di Emiliano Alessandroni
Quando vi sono in ballo qualcosa come 209 miliardi di euro, che decideranno i rapporti economico/sociali per almeno i prossimi decenni, tutti vogliono sedersi al tavolo delle trattative. È in questi frangenti che cade la maschera interclassista del nostro panorama politico, pronto ad accordarsi sulle spartizioni.
Il mondo dell’economia privata non è affatto uniforme ed è attraversato da lotte intestine. Ma all’interno di queste lotte le varie cordate hanno qualcosa in comune: la loro considerazione del lavoro subordinato come l’ultimo piano della scala gerarchica e il loro giudizio del pubblico come sperpero inutile di denaro, come una zavorra che di tanto in tanto bisogna accontentare ma che meno si fa vedere meglio è.
Questo sarà già un terreno di partenza per decidere la spartizione dei miliardi europei che consentono già alla Lega, a Renzi e al Pd di smettere di scontrarsi su quelle faccende che ai loro occhi si rivelano ormai come inutili (i diritti degli immigrati, la questione di genere, fascismo/antifascismo, i principi costituzionali ecc.) e di concentrarsi sull’essenziale: la divisione del bottino.
Ecco che in questi momenti si rivela quanto mai attuale la categoria di “monopartitismo competitivo”, utilizzata da Domenico Losurdo, per descrivere in primo luogo il sistema politico americano, ma in ultima analisi anche quello europeo, che si è andato sempre più americanizzando dopo il biennio 1989-91.
Una volta tolta di mezzo “l’alternativa di sistema” e lasciata soltanto, sull’arena del contendere, “l’alternativa di governo”, la lotta fra i partiti si è rivelata sempre più come una lotta fra cordate diverse di uno stesso partito: quello del capitale. E la stessa “democrazia” ha finito sempre più per significare “democrazia capitalistica”, nonostante i soggetti sociali da essa esclusi vivano questa espressione come un ossimoro.
Oggi ormai gli individui, in Italia e in Occidente, si trovano sempre più in difficoltà nel pensare in termini che vadano al di là di questa cornice e dei suoi rapporti sociali. Il linguaggio e le stesse “formae mentis” collettive, le logiche e il significato delle parole, sono permeate da questa ideologia che attualmente facciamo fatica a percepire, ma che probabilmente vedranno con più facilità gli storici del futuro quando ricostruiranno i meccanismi del nostro annebbiamento.
Questo governo Draghi non è un semplice fatto contingente, uscito per miracolo dalla supponenza altezzosa di un Matteo Renzi, ma l’immagine cristallina del funzionamento dei nostri sistemi, lo spaccato di un’arena politica nel suo momento essenziale: quello in cui si gioca la salvaguardia delle gerarchie economico/sociali a cui le diverse correnti politiche fanno principalmente riferimento.
Vedremo quanto denaro europeo verrà destinato al Welfare, alla sanità pubblica, alla scuola, alla lotta contro l’evasione fiscale e la corruzione, alla guerra contro il lavoro nero, al miglioramento delle condizioni del lavoro dipendente, a un più dignitoso livello salariale, al contrasto alle mafie e al caporalato, alla lotta alla precarietà ecc.Vedremo quanti diritti questo governo riuscirà ad estendere; che se mai potesse soltanto reintrodurre l’Articolo 18 sarebbe già, quello sì, realmente un miracolo.
Ma ogni aspettativa è inutile. Questo governo nasce infatti da ben altre esigenze e con ben altri obiettivi: la distribuzione entro tutti i limiti del possibile dei fondi europei verso l’alto e verso il privato, che lasci inevitabilmente al basso e al pubblico, quando costretto a dar qualcosa, soltanto le briciole.