperta sulle classi lavoratrici. Non solo, ma attraverso tutta una serie di altri organismi e legami, il Partito Fascista diventa l’organizzazione che dà alla borghesia italiana la possibilità di esercitare in ogni momento una pressione armata sulle massi lavoratrici.”[ii]

Dall’altra il fascismo sviluppa questa lotta attraverso la mobilitazione della piccola borghesia:

“Il fascismo non significa soltanto la lotta contro la democrazia borghese; noi non possiamo adoperare questa espressione soltanto quando siamo in presenza di questa lotta. Dobbiamo adoperarla soltanto allorquando la lotta contro la classe operaia si sviluppa su nuova base di massa con carattere piccolo borghese, come vediamo in Germania, in Italia, in Francia, in Inghilterra, ovunque esiste un fascismo tipico.”[iii]

L’ideologia fascista rispecchia la composizione del movimento fascista e serve gli obiettivi che esso si è posto.

“Analizzando questa ideologia, che cosa vi troviamo? Di tutto. É un’ideologia eclettica. […] Essa serve a saldare assieme varie correnti nella lotta per la dittatura sulle masse lavoratrici e per creare a questo scopo un vasto movimento di massa. L’ideologia fascista è uno strumento creato per tenere legati questi elementi. Una parte della ideologia, la parte nazionalista, serve direttamente alla borghesia, l’altra serve come legame. […] Come linea fondamentale rimane: nazionalismo esasperato e analogia con la socialdemocrazia.”[iv]

L’ideologia fascista, oltre ad essere eclettica, è continuamente mutevole, sotto la spinta tanto della lotta di classe, quanto delle contraddizioni che nascono dalla duplice natura del movimento (da una parte gli obiettivi della borghesia monopolista, dall’altra quelli della piccola borghesia). Togliatti infatti osserva che il Partito Fascista muta seguendo i diversi posizionamenti della borghesia:

“Cosa fa in questo periodo il Partito Fascista? Osservate attentamente. Vi vedrete gli stessi spostamenti della borghesia.”[v]

Questi mutamenti si scontrano con i programmi della piccola borghesia, che fornisce il carattere di massa al Partito Fascista e che lotta per diventare essa stessa classe dirigente e dominare quindi tanto sui lavoratori quanto sulla grande borghesia:

“Brevemente sulle crisi del Partito Fascista. Esse hanno specialmente la loro origine nei contrasti in seno alla piccola e la media borghesia italiana, nella resistenza offerta dai quadri della piccola e media borghesia italiana, che erano inquadramenti di massa fascisti all’origine, contro l’instaurazione della dittatura aperta degli strati più reazionari della borghesia.”[vi]

Infine, il terzo elemento che condiziona i mutamenti ideologici fascisti è costituito dall’azione delle masse:

“[che] non bisogna mai considerare il fascismo come qualche cosa di definitivamente caratterizzato, che bisogna considerarlo nel suo sviluppo, mai fisso, mai come uno schema, come modello, ma come conseguenza di una serie di rapporti economici e politici reali, risultanti da fattori reali, dalla situazione economica, dalla lotta delle masse.”[vii]

L’ultimo elemento che resta indissolubilmente legato al fascismo e al suo carattere di classe è l’imperialismo. In un passo di estrema lucidità Togliatti mostra il legame intimo tra imperialismo, crisi economica e fascismo:

“Perché il fascismo, perché la dittatura aperta della borghesia si instaura oggi, proprio in questo periodo? La risposta voi la dovete trovare in Lenin stesso; dovete cercarla nei suoi lavori sull’imperialismo. Non si può sapere ciò che è il fascismo se non si conosce l’imperialismo. […] Sulla loro base [le caratteristiche dell’imperialismo] vi è una tendenza ad una trasformazione reazionaria di tutti gli istituti politici della borghesia. Anche questo voi lo trovate in Lenin. Vi è una tendenza a rendere questi istituti reazionari e questa tendenza si manifesta, nelle forme più conseguenti, nel fascismo. Perché? Perché dati i rapporti tra le classi e data la necessità da parte dei capitalisti di garantire i propri profitti, la borghesia deve trovare delle forme onde fare una forte pressione sui lavoratori. D’altra parte i monopoli, cioè le forze dirigenti della borghesia, si concentrano al massimo grado e le vecchie forme di reggimento diventano degli impedimenti per il loro sviluppo. La borghesia deve rivoltarsi contro quello che essa stessa ha creato, perché ciò che altra volta era stato per lei elemento di sviluppo è diventato oggi un impedimento alla conservazione della società capitalista. Ecco perché la borghesia deve diventare reazionaria e ricorrere al fascismo.”[viii]

Fascismo ed economia 

La nascita e l’affermazione del fascismo sembrano legati alla crisi economica. Ma quali sono stati gli orientamenti economici del fascismo? Che funzione hanno svolto e a favore di chi sono andate?

