L’onda e i rischi della fase

di Patrizio Andreoli, Segreteria Naz. e Responsabile Organizzazione PCI

Le dinamiche devastatrici della febbre capitalistica e la sfida di un’altra via

Mentre il nostro presente è ancora segnato da timori circa le dinamiche del contagio e l’applicazione di adeguate politiche a tutela della salute e della vita della popolazione, da più parti si insiste sul riavvio di rami significativi dell’economia.

Lo si fa sollecitando il Governo ad affrettarsi circa l’assunzione di provvedimenti attinenti all’apertura della cosiddetta “fase 2”, lo si fa senza troppi riguardi, esercitando una pressione frontale sui corpi sociali a partire dalle centinaia di migliaia di lavoratori impegnati nelle filiere del manifatturiero. In Toscana per esempio, Confindustria ha deciso di ammainare a mezz’asta le proprie bandiere presso la sede pratese in segno di lutto, minacciando gesti eclatanti in assenza di una rapida ripresa delle attività del comparto tessile.

Nella guerra intercapitalista, la conferma degli spazi di mercato e la certezza della collocazione del prodotto finito detta e rimodula in continuazione la scala dei valori e delle priorità producendo via via sovreccitazioni speculative, nuove urgenze, allarmi di collasso economico, prospettive di cupe contrazioni che immediatamente rinviano a licenziamenti di massa e rotture traumatiche di questo o quel segmento della filiera, a minacce circa la tenuta della produzione tout court.

Il capitalismo non è solidale.

Se talora lo è divenuto, se pur mai ovunque, è perché è stato costretto a mitigare provvisoriamente la propria natura rapace sotto la sferza della dura lezione della storia (rivoluzioni, lotte sociali, mutamento dei rapporti di forza in parti diverse del mondo) che per progressivo ammaestramento, hanno suggerito nuove strategie e convenienze finalizzate alla tenuta sostanziale e al rafforzamento del modello di vita e di produzione proposto. Il capitalismo ha da sempre ben chiaro come la battaglia economica, sia direttamente battaglia per il potere e il controllo sulla società.

Gli uomini e la difesa e tutela dei loro interessi primari, di quelli di molte altre creature e delle risorse del pianeta, sotto questa luce sono motivo secondario e relativo. Una variabile del conflitto. Da oltre un secolo e mezzo tale dinamica incessante – lo ricordiamo agli immemori- si chiama lotta di classe. Lotta tra un’altra idea di mondo e di relazioni umane, tra le spinte di emancipazione e l’asservimento alla logica del massimo profitto.

E’ vero, per contenere i danni derivanti da un eccesso di concorrenza, per sua parte ha da tempo imparato come i lupi ad agire e colpire in branco (monopoli e oligopoli); per contenere rivolgimenti e proteste diffuse o
prevenire il proporsi di una nuova stagione di scontri sociali, ha compreso che talora doveva lasciare in via essenziale sul terreno parte della ricchezza e dei beni prodotti con il lavoro di molti permettendo fette di welfare e di relativo esercizio dei diritti sociali.

Ma se la febbre sale sino a produrre fibrillazioni di sistema e le dinamiche della crisi si rivelano imprevedibili come in questo caso tempi, profondità e misura del contagio impongono mettendo in discussione flussi finanziari adeguati e certezza dei
guadagni (soprattutto quelli di carattere parassitario legati alla rendita), la battaglia si fa guerra spietata e totale.

Dinanzi ad una crisi non endemica ma globale, nel campo capitalista se un soggetto s’indebolisce non sollecita sostegno e solidarietà ma -nel contesto dato di febbre generale dei mercati- il sopravvenire feroce di un altro soggetto più capace di resistere e competere che al primo si sostituisce brutalmente sussumendone porzioni di mercato, caratteristiche e tradizioni produttive, know out e persino, se utile, opifici e maestranze altrimenti destinati alla repentina distruzione (di vite e destini, non importa il prezzo), all’espulsione e all’abbandono di ruolo e peso sociale.

Al momento, la crisi quando non il fermo verticale del settore manifatturiero nei Paesi più avanzati, ovvero della fonte sostanziale del valore di scambio destinato a determinare la ricchezza reale di un Paese o di aree economiche omogenee sovranazionali; accentua il nervosismo e trascina quella del sistema finanziario (soprattutto della parte che vive speculativamente sui margini e i derivati delle diverse crisi parziali) producendo azioni di sciacallaggio sui mercati regionali del mondo ed infine sul destino di interi popoli. Lo scontro intercapitalistico viene agito così senza esclusione di colpi.

