Celebriamo oggi, qui ad Orvieto, il nostro primo congresso. Sono trascorsi due anni dall’Assemblea Costituente svoltasi a San Lazzaro di Savena ( Bologna).
Con essa, al termine di un lungo percorso, che prese il via da uno specifico appello, tante e tanti, con diverse storie politiche alle spalle, consapevoli delle difficoltà oggettive presenti, dei propri limiti oggettivi, decisero di rimettere in campo, di ricostruire il PCI.
Alla base di questo primo congresso abbiamo posto un documento politico, frutto di un lavoro collettivo, come è nostro costume, che abbiamo sottoposto ad un’ampia ed articolata discussione nei congressi di sezione, provinciali e regionali tenutisi nelle diverse aree del Paese, coinvolgenti un numero rilevante di compagne e di compagni.
Siamo chiamati a misurarci con quanto accaduto in questo lasso di tempo, a trarre un bilancio della nostra esperienza, ad affrontare, con spirito critico ed autocritico, i diversi nodi che si sono via via evidenziati, sia sul piano politico che su quello organizzativo-gestionale, a decidere. Il fine è quello di rendere l’azione del Partito sempre più incisiva, in grado di misurarsi con il tanto di nuovo che è in essere, che si prospetta.
Sono certo che attraverso l’impegno di tutte e tutti, con questo congresso, si determineranno le condizioni per un ulteriore passo nella direzione assunta, che è e non può che essere quella della ricostruzione del Partito Comunista Italiano. Questa e non altre è la ragione per la quale siamo in campo.
La nostra non è una scelta antistorica, come più d’uno afferma. Essa, al contrario, è quantomai attuale, è dettata dal cosa accade, dal perché accade, si misura con la storia, con la sua dialettica, che crea incessantemente nuove contraddizioni e nuovi conflitti.
Tanto al riguardo ci ha insegnato il compianto compagno Domenico Losurdo, sul cui pensiero, a Settembre, promuoveremo come Partito uno specifico convegno, e ci adopereremo successivamente affinché tale patrimonio non vada disperso ma valorizzato.
Noi sottolineiamo l’attualità del socialismo e la prospettiva del comunismo a fronte della realtà che è sotto gli occhi di tutti dopo più di un quarto di secolo dal crollo del cosiddetto “ socialismo reale”, le cui ragioni ci sono note.
Accompagniamo la critica al sistema capitalista con la proposta di un’altra organizzazione sociale ed economica. Non lo facciamo con la testa rivolta al passato, guardiamo al mondo d’oggi, consapevoli delle esperienze accumulate dal movimento comunista internazionale e dai paesi socialisti nel corso del novecento, traendone insegnamenti, guardando in ogni caso a quelle vicende in una prospettiva storica, come parte di un processo di apprendimento.
Da poco abbiamo celebrato il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, un evento che ha influenzato il corso della storia come mai prima era accaduto.
Propugniamo un’alternativa di sistema, non ci basta un’alternativa di governo, siamo comunisti, non ci basta essere antiliberisti, anticapitalisti.
Tocchiamo con mano che non siamo soli nel fare ciò, tutt’altro, come testimonia il consolidarsi, il riproporsi in tanta parte del mondo di partiti comunisti (diversi dei quali sono oggi qui presenti, e di questo sentitamente li ringraziamo) come testimonia la ricerca di vie nuove volte ad affermare gli ideali del socialismo (ad esempio le esperienze di Cuba, del Vietnam, della Cina, della Corea del Nord, alle quali guardiamo con grande attenzione).
Non è più tempo, per ovvie ragioni, di uno Stato guida, di un partito guida, è però tempo di rilanciare, in forme e modi adeguati, l’internazionalismo. Avanziamo quindi la proposta di strutturare sempre più e meglio i rapporti tra i diversi partiti comunisti. Se guardiamo all’Europa, ad esempio, non possiamo non cogliere il fatto che il capitale transnazionale europeo marcia compatto, mentre i comunisti no. Pensiamo sia opportuno promuovere in autunno un incontro tra essi finalizzato all’unità d’azione.