L’andamento eclettico dell’ideologia fascista, dovuta alle contraddizioni interne ed esterne, ha provocano un andamento altrettanto eclettico per quanto riguarda le posizioni e le decisioni economiche. Si può dividere il ventennio in due parti: la prima che va dalla salita al potere fino alla crisi del ‘29; il secondo che arriva alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il primo periodo è caratterizzato da manovre che oggi definiremmo liberiste, cioè tese a ridurre l’intervento diretto dello Stato in economia e a ridurre la spesa pubblica sociale. Il secondo invece, come conseguenza della crisi e in preparazione delle Guerra, vede un ritorno dell’intervento statale.

È interessante notare come il mito della desta “sociale” sia stato costruito sul ricordo di questa seconda fase, dimenticando la prima. Ma, come vedremo, anche questa seconda fase maggiormente interventista ha favorito le classi abbienti a scapito dei ceti popolari.

Lo stesso Mussolini, nel suo primo discorso alla Camera dei Deputati, indica chiaramente la politica economica del fascismo:

“D’altra parte, per salvare lo Stato, bisogna fare un’operazione chirurgica. Ieri l’onorevole Orano diceva che lo Stato è simile al gigante Briareo, che ha cento braccia. Io credo che bisogna amputarne novantacinque; cioè bisogna ridurre lo Stato alla sua espressione puramente giuridica e politica. Lo Stato ci dia una polizia, che salvi i galantuomini dai furfanti, una giustizia bene organizzata, un esercito pronto per tutte le eventualità, una politica estera intonata alle necessità nazionali. Tutto il resto, e non escludo nemmeno la scuola secondaria, deve rientrare nell’attività privata dell’individuo. Se voi volete salvare lo Stato, dovete abolire lo Stato collettivista, così come c’è stato trasmesso per necessità di cose dalla guerra, e ritornare allo Stato manchesteriano.”[ix]

Coerentemente con quanto dichiarato, il primo governo Mussolini privatizzò il monopolio statale sui fiammiferi, eliminò il monopolio statale sulle assicurazioni sulla vita, privatizzò le reti telefoniche e le società che fornivano il servizio, ri-privatizzò l’Ansaldo, concesse ai privati di incassare il pedaggio sulle autostrade, eliminò la tassa di successione. Su questo primo periodo Togliatti osserva

“I primi atti del fascismo al potere furono dei provvedimenti economici a favore della borghesia. […] Non si fece subito un attacco contro i salari. […] Fu distrutto l’apparato di guerra che legava le mani all’industria, furono distrutte tutte le misure di restrizione prese nel periodo precedente che legavano le mani, dando più ampia libertà al capitale, favorendo l’iniziativa del capitale etc. […] La libertà di sviluppo al capitale rafforza il capitalismo finanziario, rafforza la concentrazione e l’accentramento della produzione, il che porta al prevalere nella dittatura fascista degli strati decisivi del capitale finanziario.”[x]

Nella seconda metà degli anni ‘20 le politiche del fascismo vanno a colpire direttamente i salari: sebbene la crisi economica cominci nel ‘29 negli Stati Uniti per poi propagarsi nel resto del mondo, i primi segni erano già presenti negli anni precedenti.

“Nel ‘26 si pone acutamente il problema della riduzione dei costi di produzione e quindi l’offensiva contro i salari diventa una necessità.”[xi]

Quindi il fascismo attua le prime manovre dirette conto i lavoratori italiani:

“Si inizia l’offensiva contro i lavoratori, l’attacco ai salari, si ha un aumento della disoccupazione, un aumento del costo della vita e particolarmente si inizia in questo momento con maggiore intensità il processo di concentrazione dell’economia, della produzione, e il suo concentramento.”[xii]

La politica economica fascista muta negli anni ‘30, sotto la spinta degli effetti della crisi, che porta al fallimento di tante imprese, e alle conseguenti nuove necessità della borghesia italiana. Una delle conseguenze è l’aumento della disoccupazione e l’impoverimento di masse di lavoratori, una condizione che potrebbe portare all’indebolimento del regime. Per queste ragioni le politiche del fascismo cambiano segno: dal liberismo spinto degli anni ‘20 si passa a un interventismo statale, sia in campo economico che sociale. Questo secondo periodo è spesso fonte del mito sul suo lato sociale, favorevole ai lavoratori e agli strati popolari. La realtà è ben lontana da questa immagine mitologica.