Molti soggetti attivi del capitale europeo ed extraeuropeo saranno probabilmente destinati a tramontare e a soccombere in questa o quell’area, resuscitando di volta in volta rimodulati in via aggiornata sulla zattera del profitto. Il contagio su scala globale da Covid19, ovvero l’imponderabile, ha portato tale lotta quotidiana nel cuore del capitale, dalle sale delle Borse mondiali alla produzione e alla società, direttamente. Senza filtri. Alla fonte e radice “della ricchezza delle nazioni”, il lavoro.

Se i produttori sono impediti a produrre e i consumatori in via universale costretti all’essenziale, se non circolano più esseri umani e merci in misura sufficiente, se ciò che resta è al fine in tutta evidenza la natura -nuda- di un capitalismo non più imbellettabile da orpelli e maschere che si rivela per ciò che è a conferma del primato del mercato e del profitto sui destini e la salvezza del genere umano; il corto circuito di sistema e il disvelamento divengono un colpo ed un pericolo reali.

La forza di questo o quel soggetto o cartello di produzione capitalistico nel condizionare la politica del proprio Paese o di intere aree del mondo diviene allora decisiva. Forza politico amministrativa (banche, controllo ed accesso alle materie prime), forza manipolativa (controllo dell’informazione, condizionamento dell’opinione di massa, costruzione del senso comune), forza muscolare e all’occasione depredativa (militare).

Il “Re è nudo” forse come non mai, ma non basta sostituire i vestiti dell’imperatore se non si ha la forza di sostituire l’imperatore stesso, ovvero se l’attuale sistema di valori e di produzione non sono sfidati sul terreno del modello propostoci, da un movimento di massa in grado di reclamare un mutamento profondo, e in esso, dal soggetto in grado di dirigere la trasformazione in direzione del socialismo, imprimendole il necessario carattere sovvertitore. La Confindustria pratese minaccia la serrata del
lavoro e del pane. Alza la voce. Ci dice che sì, insomma, la difesa della salute e della vita sono importanti, ma se si va avanti così, rischia di soccombere la produzione e con Sansone rischiano di soccombere tutti.

Dopo un ventennio di deregulation, delocalizzazioni e aggressioni ai diritti, non sono accettabili prediche e richiami alla responsabilità dei lavoratori. La classe operaia nel corso della propria storia ha già dimostrato più volte di corrispondere ad una funzione di “classe generale” e “classe dirigente” in occasione di passaggi stretti che hanno segnato la vicenda nazionale. Così è stato quando si è trattato di difendere gli impianti dall’azione predatoria degli occupanti nazisti durante la seconda guerra mondiale e persino quelli derivanti dagli effetti dei bombardamenti alleati, provvedendo a mettere in salvo il salvabile.

Così è stato in occasioni di calamità significative che hanno punteggiato la storia italiana, per non parlare del decisivo contributo offerto alla tenuta democratica del Paese, più e più volte insidiata nella stagione repubblicana. Nessuna predica dunque. Nessuna richiesta di sacrifici a buon mercato! Il nodo è che non è, non deve essere possibile, accogliere una
prospettiva basata sulla contrapposizione e lo scambio tra vita e sussistenza, difesa della salute e difesa del futuro. Non l’abbiamo fatto all’ArcelorMittal di Taranto, non l’accettiamo sul terreno delle
politiche agite giorno dopo giorno a ribasso, a partire da condizioni di lavoro sempre meno tutelate, da un sistema dei controlli scandalosamente deficitario (che spesso è ciò che decide), da uno scambio che
silenziosamente s’impone nelle vie di fatto tra sicurezza, livelli e ritmi di produzione in molte, troppe filiere produttive.

Noi comunisti non dimentichiamo come, tra calcolata indifferenza e fatalismo, al netto del Covid19, in questo Paese si tolleri da anni una guerra scandalosa portata alla sicurezza e alla vita di centinaia e centinaia di operaie ed operaie, di lavoratori e lavoratrici che caduti sul lavoro, per quel pezzo di pane necessario a riscattare la propria dignità, la sera non tornano a casa.

