Cambiamenti climatici: Conferenza “COP25”, un fallimento annunciato.

di Edoardo Castellucci – Segreteria Nazionale PCI – Responsabile Ambiente e Territorio

La Conferenza sul clima “COP25” che doveva svolgersi in Cile e poi è stata trasferita a Madrid, si è chiusa rimandando ogni decisione in merito al carbonio al prossimo anno. Non sono bastati due giorni di negoziato in più, come non hanno sortito effetto positivo le manifestazioni di piazza di milioni di giovani del movimento Fridays for Future.

Non poteva essere diversamente visto la storia delle conferenze sul clima delle Nazioni Unite, che sono state inutili ed hanno disatteso ed ignorato le promesse fatte.

E’ la solita storia, si prendono decisioni e poi si disattendono. Come il Protocollo di Kyoto del 2002, primo documento internazionale per la riduzione delle emissioni di CO2 in 20 anni, protocollo che nel 2004 vide George W. Bush ritirare l’adesione degli USA dal patto. Come la Conferenza COP21 del 2015 di Parigi, primo accordo globale che impegnava, Stati industrializzati ed in via di sviluppo, a limitare l’aumento della temperatura, che ancora una volta ha visto gli USA di Donald Trump sfilarsi dall’accordo.

Ancora una volta hanno prevalso, come sottolinea Greenpeace, “gli interessi delle compagnie dei combustibili fossili e di quelle imprese che vedono in un accordo multilaterale contro l’emergenza climatica una minaccia per i loro margini di profitto”.

Sono ormai 50 anni, dalla Conferenza internazionale su uomo e ambiente dell’aprile del 1970 a Milano, che la crisi ambientale riveste particolare attenzione e “… investe sia i paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo, ha la sua origine soprattutto nel rapido aumento della popolazione mondiale, nella limitata integrazione fra tecnologia sempre più potente e l’ambiente in cui tale tecnologia opera, nel deterioramento del suolo coltivato, nella crescita non programmata delle zone urbane, nella diminuzione dello spazio disponibile e nel crescente pericolo di estinzione di molte forme di vita animale e vegetale. E’ sempre più evidente che, se non cambierà l’attuale tendenza, la sopravvivenza dell’uomo sul pianeta è in grave pericolo ed è pertanto urgente richiamare l’attenzione degli uomini di tutto il mondo sui problemi, dalla cui soluzione dipende se l’umanità potrà vivere in un mondo umano, e sulle iniziative da prendere per risolverli.” (Giorgio Nebbia, L’Uomo e L’Ambiente. Una Inchiesta internazionale – Tamburini Editore, aprile 1970 Milano)

E’ la storia che si ripete sempre uguale, è il conflitto tra capitale e natura, la seconda contraddizione del Capitalismo come la definisce James O’Conner (J. O’Conner, Natural Causes: Essays in Ecological Marxism, The Guilford Press, 1998), che si intreccia con la prima contraddizione, quella tra capitale e lavoro. In parole povere è il lavoro umano che, producendo plus valore trasformando la natura, indica che la storia naturale e la storia sociale sono la stessa cosa, la stessa storia.

E’ in definitiva la storia del capitalismo e del suo bisogno delle crisi. Perché, come scrive Razming Keucheyan,“per il capitalismo, la crisi ambientale non è solo un problema da gestire, ma una vera e propria strategia di accumulazione”, ed aggiunge, citando Gramsci che: “[…] le crisi sono sempre momenti ambivalenti per il capitalismo – se da un lato rappresentano un rischio per la sopravvivenza del sistema, dall’altro sono anche occasioni per creare nuove oapportunità di profitto.” (R. Keucheyan, La natura è un campo di battaglia, Ombre Corte, Verona 2019)

Nuove opportunità di profitto che vengono prodotte, come anticorpi, per poter affrontare la crisi e le disuguaglianze ambientali, attraverso politiche di finanziarizzazione, di green economy e anche di produzione delle rinnovabili, che servono al sistema capitalistico per riorganizzarsi, trovando nuovi modi per fare fronte all’emergenza senza mettersi in discussione.

Nasce da queste considerazioni la necessità di intervenire sulle politiche ambientali nazionali dei singoli Stati, perché la conferenza sul clima si è dimostrato uno strumento inadatto a governare la crisi del cambiamento climatico, visto che a Madrid, dei circa 200 Stati partecipanti alla Conferenza, solo 73 hanno definito come e quanto diminuiranno le emissioni di CO2. L’Italia non era tra questi ultimi.

Una Italia che il Climate Change Performance Index (CCPI), il Rapporto sulle prestazioni climatiche di 56 Paesi (+ l’UE), sia industrializzati che in via di sviluppo, che sono responsabili di più del 90% della produzione globale di emissioni, ha relegato al 26° posto, ben dieci posizioni perse dal 2016, il che dimostra che sulle politiche climatiche c’è molto da lavorare.

Lavorare per l’affermazione di politiche che siano attente ai cambiamenti climatici e allo stesso tempo impediscano ulteriore consumo di suolo e di risorse ambientali.

Disinnescando la corsa alla Finanziarizzazione ed alla Green economy, la nuova forma di colonialismo come la definisce Evo Morales, che privilegiano politiche energetiche delle centrali a biomasse e/o delle centrali geotermiche, queste ultime decisamente climateriali e particolarmente dannose per l’ambiente per la quantità di emissioni in atmosfera di CO2 e metano, che a parità di energia prodotta inquinano più di una centrale a carbone.

Favorendo una politica di nazionalizzazione, dove lo Stato assuma il ruolo primario nella gestione delle risorse energetiche, in quanto: “[] Nessuna green revolution sarà possibile senza una trasformazione strutturale, sistemica del contesto socioeconomico oggi dominato dalla logica del profitto, dell’accumulazione, della massimizzazione dei rendimenti economici.” (P. Cacciari, La chimera della “Green Economy”, in Il granello di sabbia, n. 42, dicembre 2019); la gestione privata e la ricerca del profitto risultano in contrasto con i bisogni della comunità e con una strategia industriale che soddisfi il fabbisogno energetico nazionale.

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