La promessa di pace, democrazia, prosperità per l’intera umanità, che aveva portato più d’uno, anche nella sinistra di orientamento libertario e radical-democratico, a propagandare la “fine della storia”, “l’immutabilità del sistema”, all’insegna di un capitalismo propostosi come trionfante, si è largamente tradotta nel suo opposto.
Il capitale ha promesso la pace ma la situazione internazionale è sempre più preoccupante. Gli equilibri geopolitici conosciuti sono saltati, le politiche neo colonialiste, neo imperialiste, sono sempre più evidenti, marcate.
L’unilateralismo degli USA, rivendicato, praticato, che con l’elezione di Trump ha subito un’ulteriore accelerazione, esprime una politica estera sempre più aggressiva, condizionata dal complesso industriale militare, che oggi è addirittura largamente rappresentato nel governo. Gli USA ed i loro alleati hanno da tempo gettato la maschera.
Non è la volontà di pace che li muove, ma il loro porsi quali gendarmi del mondo, disposti a sacrificare per i loro interessi, per l’interesse del capitale, la vita dei civili, il destino di interi paesi. Le guerre in Jugoslavia, in Afghanistan, in Iraq, in Libia, oggi in Siria, per citare le più note, dicono tanto al riguardo. Così come i processi di destabilizzazione mascherati da “primavera araba”, il cosiddetto “terrorismo di matrice islamica”, da Al Queda all’Isis ( mostri sfuggiti di mano, per dirla con Hilary Clinton) che si evidenzia come un dramma speculare all’imperialismo. Tanto dicono al riguardo l’irrisolta e sempre più drammatica questione palestinese, che registra un ulteriore aggravamento a seguito della scelta degli USA di spostare la propria ambasciata in Israele a Gerusalemme, altra benzina sul fuoco, di appoggiare apertamente la politica aggressiva di quello stato in chiave anti iraniana. Tanto dice la messa in discussione, più o meno violenta, degli assetti democratici recentemente affermatisi in tanta parte del centro e del sud America, e l’elenco potrebbe continuare.
E’ pienamente parte di tale processo, di una tendenza alla guerra sempre più pericolosa, il ruolo assunto dalla NATO, il suo espandersi ad est, la pressante richiesta americana agli alleati di un incremento delle spese militari ( per l’Italia da 80 a 100 milioni di Euro al giorno). La NATO non ha più, semmai l’ha avuta, una funzione difensiva, oggi essa evidenzia una natura sempre più aggressiva, si connota con l’essere sempre più il “braccio armato” di una dimensione euro atlantica a guida statunitense, un’alleanza politica, economica, militare di chiara matrice liberista. La NATO non è la soluzione, è il problema. Disseminando di sue basi tanta parte dell’Europa, del mondo, porta con sé il rischio di una nuova guerra europea, di una nuova guerra mondiale. I suoi vertici evidenziano che la stessa deve guardare oltre i propri confini, gestire le crisi in atto, aiutare i suoi partner; altro che la difesa collettiva!
Noi diciamo no alla guerra perché siamo comunisti, perché ci riconosciamo nell’articolo 11 della Costituzione. Ciò che è accaduto, che sta accadendo, ossia l’Italia sempre più impegnata in tanti teatri di guerra, sovente nascondendosi dietro presunte “missioni di pace”, più o meno legittimate dall’ONU, sempre più residuale, sempre più piegato alla logica di parte imperante, ne costituisce la negazione, pone la questione dello scarto tra Costituzione formale e Costituzione sostanziale.
Noi diciamo no alla NATO, diciamo fuori l’Italia dalla NATO, e tante sono le iniziative che abbiamo promosso al riguardo in tanta parte del Paese, perché siamo per una politica di pace, per un mondo multipolare. Anche per questa ragione abbiamo giudicato e giudichiamo positivamente l’affermarsi sulla scena di altri paesi oltre la triade USA, Giappone, Unione Europea, imperniato sui BRICS ( Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). Un processo che fa ben sperare, unitamente ad altre esperienze, in altra parte del mondo, in quanto si tratta di un insieme dichiaratamente votato alla pace, alla giustizia sociale, che si propone come alternativa alle politiche neo imperialiste presenti, conosciute.
