NUOVE CRISI IN MEDIO ORIENTE E QUESTIONE PALESTINESE

a cura di Juri Carlucci – Dipartimento esteri PCI        

Per approfondire la questione palestinese e le nuove crisi che destabilizzano il Medio Oriente, incontriamo il compagno Bassam Saleh’, giornalista, comunista, Segretario di Al-Fatah Italia.

Roma, 21 febbraio 2018

Bassam, partiamo dalla vostra politica interna. Fatah e Hamas hanno ristabilito relazioni buone volte alla riconciliazione e riaperto un dialogo da alcuni mesi. Come stanno le cose?

La questione più importante in questo momento per i palestinesi è la questione della riconciliazione nazionale. Dopo la presa di potere con la forza del 2007 di Hamas a Gaza si è parlato molto delle divisioni che intercorrono tra i vari partiti e movimenti palestinesi e tra i governi della Cisgiordania e di Gaza oscurando però un fatto importante, ovvero che tutti i palestinesi combattono per una sola causa. La divisione iniziata nel luglio 2007 parte da due programmi politici divergenti: Fatah è un movimento di liberazione nazionale, che fa parte del movimento di liberazione araba, è un anello nella catena di emancipazione e liberazione mondiale. Ha una idea patriottica dello Stato, che fa parte della nazione araba. Così Fatah, dal 1965 e poi l’OLP, negli anni, ha mantenuto questa impostazione. Nel 1987 con l’inizio della prima Intifada, Hamas cambiò natura, da associazione caritatevole divenne movimento di resistenza islamica, la costola islamica palestinese della fratellanza islamica mondiale. Per Hamas, la Palestina è una parte di una grande nazione islamica in netto contrasto con chi vede la Palestina come una nazione laica e democratica dove tutti possono vivere insieme. Poi negli anni vi sono state tornate elettorali e le posizioni politiche si sono divaricate. Hamas ha rifiutato di partecipare alle prime elezioni politiche del 1996, con il pretesto che esse erano il prodotto degli accordi di Oslo, sui quali Hamas aveva dichiarato la sua contrarietà. Ma accettò le elezioni del 2006 e vinse la maggioranza dei seggi nel consiglio legislativo palestinese e cosi Hamas è stata chiamata a formare il suo primo governo. La comunità internazionale non ha dato, a questo punto, un aiuto alla Palestina, facendo terra bruciata nei confronti dei ministri di Hamas che non potevano ne viaggiare ne essere ricevuti. Nel 2007 Hamas prendi il potere, con la forza delle armi, ed ha il totale controllo della Striscia di Gaza. Da quell’anno ad oggi si sono tenuti tantissimi incontri fra Fateh e Hamas per mettere fine a questo divisione, fino all’accordo raggiunto al Cairo nel 2011. Gli incontri fra le due parte, di questi ultimi mesi, sono per l’attuazione di quell’accordo, cioè, che il governo attuale della concordia nazionale formatosi in accordo con Hamas debba esercitare a pieno il suo potere anche a Gaza come in Cisgiordania. Quindi un solo governo, che controlla tutti gli apparati di sicurezza. Gli incontri per l’attuazione sono rallentati, per qualche ostacolo posto da Hamas, su alcuni punti, ma piano piano si troverà una soluzione. Noi di Fatah siamo determinati ad andare avanti fino al raggiungimento della riconciliazione, per arrivare alle elezioni legislative e presidenziali, per potere arrivare alle elezioni del consiglio nazionale palestinese che è il parlamento dell’OLP che rappresenta l’intero popolo palestinese. Non possiamo e non vogliamo fare elezioni solo in Cisgiordania perché questa significa aggravare la divisione.

Gaza rimane isolata, simile ad una immensa galera a cielo aperto. Le condizioni del popolo inumane. Vedi una va d’uscita?