Le due fasi del fascismo infatti non sono contraddittorie, ma rispondo entrambe alla natura di classe che è stata sopra descritta da Togliatti. Il fascismo del primo periodo infatti aveva l’obiettivo di restaurare un’economia pienamente di mercato dopo la fine della guerra, e di rompere le resistenze dei lavoratori per la piena occupazione e per migliori condizioni di vita. Come scrive l’economista Kalecki

“Abbiamo già considerato le ragioni politiche dell’opposizione [dei capitalisti] alla politica di creazione di occupazione tramite la spesa pubblica. Ma anche se tale posizione fosse vinta, cosa che può in realtà verificarsi sotto la pressione delle masse, il mantenimento del pieno impiego porterebbe a trasformazioni politiche e sociali che darebbero nuova forza all’opposizione dei “capitani d’industria”. Infatti, in un regime di continuo pieno impiego il licenziamento cesserebbe di agire come misura disciplinare. La posizione sociale del “principale” sarebbe scossa, si accrescerebbe la sicurezza di sé e la coscienza di classe dei lavoratori. Gli scioperi per un salario più alto e il miglioramento delle condizioni di lavoro sarebbero fonti di tensione politica.[…] L’istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è “sana” dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale. Una delle funzioni importanti del fascismo, come si può vedere nel caso dell’hitlerismo, fu l’eliminazione dei motivi per l’avversione dei capitalisti nei confronti del pieno impiego. L’avversione alle spese pubbliche come tali viene superata dal fascismo col fatto che la macchina statale è sotto il controllo diretto di una associazione del grande capitale col vertice fascista. Il mito della “finanza sana” che era necessario per impedire al governo di agire contro una “crisi di fiducia” tramite la spesa pubblica è ora superfluo. Nello Stato democratico non si sa con sicurezza come sarà il governo seguente, mentre nello Stato fascista non c’è governo seguente. L’avversione nei confronti delle spese statali per gli investimenti pubblici e per sovvenzionare il consumo di massa viene superata dalla concentrazione delle spese statali negli armamenti. Infine, “la disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” con il pieno impiego sono assicurate dal “nuovo ordine”, di cui vengono a far parte vari mezzi: dallo scioglimento dei sindacati ai campi di concentramento. La pressione politica sostituisce qui la pressione economica della disoccupazione.”[xiii]

La crisi economica esacerbò il carattere imperialistico del fascismo, che, insieme al proprio fratello tedesco, pianificò una guerra di conquista quale via d’uscita alla crisi economica. Kalecki continua

“Il fatto che gli armamenti sono il nerbo della politica fascista di pieno impiego ha un’influenza profonda sul carattere economico di questa. Il riarmo su larga scala si accompagna all’espansione delle forze armate e a piani di conquista. In tale maniera lo scopo principale dell’espansione della spesa pubblica si trasferisce gradualmente dal pieno impiego alla realizzazione del massimo effetto di riarmo. Ciò porta alla limitazione del consumo al di sotto del livello che potrebbe venir ottenuto in corrispondenza del pieno impiego. Il sistema fascista inizia col vincere la disoccupazione, si sviluppa in “economia di guerra” che tende inevitabilmente alla guerra.”[xiv]

Le statistiche del ventennio

Le statistiche macroeconomiche come oggi le conosciamo sono nate dopo la Seconda Guerra Mondiale e grazie all’affermazione del pensiero keynesiano. Per questo non esistono serie storiche che confermino o smentiscano le posizioni espresse sul fascismo da Togliatti o da Kalecki. Per sopperire a questa mancanza gli storici e gli economisti hanno lavorato per ricostruire molti dati sociali ed economici, in modo da poter descrivere con buona approssimazione anche il periodo storico precedente al 1945. In particolare farò riferimento al lavoro fatto da Giovanni Vecchi, intitolato “In ricchezza e in povertà”, in cui si presentano le serie storiche italiane dall’Unità d’Italia ai giorni nostri.

