Dipartimento Politiche economiche e Europa del Pci
Verso la metà del prossimo dicembre sarà proposta in sede europea la ratifica della riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES): un esito che il Pci invita a respingere risolutamente. Per questo, malgrado si tratti di materia piuttosto ostica, occorre fare il possibile perché si comprenda che essa è destinata ad incidere direttamente sul tenore di vita di tutti noi.
Il MES, approvato in Italia nel 2012 e più noto come “Fondo salvastati”, è un organismo che è incaricato di erogare prestiti, un meccanismo attraverso cui l’Unione europea interviene in soccorso e su richiesta di Paesi membri in condizioni di crisi finanziaria. In realtà, in sintonia con gli orientamenti antipopolari propri dell’Ue, con tale strumento si intende ripristinare la stabilità finanziaria a tutto danno della popolazione del Paese debitore, come il caso della Grecia ha ampiamente dimostrato. Il MES ribadisce l’ispirazione delle regole che disciplinano la politica di bilancio dei Paesi dell’Eurozona, tutte orientate all’abbattimento del debito pubblico. Per accedere a tale prestito occorre infatti aderire a (o meglio: subire) pesanti “condizionalità”, garantite dalla sottoscrizione di un memorandum in cui il Paese destinatario degli “aiuti” si impegna ad accettare la suddetta disciplina di bilancio: ciò si traduce in contenimento della spesa pubblica, taglio del welfare, moderazione salariale, depressione economico-sociale.
Occorre peraltro notare che – come il Pci ha a più riprese denunciato – un tale rigorismo ragionieristico ha clamorosamente mancato il raggiungimento del suo conclamato obiettivo, cioè la riduzione del rapporto tra debito pubblico e Prodotto interno lordo (Pil). L’Italia (vedi governo Monti e successivi governi) ha ampiamente sperimentato i pretesi vantaggi delle politiche di austerity: i tagli indiscriminati alla spesa pubblica, cioè al numeratore della frazione in questione, hanno inibito la crescita economica del Paese, deprimendo la sua ricchezza (il Pil), ossia il denominatore del medesimo rapporto, con l’indesiderato effetto di mantenere quest’ultimo invariato o addirittura – come di fatto è accaduto – di incrementarlo.
Con la riforma del Mes si irrigidisce ancora di più tale quadro, si inaspriscono ulteriormente le regole e il controllo della loro applicazione. Nel merito, alla fine del 2018 l’Eurogruppo ha avviato la discussione; a giugno di quest’anno la proposta di riforma ha ricevuto il via libera. Il tutto nel totale silenzio del nostro Parlamento nazionale. Ora, tra qualche settimana è annunciata l’approvazione definitiva. Ma finalmente, negli ultimi giorni, il rilievo di tale vicenda è uscito dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori: voci autorevolissime – non sempre e solo quelle dei soliti comunisti – si sono levate e hanno lanciato un vivissimo allarme. Niente meno che il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco lo scorso 15 novembre ha parlato di “rischio enorme” per il Paese. E davanti alle Commissioni V (Bilancio) e XIV (Politiche dell’Ue) della Camera, riunite in seduta congiunta, sono stati chiamati in audizione l’economista Giampaolo Galli e il presidente del Centro Europa Ricerche, Vladimiro Giacchè, i quali hanno ribadito in proposito la loro estrema preoccupazione.
Il fatto è che con la riforma del MES si prende atto dell’inefficacia delle regole sin qui adottate – segnatamente quelle veicolate dal Patto di Stabilità e Crescita e dal Patto fiscale, il famigerato Fiscal Compact – ma anziché cambiare completamente pagina si persiste sulla linea del rigore, introducendo anzi nuovi elementi di rigidità e nuove condizionalità. La riforma introduce una distinzione preliminare tra una linea di credito “precauzionale” e una “a condizioni rafforzate”. La prima sarebbe concessa ai Paesi più virtuosi, quelli cioè che si presentano rispettosi delle regole sin qui prescritte: tra cui deficit inferiore al 3% del Pil, rapporto tra debito pubblico e Pil inferiore al 60% o comunque in via di riduzione annua di 1/20 della parte eccedente il 60% del Pil, come prevede il Fiscal Compact. Per chi invece chiede aiuto al MES non dimostrandosi così virtuoso, è prevista l’applicazione della seconda modalità di prestito che comporta l’accettazione di pesanti condizionalità, fino alla ristrutturazione preventiva del debito qualora esso fosse giudicato non sostenibile dal MES. Quest’ultima misura è evocata con una perifrasi: “coinvolgimento del settore privato”. Ma al di fuori dei nostri confini si continua a ripetere che il debito italiano è insostenibile: esponenti dell’establishment tedesco e dei Paesi del Nord Europa parlano ormai esplicitamente – in particolare, con riferimento all’Italia – di ristrutturazione del debito.
Non deve sfuggire la gravità di una tale ipotesi, appesa com’essa è ad un’analisi di sostenibilità del debito prodotta dal MES. Per usare le parole di Giampaolo Galli, si tratterebbe di “un colpo di pistola alla tempia di milioni di risparmiatori”. Nella letteratura economica, quando si tratta di ristrutturazioni, prevalentemente si fa riferimento a debiti nei confronti di banche estere; ma il debito pubblico italiano è detenuto per il 70% da operatori residenti, un vero e proprio risparmio di massa. Una sua ristrutturazione (alla scadenza ti dò 50 anziché 100) comporterebbe distruzione di risparmio, fallimenti di banche e aziende, impennata della disoccupazione. Inoltre la stessa suddivisione tra Paesi virtuosi e non virtuosi, così come scaturirebbe dalla suddetta analisi di sostenibilità del debito (con l’Italia con ogni probabilità inserita nel secondo gruppo) può esser letta come un messaggio al mercato e avere l’effetto di peggiorare la situazione determinando una speculazione al ribasso sui titoli di stato: se l’analisi di sostenibilità del debito risultasse pessimistica, ciò autorizzerebbe a preventivare una ristrutturazione di esso, con l’effetto di aumentare i tassi d’interesse e rendere perciò stesso quel debito ancor più insostenibile. E’ la classica profezia che si autoavvera, come lucidamente ha annotato il governatore della Banca d’Italia: “I benefici modesti e incerti di un meccanismo di ristrutturazione del debito devono essere soppesati ponendoli a confronto con l’enorme rischio che il mero annuncio della sua introduzione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default, che possono dimostrarsi autorealizzantisi”.
Anche tale questione non fa che confermare ciò che il Pci ha sempre sostenuto: l’irriformabilità dell’Unione europea. In ogni caso, per approvare a metà dicembre la proposta di riforma del MES occorre l’unanimità degli stati membri. Votarla significherebbe assumersi una gravissima responsabilità: una responsabilità che il governo italiano non si deve assolutamente assumere.