Sicuramente c’è una via d’uscita. Da anni l’embargo israeliano ha reso la vita inumana a Gaza, sotto ogni aspetto. Le condizioni sono difficilissime per le popolazioni che là risiedono. La soluzione mi appare semplice: Gaza deve tornare a far parte della Palestina, dell’unità territoriale palestinese. ANP e Fatah stanno lavorando in questa direzione. Sappiamo che la situazione economica e ambientale è insopportabile. Il valico di Rafah con l’Egitto deve essere aperto sempre, come devono esserlo tutti i valichi per la Cisgiordania. Là, a Gaza, vi sono problemi che troviamo nel resto del mondo come inquinamento e disoccupazione, crisi economica, etc., ma Gaza è isolata e la popolazione non ha scelta. Hamas si sta opponendo nei fatti alla riunificazione col resto della Palestina, ad esempio assumendo 40.000 nuovi dipendenti. Assurdo! ANP spende il 50% del PIL per Gaza. Medicinali, carburante, cibo insomma tutto arriva grazie alla Autorità Nazionale. ANP deve assumersi non solo gli oneri ma anche esercitare il potere di governo pieno anche a Gaza. Hamas è divisa al suo interno su questo punto, che ovviamente non è l’unico punto divisivo: una parte è conciliante e una parte si oppone duramente; ma ricordiamolo: Gaza non è solo un problema inter-palestinese, vi sono tanti altri attori, USA, Israele, Qatar, Turchia, l’Egitto che stanno dentro questa problematica. Senza la soluzione di Gaza non si avranno mai nuove elezioni e accordi di governo.

Il presidente palestinese Abu Mazen, dopo le dichiarazioni su Gerusalemme di Trump, ha chiesto, a livello internazionale, un cambio di strategia per continuare il processo di pace. In cosa consiste?

Semplicemente, d’ora in poi vogliamo che gli Stati Uniti non potranno più esercitare l’egemonia nelle trattative nel processo di pace. Abbiamo visto negli ultimi 24 anni quali sono stati gli effetti di questo sbilanciamento verso Israele. Chi è arbitro non può parteggiare per un contendente. Sapevamo certo come stavano le cose da tempo, ma ora Trump ha voluto*, con il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, Gerusalemme come capitale eterna di Israele. Per noi e per il mondo, come si è visto, è inaccettabile tutto ciò, in spregio delle Risoluzioni ONU e del consiglio di sicurezza che gli stessi USA hanno appoggiato e votato dal 1947. Vogliamo, ora, altri partner, oltre gli Stati Uniti, per sederci al tavolo delle future trattative. Dunque si siedano con noi la Cina, la Russia, l’Unione europea, ed altri Paesi dell’ONU. In altri parole un vertice internazionale per la pace basato sulla legalità internazionale, che possa comprendere anche i membri del Consigli di Sicurezza e altri.

L’Unione europea non riconosce ancora lo Stato di Palestina. Il Vaticano si. Papa Francesco è intervenuto in modo perentorio a favore del rispetto dello status quo di Gerusalemme. Pensi che una conferenza delle fedi cristiane presso la Santa Sede possa favorire il dibattito e distendere gli animi dei contendenti?

Ti rispondo prima sulla Unione europea. Non penso possa esserci un riconoscimento della Palestina dall’Unione tutta insieme ma vedo un passaggio, stato per stato. Certo la contraddizione è enorme per gli Stati europei che all’ONU votarono a favore dello status della Palestina quale Stato osservatore non membro. Ma tant’è. Il Vaticano, dal canto suo, riconoscendo ufficialmente lo Stato di Palestina sta aiutando il processo di pace e il nostro governo si è incontrato recentemente con la Curia a Roma per avanzare proposte in merito. Pensiamo che la Santa Sede possa essere attore nei negoziati di pace ed i gesti di distensione come quello auspicato su Gerusalemme dal pontefice vanno in questa direzione. Mi preme, infine, denunciare le criminali imposte che Israele sta avanzando verso le chiese palestinesi, sempre più esose ed insensate.