Il primo grafico che appare interessante ai nostri fini, è quello sulla ricchezza pro-capite italiana.

La ricchezza prodotta nel periodo fascista non si discosta significativamente da quella prodotta durante il periodo liberale. Questo vale tanto per la prima fase (gli anni ‘20) quanto per la seconda (gli anni ‘30). La scelta di entrare in guerra fatta da Mussolini, lungi dal portare ricchezza al paese, ha prodotto un impoverimento generalizzato, che ha fatto crollare in pochi anni la ricchezza del paese a livelli pre-unitari. Quindi, alla fine del ventennio, la ricchezza del paese era ben inferiore a quella precedente al 1921. Questo disastro economico risulta ancora peggiore se si confronta alla fase repubblicana, dove si osserva una crescita costante del reddito pro-capite quasi ininterrotta, che declina solamente a partire dal 2000 in poi.

Se si osserva la distribuzione del reddito, questa magra crescita risulta essere distribuita in modo assolutamente diseguale. Gli anni dell’Italia liberale sono caratterizzati non solo da una crescita media del Pil pro-capite superiore (indicata dalla linea orizzontale compresa tra il 2% ed il 2,5%), ma anche da una crescita generale dei redditi, che ha penalizzato solamente i redditi bassissimi, che non sono quasi cresciuti (rappresentati dai valori a sinistra). I primi 10 anni di Italia fascista sono caratterizzati da una crescita quasi nulla e da una distribuzione di questa crescita ad esclusivo vantaggio del 50% più ricco di popolazione. L’altra metà non si è solo impoverita in termini relativi, ma in termini assoluti: in questi 10 anni, come si vede, il reddito pro-capite della metà di italiani più povero è diminuita ogni anno; e più i ceti erano poveri e più il loro reddito è diminuito. Poiché la crescita del reddito era quasi nulla, tutto quanto perso dai ceti popolari è andato a vantaggio della parte d’Italia più abbiente. In sostanza il fascismo ha operato come un Robin Hood al contrario, che ha rubato ai poveri per dare ai ricchi[xv]. Questo sembra confermare le analisi sulla natura di classe del fascismo fatte da Togliatti e da Kalecki.

La distribuzione del reddito è stata molto diseguale anche a livello territoriale.

In questo grafico si può osservare l’andamento del Pil per abitante nelle diverse zone d’Italia. Come si vede la distribuzione del reddito va a beneficio del Nord-Ovest industrializzato (ricordando sempre che al contempo va a beneficio dei ceti più ricchi), a scapito del Sud e delle Isole che hanno osservato un impoverimento costante dall’Unità d’Italia fino al 1951 (quando la situazione si inverte grazie agli investimenti pubblici). Anche in questo caso, a fronte di una crescita nulla, quote di ricchezza sono state quindi trasferite dal Sud al Nord. Come prima, il fascismo ha agito al contrario di quando avrebbe dovuto fare, ma soprattutto al contrario di quanto gli viene oggi attribuito: ha deindustrializzato e impoverito il Sud e ha arricchito gli industriali del Nord (impoverendo al contempo gli operai che vi lavoravano). Per dirla con una terminologia contemporanea, ha favorito l’1% a scapito del restante 99%.

Il seguente grafico conferma tutto questo: un aumento della diseguaglianza molto forte tra Nord e Sud e al contempo un aumento della diseguaglianza all’interno delle due aree a favore dei ceti abbienti.

In questo grafico si vede come l’aumento vertiginoso della diseguaglianza generale sia frutto di un altrettanto forte aumento della diseguaglianza fra Nord e Sud (quindi con l’aumento di povertà al Sud in favore di una concentrazione della ricchezza al Nord) e di una concentrazione di ricchezza all’interno delle due aree del paese.

La povertà, altro indicatore che testimonia l’incidenza delle politiche fasciste, è
aumentata ininterrottamente dal 1921 al 1948.

I salari nel Ventennio

È possibile osservare l’effetto delle politiche fasciste osservando l’andamento dei salari. Come si coglie perfettamente dall’analisi di Togliatti, il fascismo è un regime ferocemente di classe, che ha tra i propri obiettivi principali, quello di contenere la dinamica salariale a beneficio del capitale nazionale.

