Note palestinesi

Il forte rapporto che si è costituito tra il Dipartimento Esteri del PCI e il PCI tutto con l’Ambasciata dello Stato di Palestina a Roma ci permette di aggiornaci continuamente sulle ultime questioni relative alla vita del popolo palestinese e ai continui attacchi del governo di Israele contro di esso. Pubblichiamo queste “note palestinesi” relative ad alcuni importanti fatti accaduti tra la fine dello scorso settembre e quest’ottobre 2018

 

A cura di Fosco Giannini, Responsabile Dipartimento Esteri PCI

 

1)I COLONI UCCIDONO UNA DONNA PALESTINESE

 I coloni uccidono una donna palestinese Era andata a farsi sistemare i denti dalla figlia dentista che vive a Hebron, in vista del matrimonio di un’altra figlia due settimane dopo. La sera di venerdì 12 ottobre tornava a casa in macchina con il marito e un’altra figlia ancora, di 8 anni, quando un gruppo di coloni israeliani, all’altezza del checkpoint di Zaatara, ha cominciato a scagliare pietre contro la loro vettura, fino a spaccarne i vetri e a colpire lei in testa. E’ morta così, a 47 anni, Aisha Muhammad Talal Al-Rabi, lasciando senza mamma 8 ragazzi e senza figlia una madre, Azziya, già colpita da Isreale: “il fratello di Aisha, Fawzat, era stato ucciso il giorno prima del suo matrimonio nel 1999. Adesso l’occupazione mi ruba per la seconda volta un figlio”. Nulla resta della felicità della futura sposa e di tutta la sua famiglia. Rama, la sorellina più piccola che era in macchina con i genitori, è rimasta scioccata dai colpi delle pietre “che cadevano come la pioggia”, dai vetri infranti, dalle ferite riportate dal padre, dal sangue della madre a dal pensiero di non poterla rivedere mai più. Una madre che aveva interrotto gli studi quando si era sposata, ma che li aveva poi ripresi: prima di essere uccisa, aveva fatto in tempo a laurearsi, insieme alle figlie. Viveva nel villaggio di Bidya, nel nord della Cisgiordania, ed è lì che si sono tenuti, sabato pomeriggio, i funerali a cui sono accorsi in migliaia. Anche il Presidente Abu Mazen ha voluto porgere le proprie condoglianze, definendo Aisha Al-Rabi “una martire, perché ha donato il sangue per la sua terra e per il suo popolo”. Si è trattato, secondo il Presidente, di “un crimine spregevole perpetrato dai coloni sotto la protezione dello Stato occupante. Un crimine che non può restare impunito” e che rinnova la necessità di una protezione internazionale per i palestinesi, bersaglio di “aggressioni sempre più frequenti e sanguinarie per mano dei coloni e delle forze di occupazione”. Per questo, il Ministero degli Esteri della Palestina ha dichiarato di voler portare il caso di Aisha davanti alla Corte Penale Internazionale (ICC).

2) LA RESISTENZA DELLE PRIGIONIERE

 Le donne palestinesi detenute nella prigione di HaSharon hanno lanciato una serie di proteste contro la loro condizione di isolamento. Per più di un mese sono rimaste nelle loro celle, rifiutandosi di andare nel cortile della prigione poiché all’inizio di settembre vi sono state installate telecamere di sorveglianza come ritorsione per i precedenti miglioramenti ottenuti dai detenuti all’interno delle prigioni israeliane. Perciò, lo scorso 5 settembre, le donne detenute hanno iniziato una protesta contro le telecamere di sorveglianza e contro le altre tattiche repressive dell’amministrazione penitenziaria. Si sono rifiutate di uscire nel cortile fino alla completa rimozione delle telecamere presenti anche nei corridoi e hanno declinato la proposta di oscurarle per due ore al giorno, sottolineando che questi strumenti di controllo violano la loro privacy e la loro libertà personale. Così facendo, le prigioniere palestinesi si sono private dell’accesso all’aria, al sole e all’esercizio fisico, rinunciando non solo all’area ricreativa, ma anche alla cucina, alla mensa e alla lavanderia. Le madri delle giovani detenute Shorouq Dwayyat e Malak Salman hanno detto che le loro figlie soffrono di cattive condizioni di salute all’interno di HaSharon e non hanno lasciato la loro cella per 33 giorni. In rappresaglia, le detenute hanno subito continue sospensioni di elettricità. Non sorprende che molte madri siano rimaste scioccate dalle condizioni in cui versavano all’interno della prigione. Diversi anni fa le telecamere erano state rimosse dopo una protesta delle donne prigioniere. Per questo, quando sono state reinstallate all’inizio di settembre, hanno scatenato una reazione comprensibile: 34 delle 54 donne palestinesi detenute dagli israeliani si trovano nella prigione di HaSharon; le altre nella prigione di Damon. In entrambi i casi, il trasporto dalla prigione ai tribunali militari e viceversa è particolarmente duro, perché richiede viaggi che durano fino a 12 ore in condizioni difficili e scomode all’interno della cosiddetta “bosta”. L’amministrazione della prigione ha minacciato di trasferire tutte le detenute se non cesseranno la protesta, che ha invece riscosso dimostrazioni di solidarietà nelle carceri maschili. Il direttore del carcere di Ramon, già impegnato a “ripristinare le condizioni di prigionia precedenti al 2008”, ha per questo minacciato ulteriori misure punitive.