Quando in questi giorni il Governo promette la ripresa delle attività a partire dalla “primaria tutela dei lavoratori” di che parla? Non basterà confermare il distanziamento sociale, il rientro per scaglioni di filiera, la
sanificazione degli ambienti e le mascherine; servirà molto più: un nuovo sistema di controlli, un nuovo passo di civiltà e riscatto. La determinazione ed il rigore che oggi si reclamano a proposito del superamento dell’emergenza dettata dal coronavirus, si invochino anche per andare oltre un capitalismo apparentemente compassionevole ed in verità sempre più nervoso, che recita lezioni di responsabilità e di coesione sociale inesistente, mentre pretende di accelerare la ripresa senza dar segno di passi in avanti sul terreno del contestuale garantimento di pane e tutela della salute e della vita.

Il punto è che l’emergenza sanitaria è venuta sovrapponendosi ad emergenze sociali già acute. E pur tuttavia, se la rottura di sistema che servirebbe per molti e diversi motivi non è in Europa all’ordine del giorno, non di meno lo possono e debbono essere battaglie di fronte comunque essenziali per determinare un netto spostamento in avanti della realtà, un motivo di riflessione che rinvia ad approfondimenti urgenti quanto non occasionali.

Onde potenti ed oscure di possibile massacro sociale e di recessione strutturale stanno addensandosi sull’intera platea continentale e non solo. La ripresa della produzione non può essere sganciata dalla difesa della salute ed insieme del posto di lavoro, dal rilancio di un piano generale del lavoro, da una nuova stagione di forte intervento della mano pubblica
quale leva della tenuta e della ripresa. Confindustria sgomita per riprendere la produzione… ma a quali condizioni?

L’attuale febbre del capitalismo (foriera di devastazioni più gravi della grande crisi del ’29) non può essere pagata dalle masse lavoratrici che rischiano di dover corrispondere ancora una volta – in tutti i sensi – il prezzo più alto. Serve una valutazione politica sulla tenuta di “una diga sociale di resistenza”. Ma non basterà resistere. Serve una riflessione di ordine strategico di carattere politico e non meramente sindacale circa il riposizionamento e la ripresa di una stagione di lotte sociali e popolari all’altezza della fase. In Italia e in Europa.

Una riflessione che mai come oggi non può che interrogarsi sul modello di sviluppo circa il che cosa, come e perché si produce. Tutto questo senza commettere l’errore culturale prima ancora che politico (un limite strutturale nel fare e nel pensare) della sinistra moderata. E cioè quello di ritenere lo sviluppo stesso un vettore inarrestabile al netto dei passaggi traumatici imposti in via contingente dalla storia. No.

Lo sviluppo (la cui natura andrebbe in ogni caso specificata) non è dato mai solo una volta, né per proprie virtù intrinseche è destinato a volgersi necessariamente al “bene degli uomini”, secondo una vulgata illuministica che segna tuttora parte della cultura liberaldemocratica. In tale ottica il coerente svolgimento di questa premessa è che tale vettore può essere nutrito e spinto in avanti solo dalla locomotiva di un aggiornato e “addomesticato” capitalismo. Oltre non vi è storia.

La verità è che come proprio la storia del novecento si è incaricata di dimostrare, l’idea stessa di progresso (infinito e illimitato) si è rivelata una trappola interpretativa del reale, un Titanic su cui si sono continuate a recitare “belle speranze” mentre maturavano drammi per l’umanità. Lo sviluppo non è un’astrazione intellettuale ma rimanda concretamente a scelte di merito che segnalano opzioni per o contro il genere umano, valori, ideologie di riferimento.

Fabbricare (sviluppare) ospedali non è la stessa cosa che fabbricare (sviluppare) aerei da guerra. Lo sviluppo, non solo può interrompersi ma involvere per lunghi periodi e volgersi in barbarie come guerre e fascismo, nuovi nazionalismi populistici e autoritarismi hanno tragicamente dimostrato. Le società possono non solo progredire ma anche collassare travolgendo insieme al peggio ed al vecchio ordine di cose anche conquiste e diritti, spazi di emancipazione duramente strappati alla
conservazione, combattuti e sofferti. Il rischio che stiamo vivendo è altissimo. Mai come oggi, potrebbe davvero rivelarsi attuale l’espressione “socialismo o barbarie”.

Noi abbiamo il dovere – per nostra parte ed in sinergia con la riflessione critica degli altri Partiti Comunisti europei, delle forze operaie e democratiche che guardano all’alternativa socialista – di rilanciare e dimostrare che vi è un’altra via, una via politica (e non la mera evocazione del “sol dell’avvenire”) di salvezza e di futuro.

Un’idea di socialismo buono ed utile per il terzo millennio.

Una sfida tutta in salita non propagandistica ma per intero di ordine programmatico.

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