Sul tema dell’unità dei comunisti

di Nuccio Marotta, Segretario della Federazione di Firenze

L’esito del congresso appena concluso va assunto come un passo in avanti del Partito nel suo processo di costruzione. E’ innegabile, in particolar modo se messo a confronto con la drammaticità appena attraversata.

Ribadendo l’autonomia e la priorità di tale processo si è riavviato un percorso che ha ultimamente subito un certo rallentamento per qualche ostacolo evidentemente incontrato.

E’ il frutto di una volontà di sintesi avanzata per la quale possiamo ritenerci soddisfatti.

Rimangono nondimeno aperti alla riflessione, come è giusto e bene che sia, tutti i temi che hanno segnato il confronto interno di questi ultimi mesi.

Di questo occorre esserne del tutto consapevoli.

Quello dell’unità dei comunisti continua a permanere tra i più stringenti.

E’ una richiesta sentita e diffusa che fa quasi da preambolo a qualsiasi avvio di discussione, un auspicio a prescindere, che necessita per questo di una precisazione una volta per tutte il più possibile dirimente, pena il persistere di qualcosa di irrisolto che può agire come elemento frenante.    

E’ un tema da affrontare dunque con estrema schiettezza, che attiene alla sfera della razionalità politica piuttosto che a quella delle speranze e dei desideri indotti da un nobile ma primario impulso.

Il problema di fondo rimane quello dell’omogeneità della cultura politica, quella che determina il profilo del Partito ed del suo progetto.

Fin dall’inizio siamo stati i più convinti assertori di una necessaria riunificazione delle forze comuniste e l’operazione che abbiamo messo su quattro anni fa è li a testimoniarlo. Se ne sentiva l’esigenza dopo anni di sterili tentativi e di tangibili sconfitte. L’Appello per la ricostruzione del partito comunista, per la casa dei comunisti, possibilmente di tutti i comunisti, è stato lanciato a tutti comunisti della diaspora. Abbiamo incontrato tutti, abbiamo ricevuto risposte diversificate per le quali vanno indagate le reali motivazioni legate in primis, senza dubbio, alle diversità culturali esistenti.

Il Partito Comunista che ci siamo impegnati a ricostruire fin da subito ha inteso esplicitamente richiamarsi, attualizzandolo, al miglior patrimonio politico e ideologico dell’esperienza storica del P.C.I. e del movimento comunista internazionale, nell’alveo quindi della tradizione del socialismo scientifico.

Questa è l’impianto politico di riferimento ed intorno ad esso, per coerenza intellettuale, abbiamo il dovere politico di muoverci, per cercare di colmare quel deficit più che trentennale di analisi storica e di proposta teorica-strategica che abbiamo avvertito e denunciato nel corso dei lavori dell’Associazione, verificando in tal senso come l’eclettismo e/o il residualismo, sia di cultura che di pratica politica, siano stati alla base dell’inadeguatezza, dell’inefficacia e dell’esaurimento di tutte le esperienze nate dalla autodissoluzione del P.C.I.

Ne era una delle conclusioni condivise.

Occorre adoperarsi, ma senza tentennamenti, perché su questo impianto si arrivi ad una condivisione da parte delle altre soggettività di ispirazione comunista ed ad una convergenza che in modo cosciente permetta finalmente di costruire un grande e organizzato Partito Comunista.

Non smetterò mai di puntualizzarlo: uno strumento utile per un progetto di trasformazione sociale e politica e non una palestra del pensiero.

Oggi l’ambito del pensiero comunista è ripercosso da certi fermenti. Qualche settimana fa è nata ufficialmente “Rinascita! Per un’Italia sovrana e socialista”.

Un soggetto politico lanciato da alcuni navigati compagni di spessore intellettuale come Boghetta, Formenti e Porcaro. Ho letto con il dovuto interesse il programma d’intendi e devo onestamente dire che non ho trovato tali differenze, sia d’analisi che di proposta, da giustificare un tale percorso parallelo.

Nel caso le difformità di opinione su alcuni temi, se esistono, dovrebbero far parte della normale dialettica interna ad un partito.

C’è da chiedersi allora il perché. E farlo con la dovuta franchezza.

Siamo noi che non riusciamo a trasmettere il messaggio costituente nei modi giusti, ad attardarci ed incartarci in alcuni passaggi retrocedendo in credibilità e affidabilità   (e qualche ragione alla luce di quanto successo non è da escludere ) o, cosa ancora più probabile, la condivisione dell’analisi si ferma sulla soglia della traduzione in azione politica, sull’individuazione delle modalità e degli strumenti necessari, prigioniera di certezze culturali storicamente consolidate e soggettivamente consolatorie, dure a morire?

Noi vorremmo tornare ad interessarci ed occuparci, ma nella contemporaneità, di casematte, di intellettuale collettivo, di costruzione paziente del consenso, di democrazia progressiva, di organizzazione e di centralismo democratico.

L’unità dei comunisti la vediamo dentro questa cultura e dentro questo soggetto.

Non è per inopportuna presunzione (perché anche a volerlo non potremmo permettercelo nelle condizioni date), ma per un criterio di realismo politico che esige la storia degli ultimi decenni.

La suggestione per un possibile alleanza politica o elettorale a monte con le altre forze di ispirazione comunista in grado di garantire la presenza della Falce e Martello sulla scheda elettorale priva di una puntuale verifica sullo stato d’avanzamento dei rapporti sul piano della cultura politica, dunque acritica (c’è da capire se in ciò viene compresa anche Rifondazione o ci si riferisce solo ad altro), così declinata non può essere sostenibile perché si porrebbe in palese contraddizione con l’essenza stessa dell’Appello, ridimensionando la grande ambizione del progetto e facendo percepire il PCI come l’ennesimo partitino di tendenza comunista, alla pari di altri, sullo stesso piano di altri. Una condizione da cui bisogna assolutamente emanciparsi se si vuol permeare il senso comune.

Vorrei tra l’altro comprendere il senso politico di chiedere come condizione per un accordo unitario un condanna preventiva dell’eurocomunismo, dell’accettazione     dell’ ombrello della Nato e del compromesso storico ad un partito che ha dichiarato ripetutamente di considerare l’Europa dall’Atlantico agli Urali, di voler uscire dalla Nato o l’impossibilità politica di tessere rapporti con il PD. Oltretutto tematiche che storicamente hanno interessato il dibattito tra migliaia di comunisti e che, qualsiasi sia la posizione nel merito, non possono essere liquidate superficialmente con un atto di abiura pubblica.

Mi pare un atteggiamento dogmatico fine a se stesso che ha tutta l’aria di una ricerca di autogratificazione postuma ad uno stato di malessere antico.

Quel simbolo e quella denominazione rappresentano per noi invece pura sostanza politica di progetto, da curare e spendere quindi con la massima attenzione.

Questo non significa affatto che venga abbandonata la ricerca di un confronto per una possibile e sicuramente auspicabile ricomposizione. La mancata condivisione del nostro percorso non deve per nulla escludere un comune lavoro unitario, un’unità d’azione che sappia incidere più efficacemente sul conflitto sociale.

Anzi potrebbe essere il viatico per aiutare a superare posizionamenti, atteggiamenti e impolitici orgogli di appartenenza (che ci sono) ancora restii a quella necessaria presa di coscienza che ha contraddistinto il percorso fatto da tutti noi.

Forse abbiamo osato troppo, vedremo, ma da Partito Comunista Italiano non si possono fare passi all’indietro. Paradossalmente rappresenta la nostra garanzia.

 

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