Il capitale ha promesso democrazia, ma le istituzioni, ai diversi livelli, sono state piegate agli interessi di parte, i processi decisionali si sono progressivamente spostati verso la finanza, i mercati, svuotando sovranità e democrazia di stati nazionali e di organizzazioni internazionali (emblematico, ancora una volta, il caso dell’ONU).
La democrazia partecipata è venuta sempre meno, sostituita da un simulacro, delegata ad una cerchia sempre più ristretta, ad una persona, al demiurgo di turno. Si è affermato un ordinamento basato sul decisionismo, in ossequio alla centralità del mercato, della governabilità. Emblematico è il processo che ha investito l’Unione Europea, che non ha portato all’Europa unita, dei lavoratori e dei popoli, all’Europa sociale, bensì ad un Europa preda della finanza.
I trattati europei hanno creato una struttura sovranazionale che consegna i poteri decisionali alla Commissione Europea, alla Banca Centrale ( un’ente di diritto privato). Essa, come sottolineammo a Bologna due anni fa, è andata configurandosi sempre più come un processo che sul piano interno è fondato sulla moneta unica, sul neo liberismo e sul modello mercantilistico tedesco ( centrato sulla deflazione salariale come leva per il recupero di competitività) , mentre sul piano esterno si basa sul crescente militarismo e su una politica estera interventista ed aggressiva ( emblematica la vicenda del golpe in Ucraina e delle sanzioni alla Russia) subordinata agli USA.
E’ un dato di fatto che il processo di costruzione dell’Unione Europea, del quale l’Euro è il collante, ha comportato sempre più la perdita di sovranità, la sottrazione di democrazia ai popoli ed ai legittimi parlamenti.
E’ un dato di fatto che in conseguenza di tale processo, affermatosi all’insegna del liberismo, dell’austerità, dei tecnocrati, si è assistito nel tempo ad un gigantesco processo di privatizzazioni, alla distruzione delle capacità produttive dei paesi periferici (Italia in primis) ed al grido “ce lo chiede l’Europa” ad un attacco senza precedenti a quel complesso di diritti ( ad es. lavoro e welfare) che dell’Europa un tempo costituivano un tratto distintivo, in gran parte necessitato dall’alternativa rappresentata dal blocco socialista in essere. Tale situazione, acuita dalla crisi, dalla sua gestione, dall’aumento della disoccupazione, soprattutto giovanile, dalla precarietà, ha determinato quella che ormai tutti riconoscono essere la crisi dell’Unione Europea, fortemente scossa, a rischio tenuta.
Nonostante ciò l’orientamento generale che ispira la UE non è cambiato, non cambia. Si discute al più di qualche flessibilità sui vincoli al bilancio pubblico dei singoli paesi membri, a partire dall’Italia, ma assolutamente entro il quadro di compatibilità dato; si dichiarano possibili determinati aiuti finanziari temporanei purché ad essi corrispondano “riforme strutturali”. Una ricetta già nota, della quale ha fatto le spese il popolo greco. I segnali di ripresa che si registrano in Europa, limitati, contraddittori, disomogenei, non sono destinati ad invertire la situazione data, la politica in essere. Il punto è come rapportarsi all’Unione Europea, come affrontarne la crisi.
La nostra posizione, la posizione del PCI, è nota: siamo contro questa Europa, siamo per un’altra Europa! Non ci convince la tesi “serve più Europa”, ossia il rafforzamento del processo di integrazione in atto, il trasferimento di “altri pezzi” di sovranità nazionale. No, non è questo che serve. Il punto non è quanta Europa, ma quale Europa: quale progetto sociale, quali direttrici economiche ed internazionali, quale progetto di società.
E’ cresciuta, e tanto, a livello di massa, la convinzione che sulla base dei trattati che la sorreggono non sussistano le condizioni per politiche alternative, per una profonda trasformazione dell’Unione Europea. La sua irriformabilità è più di un dubbio. Tanto ha insegnato al riguardo, ancora una volta, la vicenda della Grecia, pur sorretta da un chiaro pronunciamento popolare, tanto rappresenta la Brexit.
Nelle nostre tesi diamo conto del consolidarsi di un fronte anti UE, ad esempio in Francia ove France Insoumise, il rassemblement che a sinistra si è raccolto attorno a Jean-Luc Melénchon ( quasi il 20% alle ultime presidenziali) ha posto in cima al suo programma un duro giudizio sull’Unione Europea e la sua moneta unica, prefigurando un percorso articolato in due tappe.
La prima attiene ad un insieme di proposte per cambiarne radicalmente il volto, improntato al superamento del Patto di Stabilità e dei precetti contenuti nei trattati, all’abbandono degli orientamenti neo liberisti in materia di politiche fiscali e sociali, la seconda, quale extrema ratio, attiene ad un piano alternativo per uscirne. In Italia sono state presentate presso la Corte di Cassazione due proposte di legge costituzionale di iniziativa popolare, con le quali si chiede la possibilità di celebrare altrettanti referendum consultivi o di indirizzo: l’uno in merito all’adesione o meno dell’Italia ai trattati europei, l’altro per la riscrittura dell’articolo 81 della Costituzione inerente l’obbligo del pareggio di bilancio.
Oltre al PCI, presentatori della prima proposta sono soggetti componenti la Piattaforma Eurostop, tra i quali l’USB, la Rete dei Comunisti, Risorgimento Socialista, mentre la seconda è stata presentata dai giuristi del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale. O l’Unione Europea cambia o si chiude!
Per noi comunisti nessuna chiusura autarchica, nazionalista. Questa la lasciamo alla destra, marcatamente presente in Europa, in Italia, la lasciamo alla Lega di Matteo Salvini.
Noi comunisti, lo sottolineammo già a Bologna, siamo per una cooperazione pan europea tra stati sovrani, per lo sviluppo delle forze produttive dell’Italia, in cui si affermi un forte ruolo progressivo dello stato in economia, si sviluppi una forte lotta per affermare i diritti sociali e politici dei lavoratori, per respingere l’attacco alla democrazia ed alla Costituzione.
Per noi la difesa della sovranità nazionale va intesa essenzialmente nel quadro del perseguimento di un sistema economico e produttivo più giusto e più equo, in un quadro di solidarietà e cooperazione internazionale per la costruzione di azioni conseguenti e lotte comuni con altri popoli e paesi in vista di un progresso sociale e civile.
Pensiamo alla costruzione di una fase di cooperazione economica, politica e valutaria tra stati sovrani, a rapporti stretti tra tutte le forze della regione pan-europea e mediterranea, che ripudino la guerra, si autonomizzino dalla NATO e si aprano alla collaborazione con i BRICS, con gli altri paesi.
Nessuna confusione è quindi possibile, fuori da una logica strumentale, tra le posizioni in campo, tra le stesse declinazioni di nazione, che può essere intesa in termini reazionari o progressivi, come la storia insegna. Il punto è, come evidenziava Lenin, se l’aspetto nazionale è un fattore di promozione o di disgregazione degli interessi della classe operaia.
Il capitalismo ha promesso prosperità, ma da oltre un decennio si misura con la propria crisi, deflagrata nel 2007, una crisi che viene da lontano.
Al ventennio di crescita post seconda guerra mondiale, infatti, ha fatto seguito una progressiva caduta del saggio tendenziale di profitto, evidenziata dalla sovrapproduzione di capitali e di merci: un accumulo di capitale che non riesce a valorizzarsi nei processi produttivi, un accumulo di merci che restano invendute, soprattutto a causa della limitata e decrescente capacità di spesa della gran parte della popolazione.
Tanti i dati disponibili a conferma di tale processo.
Conosciamo la risposta del capitale: la finanza. Con essa si è cercato di rispondere al rallentamento della produttività, al decremento delle retribuzioni, all’impennarsi della disoccupazione. Con quali risultati è noto. Non siamo di fronte ad una crisi congiunturale, come tante volte è accaduto. Del resto, come abbiamo sottolineato nelle tesi, il capitale, per sua natura, produce sviluppo e crisi; la crisi è di fatto non una patologia, ma la fisiologia stessa del sistema. Siamo di fronte ad un sistema che per svilupparsi deve distruggere ciò che costruisce. Il capitalismo è riuscito finora ad uscire da ogni crisi aprendo una nuova fase del suo sviluppo, portando le contraddizioni a nuovi livelli, allontanandole nel tempo, ma in fin dei conti accrescendone la portata.