Lo studio della Zamagni sui salari durante il ventennio ci permette di capire quali siano state le dinamiche.

ANNI Salari reali giornalieri in lire del 1938 Indice 1913=100 Variazione % annua Salari reali orari in lire del 1938 Indice 1913=100 Indice Occupazione 1929=100 Ore lavorate
1911 11,30 88 1,13 88 10
1912 12,02 93 6,37 1,20 93 10
1913 12,87 100 7,07 1,29 100 10
1914 14,00 109 8,78 1,40 109 10
1915 14,42 112 3,00 1,44 112 10
1916 12,60 98 -12,63 1,15 89 11
1917 12,07 94 -4,21 1,10 85 11
1918 11,60 90 -3,90 1,05 81 11
1919 15,14 118 30,51 1,89 147 8
1920 16,69 130 10,23 2,09 162 93 8
1921 17,34 135 3,89 2,31 192 81 7,5
1922 16,45 128 -5,14 2,11 160 83 7,8
1923 17,12 133 4,07 2,09 162 84 8,2
1924 17,02 132 -0,59 2,00 155 92 8,5
1925 16,25 126 -4,53 1,91 148 100 8,5
1926 15,84 123 -2,53 1,84 143 102 8,6
1927 16,08 125 1,51 2,09 162 94 7,7
1928 14,93 116 -7,16 2,08 161 98 7,2
1929 14,72 114 -1,41 2,02 157 100 7,3
1930 14,62 114 -0,68 2,09 162 97,8 7
1931 14,74 114 0,82 2,17 168 88,8 6,8
1932 14,80 115 0,40 2,20 170 78,5 6,7
1933 15,76 122 6,48 2,27 176 79,4 7
1934 15,92 123 1,01 2,31 179 82,9 6,9
1935 14,35 111 -9,87 2,26 175 93,9 6,4
1936 13,98 109 -2,58 2,23 173 94,9 6,3
1937 14,81 115 5,93 2,27 176 104,5 6,5
1938 14,28 111 -3,58 2,26 175 110,7 6,3
1939 15,51 121 8,61 2,37 184 114,2 6,6
1940 18,71 145 20,63 2,35 182 8
1941 17,08 133 -8,72 2,13 165 8
1942 15,95 124 -6,62 1,99 154 8
1943 13,91 108 -12,79 1,65 128 8
1944 5,16 40 -62,91 0,64 50 8
1945 8,47 60 64,14 1,06 82 8
1946 11,27 88 33,05 1,41 109 8

Se si osserva il periodo pre-fascista si possono osservare tre movimenti: prima della Prima Guerra Mondiale, quando i salati sono in aumento; durante il periodo bellico questi subiscono una forte diminuzione (da 1,44 lire all’ora a 1,05); durante il biennio rosso ‘19-’21 si osserva un forte aumento. Inoltre dopo la guerra l’orario di lavoro viene ridotto a 8 ore giornaliere. In quest’ultimo periodo i salari raddoppiano in termini orari (da 1,05 a 2,31) e aumentano di circa il 30% a livello giornaliero (da 11,60 a 17,34) in termini reali.

Su questo periodo Zamagni osserva:

“Se si aggiungono agli effetti degli aumentati costi di lavoro e della crisi economica quelli (se non altro paventati) della tassazione dei sovraprofitti di guerra, si hanno eloquenti elementi per valutare quanto apparisse grave la situazione tra il 1920 e il 1922 al mondo imprenditoriale, specialmente a quello dell’industria pesante, che fu infatti il più largo di aiuti a Mussolini.”[xvi]

In seguito alla ristrutturazione dell’industria per la riconversione da bellica a civile, vi fu una crescita economica del paese, del quale però gli operai non beneficiarono. Come si vede dalla tabella, il salario giornaliero diminuisce costantemente dal picco del 1921 fino al 1927. Parallelamente si osserva un aumento del tempo di lavoro[xvii]. A conferma di quanto osservato precedentemente, la prima fase del fascismo fu caratterizzata da un programma economico ultra-liberale, in cui alle privatizzazioni e allo smantellamento del ruolo dello stato in economia, viene redistribuita la ricchezza dagli operai verso gli industriali, con una compressione del salario e con l’aumento del tempo di lavoro. La crescita, grazie alle politiche fasciste, andò ad esclusivo beneficio delle classi possidenti.