Israele, in spregio di tutte le risoluzioni approvate dalle Nazioni Unite, spalleggiata dagli Stati Uniti, continua con il suo disegno colonialista in terra di Palestina. Due popoli per due stati con Gerusalemme est capitale palestinese resta l’orizzonte politico per Fatah o siamo ai titoli di coda?

Il progetto sionista da più di cento anni non prevede che esista il popolo palestinese. Ancora oggi continua la politica della pulizia etnica dei palestinesi sia in Cisgiordania che nei “Territori del ’48” dove Israele pratica una politica di apartheid contro gli arabi palestinesi, cittadini israeliani. Aumentare e allargare le colonie là dove già persistono, in Cisgiordania, di questo si tratta. Tutto ciò che sta facendo Israele nei Territori è illegale secondo le Risoluzioni dell’ONU, la Convenzione di Ginevra e il diritto internazionale. Ribadiamo che il nostro Stato, lo Stato di Palestina, è qui, e che le nostre terre sono occupate illegalmente da Israele. I palestinesi non potranno essere sradicati da nessuno solo perché da settant’anni vivono sotto altrui dominio. Settanta anni sono una goccia nel mare della storia. La Nakba, il cataclisma del 1948, non si ripeterà mai più. Il presidente Abu Mazen al Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha ribadito “Noi vogliamo il nostro Stato”, che è riconosciuto sin dal 1947. Ora la questione israelo-palestinese non è più solo un problema nostro ma una questione internazionale, che mette a rischio, se non risolta, la pace nel mondo.

Questa lunghissima guerra civile in Siria, creata ad arte dalle potenze imperialiste per impadronirsi, con Damasco, delle risorse naturali siriane, può aver danneggiato il processo di pace israelo-palestinese?

Qualsiasi ingerenza nei paesi arabi o nei paesi limitrofi alla Palestina influisce negativamente sul processo di pace. Se la Siria fosse rimasto un paese integro per noi palestinesi sarebbe stato molto meglio. La Siria è il polmone della Palestina. E conosco bene le nostre divergenze su alcuni temi con i governi siriani, ma so anche bene che la Siria è da sempre dalla nostra parte. Noi non accettiamo nessuna ingerenza nei paesi arabi. Se i siriani vogliono cambiare la loro leadership possono farlo in modo autonomo. Americani e fratellanza mussulmana cosa c’entrano? Noi palestinesi non giudichiamo le alleanze della Siria. Resta dirimente che la Siria tenti di liberare le alture del Golan occupate illegalmente da Israele e che stia vicina al popolo palestinese nel suo processo di emancipazione e liberazione. Come dimenticare che la guerra in Siria ha distrutto anche dei campi profughi palestinesi? Yarmouk, un campo con un milione di profughi, di cui 300 mila palestinesi, fuggiti verso Libano, sfollati in Siria e ora profughi nel resto del mondo. Il progetto sionista, di cui parlavo precedentemente, prevede proprio questo, distruggere tre paesi: Egitto, Iraq e appunto la Siria. L’Egitto l’hanno fatto fuori nel 1979 con gli accordi di pace con Israele, l’Iraq l’hanno distrutto pezzo a pezzo negli ultimi 25 anni e ora tentano di annientare la Siria. Sono orgoglioso che il governo siriano stia resistendo con tenacia.

In queste ore la Turchia di Erdogan è entrata con i bombardieri nel nord della Siria a caccia di curdi. Siamo ad una escalation a quanto pare. Lo stesso Erdogan aveva stigmatizzato le decisioni americane su Gerusalemme, ” La linea rossa da non oltrepassare”, disse. Qual è, a tuo avviso, il vero ruolo della Turchia in Medio Oriente oggi?