Oggi quei margini si sono fortemente ridotti, siamo di fronte ad una crisi strutturale del capitalismo. La polarizzazione sociale non è mai stata così ampia, la ricchezza è concentrata sempre più nelle mani di pochi. La contraddizione tra il formidabile sviluppo delle forze produttive ed i rapporti sociali di produzione non è mai stato così stridente.
Col compiersi della mondializzazione capitalistica e col resistere di aree del mondo in cui prevale una gestione socialistica dei mezzi di produzione, sempre più limitate sono le possibilità del capitale di allontanare la propria crisi con la conquista di nuovi territori, fonti di materie prime e mercati da invadere.
Infine, i limiti fisici del pianeta non consentono quella produzione tendenzialmente infinita di merci che il capitale persegue: la produzione fine a sé stessa di valori di scambio, senza alcuna cura per i valori d’uso e l’utilità sociale di quanto si produce, si scontra oggi col ridursi delle risorse disponibili.
La produzione illimitata e insensata di merci e l’anarchia del mercato capitalistico stanno già provocando danni ambientali gravissimi, rischiosi cambiamenti climatici, migrazioni di massa.
Per la prima volta nella storia, lo stesso ecosistema è a rischio, e a metterlo in pericolo è proprio la logica insensata del capitalismo, che ha aperto ormai una vera e propria crisi di civiltà.
Perché tutto ciò è potuto accadere lo abbiamo sottolineato a più riprese. In questi lunghi anni senza l’alternativa rappresentata dal blocco comunista, il capitalismo ha potuto muovere senza un reale contrasto, senza una diversa proposta in campo. Abbiamo assistito infatti, in tutta Europa, in Italia, ad un progressivo svuotamento della sinistra socialista, socialdemocratica, anche e soprattutto attraverso le sue successive, diverse evoluzioni.
La crisi della sinistra è un dato oggettivo le cui ragioni sono note. Essa è stata sempre più permeata dal punto di vista “altro”, dalla cultura liberista.
La crisi di questa sinistra, che ha via via assunto la logica delle compatibilità, della neutralità dei problemi, e quindi dell’obbligatorietà delle scelte, delle riforme condivise ( emblematico l’approdo ai cosiddetti governi tecnici, alle grandi coalizioni, etc,) è insieme causa ed effetto dell’affermarsi di questo capitalismo.
Un capitalismo che registra la sua affermazione più importante, più ancora delle trasformazioni strutturali, dell’affermazione dell’economia e della finanza sulla politica, nel senso comune, di massa, circa la vita, improntata al pensiero unico, a quel pensiero unico.
Per la prima volta nella storia l’umanità ha le condizioni oggettive per liberare il lavoro, superare l’alienazione e lo sfruttamento, eppure, mai come ora, l’idea stessa di tale possibilità appare offuscata, rimossa.
La sconfitta della sinistra, con la quale facciamo i conti, è quindi una sconfitta politica e culturale assieme. Non a caso essa ha finito con il pagare un prezzo altissimo, in termini di consenso, a seguito della rottura del rapporto, del legame con il proprio blocco sociale di riferimento, in Europa come in Italia.
Quel blocco sociale, a partire dal mondo del lavoro, ha voltato le spalle alla sinistra perché la stessa, nel tempo, lo ha abbandonato.
Alla pressante richiesta di cambiamento in atto, che la drammaticità della crisi intervenuta progressivamente amplificava, infatti, essa ha risposto confermando le compatibilità imposte, non prospettando una alternativa, possibile oltre che necessaria.
Sotto l’attacco del capitalismo, abbiamo assistito alla devastante trasformazione della società italiana, nella sua struttura, nei sui connotati fondanti.
La realtà italiana risulta profondamente segnata dalla crisi, dalla gestione che della stessa si è fatto in questi lunghi anni da parte dei diversi governi che si sono succeduti alla guida del Paese.
Il Paese è in grande difficoltà. Una difficoltà che ha investito anche artigiani, commercianti, ceto medio, realtà che in passato erano al riparo da ciò.