Il risultato, in termini salariali fu che

“Mentre gli imprenditori approfittavano dell’inflazione per alleggerire notevolmente i loro costi orari, le buste-paga non ne venivano corrispondentemente decurtate a causa dell’aumentata disponibilità di lavoro.”[xviii]

Dopo l’inflazione post-bellica, con conseguente svalutazione della lira rispetto alle altre valute, il regime decise una rivalutazione della moneta nazionale: in un famoso discorso a Pesaro, Mussolini fissò quota 90 Lire contro una Sterlina come l’obiettivo da raggiungere. L’obiettivo fu raggiunto nel 1927, portando anche l’inflazione sotto controllo[xix]. Senza la variazione in termini nominali dei salari, grazie alla diminuzione dell’inflazione, questi avrebbero potuto aumentare in termini reali. Il regime intervenne quindi in due occasioni tagliando i salari prima del 10% poi del 20%. Zamagni descrive così le scelte politiche di Mussolini:

“La discesa dei prezzi che seguì la rivalutazione della lira presentò al regime ormai consolidato la necessità di intervenire per una decurtazione dei salari monetari, dato che non voleva alienarsi l’appoggio della classe imprenditoriale scaricandole addosso il peso della stabilizzazione monetaria concepita da Mussolini in funzione prevalentemente politica. Nessuno poteva inoltre prevedere allora che tali riduzioni non sarebbero rimaste affatto isolate. Si inaugura così un periodo di sostanziale stagnazione dei salari reali che, sia pur in mezzo ad inevitabili oscillazioni, dura fino al 1939. Tale stagnazione è frutto di una deliberata politica di intervento da parte del regime ogniqualvolta i salari reali mostravano una tendenza ad allontanarsi troppo da un certo livello minimo considerato “acquisito” – di sussistenza – e che si può indicare intorno alle 15 lire del 1938.”

Ulteriori tagli ai salari furono fatti negli anni ‘30. Per tutto il decennio questi stagnarono, sotto l’effetto della crisi economica e delle politiche del regime. Nonostante i provvedimenti sociali (che determinarono però anche un aumento dei contributi) non vi fu un miglioramento nella distribuzione del reddito.

“La disaggregazione dei consumi nelle componenti principali rivela però che il disagio delle classi più povere dovette essere ben maggiore, se già dal 1924 i generi alimentari di origine vegetale iniziarono la loro ripida discesa, fermatasi solo nel 1937; la crisi del 1927 venne registrata anche dai consumi di origine animale e dai grassi, mentre i generi di vestiario declinarono solo dal 1930 in poi (la spesa per l’abitazione, che sale violentemente dal 1926 al 1935, lungi dal rivelare un miglioramento dello standard di vita, è indice del fatto che una certa liberalizzazione dei canoni di affitto, da un lato, e la loro rigidità monetaria, dall’altro, finirono col fare incidere di più questo capitolo di spesa sul bilancio domestico, a parità, o a deterioramento, di prestazioni).”[xx]

I salari si ripresero solo dal 1939 in poi grazie alla preparazione dello sforzo bellico, e con il fine di assicurarsi l’appoggio dei lavoratori alla guerra. Poco dopo furono però decimati dagli effetti della partecipazione alla guerra. Il bilancio del ventennio è racchiuso in un dato: il livello salariale del 1946 era pressapoco uguale a quello del 1911. Vent’anni di fascismo hanno portato i lavoratori indietro di oltre trent’anni.

Zamagni riassume questa tendenza di lungo periodo

“La compressione salariale come condizione della via italiana all’accumulazione venne restaurata con la forza, sì che essa durò praticamente indisturbata per altri 25 anni e richiese poi altri quindici anni per essere gradualmente posta in liquidazione, non senza strascichi di notevole rilevanza.”[xxi]

Conclusioni

Appare chiaro, sia dal punto di vista empirico che da quello di analisi teorica, che non ci sono basi per sostenere che il fascismo abbia lavorato a beneficio del popolo italiano nel suo insieme, o addirittura che abbia attuato politiche in favore delle classi popolari. È invece chiaro che, dietro la retorica nazionalistica, si celavano politiche apertamente di classe, atte a favorire una redistribuzione del reddito e della ricchezza verso l’alto e a ripristinare condizioni economiche che permettessero di riavviare l’accumulazione e permettere di competere con gli altri capitali nazionali. In sostanza, il fascismo, spezzando le organizzazioni dei lavoratori e reprimendo le lotte, ha permesso di ridurre il costo del lavoro fino a livelli di sussistenza, creando così le condizioni migliori per gli imprenditori italiani, dopo l’incubo (per loro) del biennio rosso che seguiva gli echi della Rivoluzione d’Ottobre.