La Turchia sta cercando di avere un ruolo di guida in Medio Oriente in particolare sulle questioni aperte: Siria, Libano, Palestina… Erdogan è stato colui che ha convocato a Istanbul lo scorso dicembre il Vertice dei Paesi islamici appena saputo delle decisioni di Trump su Gerusalemme, Vertice che ha ribadito che Gerusalemme est è la capitale palestinese. Questa capacità dimostrata dalla Turchia ci incoraggia e incoraggia in generale i mussulmani. Ciò che ci piace meno sono le ingerenze di Ankara in Siria e gli stretti rapporti con Israele. Soffriamo anche del fatto che, pur avendo ANP ottimi rapporti con la Turchia, e sincera cooperazione diplomatica, troviamo non edificante il rapporto separato e privilegiato tra questa ed Hamas.

Puntiamo la lente sul Libano. Là dimora Hezbollah, nemico giurato di Israele, ma vi sono anche i campi profughi tra i quali quelli di Sabra e Chatila. Tu li hai visitati di recente. Che situazione hai trovato? Il diritto al ritorno dei profughi rimane un miraggio?

Come “Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila”, grazie al compianto giornalista Stefano Chiarini, che dal 2000 ha iniziato questa visita annuale in Libano, e al nostro fratello e compagno Maurizio Musolino che ha continuato questo importante lavoro politico e culturale sino alla fine, noi continuiamo ad andare in visita ai campi profughi palestinesi. Un campo profughi è la materializzazione del diritto al ritorno. Sicuramente in nessuna parte del mondo un profugo palestinese vive una simile sofferenza come in Libano. Qui resistono in condizioni estenuanti 400 mila palestinesi della diaspora divisi in dodici campi profughi sparsi su tutto il territorio libanese. Chi vive nei campi non può esercitare quasi nessuna professione, dunque o disoccupazione o lavoro illegale. Una imposizione del governo libanese che si sta ammorbidendo solo ora che Hezbollah partecipa all’esecutivo. Il governo del paese dei cedri è per il diritto al ritorno dei palestinesi in patria così come sancito dall’ONU nel 1948 ma non va oltre questo riconoscimento. Dopo settanta anni chi vive nei campi profughi nutre ancora la speranza di tornare nella propria terra d’origine ed insegna alle nuove generazioni che questa si chiama Palestina.

A fianco del popolo palestinese, in tutto il mondo, vi è una grande solidarietà e una comunità di movimenti maturi che sostengono la lotta attraverso delle campagne internazionali. Puoi illustrarcene alcune delle più importanti?

Diverse sono le campagne internazionali. Ricordo quella iniziata nel 2011 per il riconoscimento dello Stato di Palestina, che ha avuto un grande successo, con milioni di firme raccolte a livello mondiale e 138 Paesi che hanno riconosciuto lo Stato di Palestina. Da anni poi, c’è una campagna pacifica di boicottaggio dei prodotti israeliani, la BDS, Boicotaggio-Disinvestimento-Sanzioni, avversata da Israele addirittura per legge con rischio di arresto per gli attivisti che vi lavorano. Si tratta di esercitare un diritto e di chiedere ad altri e altre di fare lo stesso, non acquistando, ad esempio, un prodotto di qualsiasi tipo proveniente da Israele o che veda Israele impegnato nella produzione, commercializzazione ed esportazione. Un’altra campagna importante è quella a favore della liberazione dei prigionieri politici palestinesi. Nelle galere israeliane purtroppo ci sono 300 ragazzi palestinesi giovanissimi sotto i 16 anni. Un’altra campagna sta cercando di far riaprire Shuhada street ad Hebron, una volta grande viale del mercato della terza città palestinese, ora in parte chiusa e quasi abbandonata per via di una colonia israeliana là installatasi.

* l’intervista è stata rilasciata prima che si conoscesse la data (14 maggio p.v.), imposta dagli USA per il trasloco della Ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme.

 

 

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *