DRAGHI CE LO AMMIRANO TUTTI! MA TUTTI CHI?

IL CREPUSCOLO DELLA DEMOCRAZIA,
DA PROGETTO DI EMANCIPAZIONE A “STABILITÀ”

di Emiliano Alessandroni

“The best, the best, the best!”. Così l’ex Premier Matteo Renzi – colui che fra le tante cose è riuscito a cancellare in una sola legislatura quell’Articolo 18 che Silvio Berlusconi non era riuscito a cancellare in vent’anni, lo stesso insomma che ha celebrato una monarchia assoluta (quella in cui viene giuridicamente prevista la pena di morte per gli omosessuali e che bombarda case e ospedali nello Yemen) come “un nuovo Rinascimento” –, così, dicevamo, Matteo Renzi ha definito Mario Draghi. 

Si tratta di un giudizio che, al di là di chi l’abbia pronunciato, trova consensi anche presso le anime di una certa sinistra: “Draghi ce lo invidiano tutti!” ripetono alcune di queste come un mantra. 
Sarebbe però interessante sapere chi sarebbero esattamente questi “tutti”. E quali fra i soggetti sociali di cui la sinistra dovrebbe costituire l’incarnazione politica ci invidia esattamente Mario Draghi.

Ce lo invidiano i lavoratori dipendenti d’Europa, sempre più privati di diritti e di incidenza nei processi decisionali? Ce lo invidiano forse le donne in maternità vittime di mobbing sui luoghi di lavoro? Ce lo invidiano le sacche di disoccupati o di precari, i senza tetto o le masse diseredate del nostro continente, che subiscono per prime i processi di privatizzazione della sanità e della scuola, nonché l’infiltrazione sempre più capillare delle logiche di mercato all’interno della vita pubblica? Ce lo invidiano gli afroamericani ancora emarginati, perseguitati e sfruttati, che riempiono le galere della tanto decantata democrazia a stelle e strisce?

Ce lo invidiano gli immigrati annegati in mare, picchiati dalla polizia o lasciati morire al freddo fra un confine e un altro? Ce lo invidia il popolo palestinese, ancora sottoposto a una continua discriminazione razziale e a un incessante potere assoluto di vita o di morte da parte del governo israeliano? Ce lo invidia il popolo cubano, che con mille sacrifici sviluppa una sanità di qualità, pubblica e gratuita, nonostante l’embargo imposto da coloro che tutt’ora si considerano i padroni del mondo? Ce lo invidiano i popoli latinoamericani, i popoli africani o asiatici? Insomma esattamente chi sarebbe a invidiarci Mario Draghi al di là dei grandi centri industriali e finanziari dell’Occidente, delle loro organizzazioni e dei loro rispettivi rappresentanti politici?

Questa situazione lascia emergere, a ben vedere, tutto lo svuotamento che la parola “democrazia” ha subito negli ultimi decenni, all’interno del perimetro euroatlantico, per opera dei nuovi rapporti di forza emersi dalla fine della Guerra fredda. 
Un illustre filosofo conservatore del XIX secolo, che si chiamava August W. Rehberg, polemizzava a suo tempo contro Kant e i sostenitori della Rivoluzione francese, affermando che una società, per funzionare, doveva cessare di porre al centro quelle “astratte idee” di “libertè” ed “egalitè” che il ciclo rivoluzionario aveva diffuso. Tutte queste idee astruse, “campate in aria”, queste idee kantiane fondate sul “principio razionale dell’universale libertà e uguaglianza tra gli uomini” non facevano altro che gettare fumo negli occhi dei popoli – sosteneva Rehberg ammiccando alle forze della Restaurazione. Occorreva quindi fare piazza pulita di esse e sostituirle con una visione più concreta: con “il principio della stabilità”.

Non più dunque “la libertà”, o tanto meno “l’uguaglianza”, ma “la stabilità” doveva essere il reale valore, il valore non astratto, su cui la società doveva fondarsi. Ma “stabilità” in ultima analisi altro non significava, e Rehberg lo sapeva bene, se non conservazione dei rapporti sociali vigenti, ovvero protezione delle gerarchie che sussistevano fra i ceti all’interno del tessuto economico e politico. 
Certo, questo importante ideologo della Restaurazione dava vita ai suoi scritti ormai oltre due secoli fa. Eppure non è forse ancora oggi il concetto di “stabilità” a contraddistinguere l’idea di democrazia che aleggia perlopiù in Occidente? È forse sul “principio razionale dell’universale libertà ed uguaglianza fra gli uomini” che si fonda, ad esempio, il nutrito disprezzo per il sistema proporzionale e l’acclamazione del sistema maggioritario, o sul concetto di “stabilità”? E ancora, è sul “principio razionale dell’universale libertà e uguaglianza fra gli uomini” che si fonda l’attuale celebrazione di quel Mario Draghi tanto amato da Renzi, da Confindustria, dalla BCE, dagli Usa, da Silvio Berlusconi e da importanti pezzi della Lega, o sul principio di “stabilità”?

Appare evidente come il concetto di “democrazia” oggi diffuso nel mondo occidentale sia sempre meno legato a un progetto di emancipazione e sempre più connesso alla salvaguardia dei rapporti di forza esistenti.
Che i grandi blocchi industriali e finanziari dicano “Draghi è stimato da tutti”, è comprensibile. I soggetti elencati sopra infatti, che costituiscono la stragrande maggioranza dell’umanità, non rientrano, secondo questi blocchi, fra quei “tutti” degni di considerazione: non appartengono a quella che per loro costituisce “la realtà umana che conta”. 
Ma che persino una certa sinistra (che pure di quella realtà in carne e ossa esclusa dal “mondo degno di attenzione”, dovrebbe costituire la prima espressione politica) ripete il mantra di quei grandi blocchi, costituisce una delle tante manifestazioni del fatto che l’Occidente nel suo complesso si trova all’interno di un processo di regressione storica di cui ancora non si riesce a vedere la fine.  

Un immane processo, cominciato nel 1989-91, che potremmo definire di una sempre più irrefrenabile “Restaurazione capitalistica”. 
È a partire da allora, non a caso, che la “democrazia” ha cominciato ad essere pensata sempre più come sinonimo di “stabilità” e sempre meno come “principio razionale di universale libertà e uguaglianza tra gli uomini”. 

Nel XIX secolo, però, a guidare il processo di Restaurazione avevamo i Metternich e gli August Rehberg, oggi abbiamo i Matteo Renzi e i Cruciani. Come diceva Karl Marx, “la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”.

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