Il rivoluzionario che ‘non è mai morto’

di Patrizio Andreoli, Segretario Regionale del PCI Toscana

 Quando il 9 ottobre 1967 Ernesto Guevara (il “Che”) muore in un’azione di guerriglia a La Higuera in Bolivia, nessuno ancora immagina come a distanza di poche settimane egli diverrà una delle più potenti e durature icone politiche del novecento e non solo. Dopo un’iniziale incertezza circa la veridicità dei fatti, alla fine Fidel -con un lungo discorso al Paese- si decide ad annunciare al mondo con tono accorato la scomparsa del compagno di battaglie, di speranze, di riflessioni sulla vita, la libertà il futuro di Cuba e di tutti i popoli in guerra contro l’imperialismo. Sono gli anni delle lotte in Asia ed in Africa per affrancarsi dal colonialismo, lo sfruttamento selvaggio delle risorse, una servitù secolare. Negli Stati Uniti l’obiezione civile e la protesta contro la guerra in Viet-Nam diviene ribellione nei campus e nelle università, spostandosi nei quartieri poveri di Harlem e nel profondo Sud dove si salda alla richiesta antirazzista.

Da est ad ovest, un vento nuovo spira nel mondo mettendo in discussione rapporti sociali, gerarchie ed equilibri di potere, valori e relazioni interpersonali, il corpo e il sesso, lo studio, il perché e il per che cosa si produce e lavora. Ovunque si “mangia” pane e politica. Nei Circoli ricreativi e nel tessuto associativo e democratico, nei luoghi di studio e di lavoro, il dibattito politico assume una coralità mai vista, mentre la spinta giovannea apre il mondo cattolico (soprattutto in Italia) ad un dialogo impegnativo ed inedito tra credenti e non.

Fermenti, voglia di esserci e di vivere, la sensazione di toccare con mano il cambiamento (comprese la generosità e le molte illusioni che al momento lo sorreggeranno), permeano l’entrata sulla scena di una generazione nuova a cui si accompagnano le istanze di emancipazione e libertà che toccano popoli lontani. In breve il mondo diviene (…sì,anche senza internet!) formidabilmente più piccolo. Si è curiosi, si scopre la militanza e la partecipazione attiva come dato sostanziale della democrazia, si connette la memoria dell’Antifascismo e della Resistenza alle lotte sociali ed operaie del presente. Si reclama una nuova dignità. Insomma è già il ’68 (e poi le grandi lotte operaie del ’69) che per primo si appropria ed amplifica nelle piazze il volto del Che, riprodotto mille e mille volte a partire dalla bella fotografia di Alberto Korda (1960): una a sorta di moderno Cristo col basco. Un martire trucidato (il dato d’altronde è tragicamente vero) dall’oppressione capitalistica e dal vecchio mondo, la cui figura per una potente mimesis, ogni essere umano ovunque in lotta fa propria.

E’ un Che con lo sguardo oltre il presente che pare guardare l’orizzonte del domani, della rivoluzione e del socialismo; quasi a dire -per citare l’apertura dei “Quaderni” di Gramsci- che ciò in cui crede, ciò per cui si batte, vale “für ewig” (per sempre). Il Che col basco e la stella (altro topos che diverrà universale). Di Guevara si stampano le opere e il celebre Diario, si redigono libriccini di pensieri e detti, si sintetizzano e ripetono modi di dire e parole d’ordine. La sua figura è fresca, sorretta dall’esempio e dal gesto rivoluzionario testimoniato con una coerenza che ha preteso l’estremo sacrificio della vita. E’ la sintesi di passione e riflessione politica sulla trasformazione. E’ l’uomo che non ha atteso “le circostanze favorevoli”, non ha tessuto sottili tatticismi, ma si è speso e messo in gioco in campo aperto, ponendo in discussione a partire da sé, il mondo in cui viveva. Insomma, suo malgrado (lui che aborriva incarichi, gradi e pennacchi, prebende ed appannaggi personali) è un eroe vero, popolare. Popolare nel senso profondo ed autentico del termine; tra le fasce colte e tra i proletari ed illetterati. E’ la sintesi del riscatto possibile e del cambiamento necessario.

Naturalmente, come tutte le icone autentiche, se ne è tentato a più riprese anche il depotenziamento (interessato) e l’aggressione; straziato com’è stato da mille varianti e tentativi di normalizzazione (commerciali e pubblicitari). Pure, nonostante la grevità ed indecenza di alcuni abusi ed accostamenti che nei decenni (e soprattutto ai nostri giorni, in epoca di demolizione di tutto ciò che attiene all’ esperienza comunista ed antimperialista) la sua memoria ed il suo pensiero hanno dovuto subire;  Ernesto Che Guevara “non è mai morto”.

Né, d’altronde, la stessa ricorrente valorizzazione esercitata positivamente a Cuba e nei Paesi latino americani in primis, sono riusciti ad imbalsamarne la figura, costringendolo nel semplice ruolo di padre nobile della patria e della rivoluzione. Come tutti i grandi rivoluzionari e riformatori profondi, in verità il suo pensiero ed il suo esempio appartengono al mondo, alle genti; ai popoli ovunque ed in ogni epoca impegnati nell’opera di riscatto e di emancipazione. Egli mantiene così, una sua naturale alterità, un tratto giovane e sovversivo che si rinnova, non addomesticabile dalle mode e dalle congiunture culturali. Uno dei suoi più celebri aforismi recita: “Siamo realisti, pretendiamo l’impossibile!” Nel sommare realismo ed utopia, fatica della lotta e non resa (mai!),  sta la sua non scalfibile grandezza ed attualità. D’altro canto, per dirla con Castro: “nessun vero rivoluzionario (e lui lo è stato) muore invano”. E’ così vero, che per l’appunto ancor’oggi vive nella coscienza di milioni. (12 ottobre 2017)

 

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