3) SI ALLARGA L’INSEDIAMENTO ILLEGALE DI HEBRON

Domenica 14 ottobre il governo israeliano ha approvato un finanziamento di 22 milioni di shekel – 5,2 milioni di euro – per l’espansione del suo insediamento a Hebron, una delle principali città della Cisgiordania, dove circa 1.000 coloni si sono insinuati occupando il centro storico e mettendo fine alla maggior parte delle sue centenarie attività commerciali. La popolazione palestinese autoctona, che conta circa 220.000 persone, vive in balia di questa presenza arrogante, muovendosi tra posti di blocco. La parte nuova dell’insediamento includerà 31 unità abitative, scuole e aree pubbliche: saranno le prime costruzioni realizzate all’interno di Hebron negli ultimi dieci anni. L’idea era stata presentata dal Ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, che ha puntato sul settore H2 della città, già occupato, per dimostrare come intenda “rafforzare gli insediamenti in Giudea e in Samaria con i fatti, non a parole”. I soldi per finanziare il progetto, ha confermato il governo israeliano, arriveranno da diversi ministeri, ma soprattutto da quello della Difesa. Immediata la reazione di organizzazioni non governative israeliane come Peace Now e, soprattutto,di esponenti della leadership Palestinese come Saeb Erekat, Segretario Generale del Comitato Esecutivo dell’OLP, che ha inviato una lettera al Procuratore Capo della Corte Penale Internazionale (ICC) Fatou Bensouda, per denunciare la gravità di queste nuove costruzioni a Shuhada Street, il cuore pulsante dell’antica città caduto già da troppo tempo nelle mani dei coloni che, occupando i piani alti dei suoi edifici, fanno di tutto per rendere insopportabile la vita degli abitanti palestinesi. Per questo Erekat ha voluto ricordare come l’occupazione di Hebron rappresenti un chiaro esempio di Apartheid e, dunque, un “crimine contro l’umanità”.

4) NOI STIAMO CON BAkRI

Noi stiamo con Bakri. Non sempre la fama e il riconoscimento internazionale bastano a mettere un artista al riparo dalla censura dei governi. Soprattutto se l’artista in questione è palestinese (ma cittadino israeliano) e se il governo è quello di Israele. Mohammad Bakri è il nome più in vista del cinema palestinese, noto da molto tempo anche fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori. Molti i riconoscimenti come attore di teatro e di cinema, come regista e come documentarista. Tra i più recenti, il premio come miglior attore al Festival Internazionale del Cinema di Dubai del 2017 e l’Arab Critics Award al Festival di Cannes del 2018, entrambi per il film “Wajib – Invito al matrimonio” diretto da Annemarie Jacir, che lo vede protagonista insieme al figlio Saleh.

Tuttavia, il nome di Mohammad Bakri è conosciuto dalla comunità artistica internazionale anche per la persecuzione giudiziaria che continua a subire dal 2002, ovvero dall’anno di uscita del suo documentario shock sulla distruzione del campo profughi di Jenin, nel nord della Cisgiordania, commessa dall’esercito israeliano in una delle tante sanguinose operazioni compiute nell’ambito dell’offensiva militare ribattezzata “Scudo difensivo”. Uscito a giugno del 2002 (solo due mesi dopo la fine dell’aggressione), “Jenin, Jenin” documenta il punto di vista palestinese su una delle pagine più tragiche di una campagna militare che, tra il marzo e l’aprile del 2002, provocò oltre 500 morti, migliaia di feriti, l’invasione di diverse città palestinesi, blocchi stradali e coprifuoco. Tra il 3 e il 18 aprile, a Jenin vennero uccisi oltre 50 palestinesi e il campo fu raso al suolo. Come disse un soldato israeliano intervistato dal quotidiano Yediot Ahronot poco dopo, il 31 maggio, “Per loro abbiamo lasciato un enorme campo da calcio”. Di questo parlava Bakri e per questo la reazione israeliana non si fece attendere. La proiezione del film fu vietata in Israele per due anni, mentre Bakri, da allora, cominciò a subire diverse campagne diffamatorie e un processo per vilipendio e diffamazione istruito sulla base delle denunce di alcuni militari israeliani che chiedevano centinaia di migliaia di euro di risarcimento. Molti cineasti italiani (tra cui Mario Monicelli, Mario Martone e Saverio Costanzo) si mobilitarono da subito in difesa del regista, mentre decine di proiezioni di “Jenin, Jenin” furono organizzate senza autorizzazione. Anche grazie a loro nel 2006 Bakri fu assolto, ma la sua odissea non è ancora finita. Infatti, è del 2016 una nuova denuncia (sempre da parte di un militare israeliano) che il prossimo 3 gennaio 2019 porterà Bakri di fronte a un tribunale per affrontare una richiesta di risarcimento di 2 milioni e 600mila shekel (circa 627mila euro). Come già dieci anni fa, anche oggi il mondo del cinema e dello spettacolo italiano è sceso in campo in segno di solidarietà con il regista e in difesa della libertà di espressione artistica, lanciando la campagna #IoStoConBakri. Tra le tante firme che si possono leggere in calce all’appello, anche quelle dei registi Bertolucci, Martone, Maselli, Montaldo, Taviani, Giordana e Vicari, di attori come Elio Germano, Isabella Ragonese e Valerio Mastandrea, e dei direttori dei festival di Venezia e Berlino. Proprio in questi giorni, Mohammad Bakri è in Italia per un tour di presentazioni, proiezioni e dibattiti. La prima tappa è stata Roma, al Nuovo Cinema Aquila, il 16 ottobre; le successive Napoli, Brescia, Bologna, Torino, Venezia-Mestre, Milano e infine Firenze, il 26 ottobre.

 

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