Non sono stati presi in considerazione gli effetti derivanti dalle avventure imperialistiche in Africa, che pure, come sottolineato da Togliatti, rappresentano un tratto caratteristico del fascismo. Ma vista la dinamica generale, appare chiaro che anche queste avventure, sotto la coltre nazionalista, siano servite a creare nuove occasioni di profitto per il capitalismo italiano e a trovare nuova forza lavoro schiavizzata.

È oggi quindi importante sfatare il mito, sempre più diffuso, che un ritorno dell’estrema destra al potere possa essere di beneficio per le classi popolari “autoctone”. Questo non è avvenuto storicamente e non avverrà oggi. I referenti sociali di queste forze sono gli stessi del secolo scorso, e come allora, dietro la retorica del “prima gli italiani”, lavorano sempre per ridurre il costo del lavoro in nome del sacrificio per la patria. Non va ignorato inoltre che la crescita di queste forze è finanziato e aiutato anche in funzione di una prossima avventura bellica verso i paesi che cercano una propria strada di sviluppo alternativa a quella occidentale (Cina e Russia in primis) e che rifiutano lo sfruttamento e i diktat che i nostri paesi impongono loro. Oggi come ieri, il fascismo è sinonimo di guerra imperialistica e di sfruttamento dei lavoratori.

FONTI

Togliatti, P., 2010, Corso sugli avversari. Le lezioni sul fascismo, Einaudi

Mussolini, B., Discorso alla Camera dei Deputati, 21 Giugno 1921

Kalecki, M., Aspetti politici del pieno impiego, https://keynesblog.com/2012/05/01/perche-eliminare-la-disoccupazione-non-conviene-a-tutti/

Vecchi, G., 2011, In ricchezza e in povertà. Storia del benessere degli italiani dall’Unità ad oggi, il Mulino,

Zamagni, V., “La dinamica dei salari nel settore industriale 1921-1939”, Rivista Quaderni Storici (Maggio-Dicembre 1975),  n.29-30

[i]       Togliatti, p.4

[ii]     Togliatti, p.53

[iii]    Togliatti, p.8

[iv]    Togliatti, p.12-3

[v]      Togliatti, p.25

[vi]    Togliatti, p.47

[vii]   Togliatti, p. 35

[viii]  Togliatti, p.6-7

[ix]    Mussolini, B

[x]      Togliatti, p. 29-30-32

[xi]    Togliatti, p.34

[xii]   Togliatti, p.31

[xiii]  Kalecki

[xiv]  Kalecki

[xv]  Gli altri due grafici possono aiutare a caratterizzare altre due epoche della storia economica e politica italiana. Il periodo ‘77-’91, che rappresenta le ultime lotte sociali e gli anni ‘80 del Pentapartito è caratterizzato da un tasso di crescita alto e da una distribuzione in favore dei ceti bassi, che decresce al crescere del reddito. Al contrario, il periodo ‘91-2008, corrispondente alla Seconda Repubblica, con l’alternarsi di centro destra e centro sinistra, vede i redditi bassi decrescere o stagnare, mentre aumentano i redditi altissimi.

[xvi]  Zamagni, p. 534-5

[xvii] “Già nel 1923 Mussolini, pur riaffermando la giornata di 8 ore, introdusse parecchi eccezioni; il 30 Giugno 1926 i datori di lavoro vennero autorizzati a prolungare la giornata di lavoro da 8 a 9 ore (cosa che era già praticamente in vigore in parecchi settori). Gualerni afferma che le ore aggiuntive dovevano essere prestate gratuitamente soltanto in quelle industrie, come le tessili, che dovevano sostenere l’urto della concorrenza straniera.” Zamagni, p. 536

[xviii]        Zamagni, p. 536

[xix]  Della politica deflazionistica del regime beneficiarono principalmente le grandi imprese, mentre furono colpite le imprese di consumo e quelle piccole e medie. Anche in questo caso trovano conferma le osservazioni di Togliatti sulla natura del fascismo.

[xx]    Zamagni, p. 547

[xxi]  Zamagni, p. 535

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