I dati macro economici di cui si dispone, sono emblematici. Essi dimostrano che la situazione italiana è tra le peggiori in Europa, anche in relazione ai timidi e contraddittori segnali di ripresa che si registrano, largamente riconducibili a condizioni esterne favorevoli (quali ad esempio il precipitare del costo del petrolio, la sostanziale parità tra euro e dollaro, le politiche della Banca Centrale Europea di acquisto di ingenti quote di debito pubblico dei paesi membri, etc).
L’Italia, da quinto paese industrializzato, è progressivamente regredita, il suo patrimonio industriale è andato depauperando, ed oggi è sempre più “terra di conquista” per le speculazioni internazionali, nelle quali i rapporti di forza sono comunque e sempre a favore del capitale.
Si è resa sempre più evidente l’assenza di una adeguata politica di sviluppo, che individui i settori strategici, definisca il necessario processo di infrastrutturazione, la produzione necessaria, utile, che la sostenga.
Ciò a cui si è assistito è la riproposizione di politiche ed interventi essenzialmente a carattere congiunturale, funzionali agli interessi di pochi a scapito dei tanti.
Nella condizione data il Sud del Paese, paga il conto più salato. In questi ultimi decenni, infatti, si è registrato un gigantesco spostamento di risorse pubbliche dal Sud al Nord del Paese.
Il Mezzogiorno d’Italia è divenuto un territorio deprivato, terra di conquista per speculatori, come dimostrano tante vicende, rafforzando anche per quella via il potere delle mafie, sempre più organicamente connesse ai poteri economico-finanziari, sempre più condizionanti le istituzioni, e che dal Sud si irradiano sull’intero territorio nazionale.
Il solco tra le due aree del Paese è sempre più marcato, reso evidente dalla ripresa del flusso di emigrazione dal Sud, in particolare da parte dei giovani diplomati e laureati, dal tasso di disoccupazione generale, segnatamente di quella femminile e giovanile, dall’incidenza del tasso di povertà che caratterizza il Mezzogiorno, in un contesto nazionale nel quale si contano oltre 5 milioni di poveri conclamati ed altri cinque milioni di cittadini sono a rischio.
Una nuova questione meridionale si è quindi imposta all’attenzione generale, serve una svolta profonda, ed in relazione a ciò non si può non fare riferimento al pensiero meridionalista gramsciano, che deve ispirare la lotta dei comunisti, consapevoli dell’interconnessione esistente tra lo sviluppo del mezzogiorno e lo sviluppo del Paese, del fatto che senza l’uno non può esservi l’altro.
Nella situazione data, come sottolineato, il lavoro manca, quando è presente si evidenzia sempre più lontano dall’essere quel diritto, quel fattore di inclusione sociale, di emancipazione sottolineato dalla Costituzione.
La sua condizione è largamente regredita, il dramma delle morti e degli infortuni sul lavoro è oltremodo emblematico, e rende possibile parlare, in diversi casi, di ritorno all’ottocento, a forme di schiavismo, segnatamente in alcuni settori, nei quali è più forte anche la presenza di immigrati. Il pacchetto Treu, la legge Biagi, i provvedimenti Monti/Fornero, il Jobs Act, non sono altro che diversi passaggi legislativi e normativi attraverso i quali, nel tempo, si sono smantellati diritti e tutele del lavoro, assoggettando questi, in linea con la cultura liberista imperante, alla centralità dell’impresa, del mercato. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
La precarietà del lavoro è divenuta il tratto dominante, ed essa ha finito con l’investire l’intera vita delle persone, condannando un’intera generazione all’assenza di futuro. I profondi processi intervenuti hanno determinato una situazione di crescente frammentazione, la crisi della rappresentanza sindacale, il venire meno di un sistema di diritti e di tutele affermatosi nel tempo attraverso le lotte del movimento operaio, che aveva come riferimento un forte partito comunista.
Nella lotta tra capitale e lavoro non vi è dubbio che oggi è il primo ad avere vinto.
I comunisti non possono non avere come obiettivo primario quello della unificazione del mondo del lavoro, nell’accezione di economicamente subordinato, che coglie quindi le profonde trasformazioni intervenute, di concorrere alla ricostruzione della coscienza di sé, di classe, dello stesso, di darvi rappresentanza politica.
