di Francesco Valerio della Croce, Segreteria nazionale Pci
Il lavoro non è mai stato così precario, insicuro, fatale, sfruttato. L’attacco al diritto al lavoro viene da lontano: da sempre contrari alla sua costituzionalizzazione e affermazione nella vita pubblica, i liberali come Tocqueville ne vedevano l’anticamera della modifica degli assetti proprietari generali in favore dello Stato e, per questa via, della realizzazione di un altro ordine sociale ed economico, del comunismo.
La stessa identità tra diritto al lavoro e dignità umana – che per tanto tempo e diverse generazioni è stato un fatto pacifico – fu oggetto della asperrima contestazione da parte di Von Hayek, il quale ne vedeva un cedimento arrendevole del costituzionalismo di matrice liberale nei confronti delle istanze del socialismo.
Non è un caso che l’intero e complessivo dettato normativo sovranazionale della UE, essenzialmente intriso di ideologia liberale, non contenga l’affermazione del diritto al lavoro, ma quello individuale “di lavorare” nella Carta di Nizza (il dettato normativo considerato “più avanzato” a livello comunitario), esprimendo essenzialmente in negativo quanto corrisponde in positivo al divieto di “lavoro obbligatorio”. Non si può lavorare per obbligo, quindi, non si possono accettare le discriminazioni più squallide del capitalismo, ma si può lavorare comunque in qualsiasi altro modo.
C’è un abisso tra il diritto al lavoro della nostra Costituzione e tra la natura “funzionalistica” che è riservata al lavoro nell’ordinamento UE: in esso, i diritti sociali e quello al lavoro in primis sono strumenti meramente funzionali ad un progetto politico generale, che è quello costitutivo dell’Unione europee, quello di Maastricht: realizzare l’unione economica, monetaria e la libera circolazione dei capitali con la distruzione del diritto al lavoro, quello stabile, sicuro, tutelato, con potere contrattuale. Un progetto estraneo ed antitetico rispetto a quello della nostra Costituzione che fonda la Repubblica sul lavoro, e riconosce tutelando esplicitamente nella sua prima parte (quella dei diritti) il diritto al lavoro.
Oggi, come ieri, del lavoro si attacca la sua potenziale funzione emancipatrice, il riconoscimento esplicito di parte conflittuale nella società – antagonista al capitale – il suo essere strumento di passaggio da una concezione astratta, indistinta ed individuale di “cittadini” a quella di lavoratori, di parte fondamentale e fondante della società moderna, . E’ non solo, dunque, un attacco alle condizioni materiali di vita, ma ideologicamente diretto a colpire il lavoro come diritto collettivo, il cuore delle conquiste del movimento dei lavoratori in più due secoli almeno di lotte.
Attacco al lavoro ha significato attacco a tutti i diritti direttamente legati al lavoro, all’insieme della condizione umana: fino ad attaccare la vita stessa in modo spudorato, come non si vedeva da tanti decenni, con la sostanziale indifferenza nei confronti dei record annuali che si raggiungono di anno in anno irreversibilmente nel conteggio di morti e infortuni sul lavoro nel nostro Paese.
Ma, come sappiamo bene dalla nostra lunga storia e dall’esperienza storica del movimento dei lavoratori, è nelle contraddizioni aspre che si possono determinare le condizioni di una riscossa.
Questa riscossa non può che partire proprio dal lavoro e dai lavoratori: se l’egemonia liberale che ha moltiplicato la miseria ed esasperato all’inverosimile lo sfruttamento del lavoro, il prodotto finale di una tale barbara opera può potenzialmente essere la rovina degli aguzzini dei lavoratori. Per citare Marx, essa produce nientemeno che i suoi “becchini“.
Affermare il primato dello Stato e della Costituzione nella vita economica del Paese, per il diritto al lavoro attraverso la programmazione e il governo dell’economia da parte della Repubblica, significa oggi fare una scelta di campo sul terreno del modello di società, dei valori e dell’ideologia.
Battersi per il salario minimo a 10 ero orari netti, per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e del tempo di lavoro (riduzione per tutti dell’età per la pensione), per il contratto nazionale per tutti i lavoratori (specie di quelle nuove categorie di sfruttati che, pur nella loro frammentazione molecolare ed individuale, vedono oggi lotte di avanguardia per i diritti ed in contratto di lavoro), per la reale sicurezza dei luoghi di lavoro, per lo stop ai licenziamenti arbitrari con il ripristino dell’art. 18, per un piano straordinario di assunzioni nel pubblico impiego (in un Paese che, rispetto agli altri grandi Stati europei, ha un numero misero di lavoratori nel settore pubblico) significa rendere realmente visibile e percepibile un modello di società alternativo all’esistente.
Un modello in cui lavoro gratuito, sottopagato, precario, flessibile, e tutte le altre voci dell’elenco sul vocabolario dello sfruttamento sono messe al bando. Un modello in cui dignità e lavoro sono espressioni di un’ identità.
E’ un modello di società in cui si lavora per vivere e in cui non può mai accadere il contrario. Il nostro presente per quanto difficile e inedito nelle modalità richiesta dalla lotta politica sta sfornando i becchini di questo modello sociale capitalistico, essi sono potenzialmente in massa nelle nuove generazioni che, ogni giorni di più, percepiscono la certezza di un futuro di paura e di sfruttamento.
E’ tra loro il posto del partito comunista, è da loro che riprende corpo la possibilità della trasformazione, è nel conflitto il riscatto e non nella concertazione. E’ dal lavoro che parte la riscossa.