Il nuovo partito comunista non può pertanto non essere attivo in ambito sindacale, in relazione agli interessi materiali di milioni di lavoratori e lavoratrici. La nostra attenzione va rivolta all’insieme del mondo sindacale che non si rassegna, che si misura quindi innanzitutto con le cause che determinano i processi e non soltanto con gli effetti degli stessi.
Compito del partito non può che essere quello di organizzare i comunisti iscritti ed operanti nei luoghi di lavoro e nei sindacati, affinché seguano obiettivi e linee di intervento comuni, promuovano la definizione di piattaforme sindacali comuni.
Anche per questo serve concretizzare forme di coordinamento a tutti i livelli. Rimettere al centro la questione del lavoro, della sua tutela e valorizzazione, è oggi quanto mai necessario, ed è in tale direzione che il PCI avanza le proprie proposte.
Tra le questioni che evidenziano in negativo la condizione del nostro Paese, indubbio rilievo assume quanto relativo al welfare, nelle sue diverse articolazioni.
Una delle maggiori conquiste della storia repubblicana è da tempo sotto attacco attraverso le politiche espressione dell’offensiva capitalista che ha investito i paesi dell’Unione Europea in questo quarto di secolo.
Si è da tempo di fronte ad un processo contro riformatore dell’assetto legislativo e normativo affermatosi in materia ( emblematico il caso della previdenza); con la determinazione delle condizioni per il suo svuotamento, in particolare la riduzione o il mancato finanziamento di questo o quel capitolo di spesa (ad esempio il fondo per le politiche sociali, quello per la non autosufficienza, quello per l’affitto,etc.); con il mantenimento di condizioni di sotto finanziamento strutturale di interi settori ( emblematico il caso della sanità, nel quale si assiste ad una crescente richiesta di compartecipazione alla spesa da parte dei cittadini).
Sempre più marcati sono i processi di finanziarizzazione, di corporativizzazione, di privatizzazione, di aziendalizzazione che investono il sistema di welfare. L’obiettivo è quello di trasformare ciò che era declinato come diritto in merce, assoggettandolo alle mere regole di mercato, riconducendolo alle condizioni economiche dei singoli. Tali scelte sono state e sono motivate anche con la necessità di garantire la sostenibilità del sistema, di ridurre gli sprechi, soprattutto di ridurre la spesa pubblica in funzione della riduzione del debito pubblico (che nonostante ciò è cresciuto in termini esponenziali).
Una vera e propria apologia liberista imposta dall’Unione Europea, che abbandonata la concezione keynesiana della stessa spesa pubblica come possibile leva di politiche di investimento e di sviluppo, si è trasformata in una pratica politica volta a salvaguardare il profitto capitalista accentuando l’attacco all’intera spesa sociale.
A fronte di quanto accade, del perché accade, occorre quindi rilanciare lo spirito originario del dettato costituzionale, difendere risolutamente i principi di universalità, solidarietà, equità che hanno caratterizzato lo sviluppo del sistema di welfare italiano.
Sì quindi allo sviluppo delle forme di welfare, no alla loro riduzione, ed in tale direzione vanno le proposte del partito in materia.
Fortissimo continua ad essere l’attacco alle istituzioni pubbliche dell’istruzione, della ricerca, della cultura. Il governo Gentiloni ha continuato la devastante contro riforma renziana della scuola, varando i decreti attuativi della Legge 107/ 2015, l’alternanza scuola lavoro dispiega la sua funzione di tirocinio di sfruttamento ed imposizione del modello e della cultura dell’impresa nella scuola (come denunciano anche gli studenti), la questione salariale nel comparto della conoscenza rimane irrisolta anche dopo la firma del contratto.
Si conferma la determinazione delle classi dirigenti del nostro Paese, di colpire un’istanza democratica essenziale e una parte decisiva del sistema del welfare, di chiudere ogni spazio alla diffusione del pensiero critico, garantendo al contempo istituzioni formative funzionali agli interessi di un sistema delle imprese, che persegue la propria competitività essenzialmente sul terreno dei costi. Importante per contrastare questa deriva è l’attivazione di forze che si sta sviluppando a partire dalla raccolta della legge di iniziativa popolare per la scuola della Costituzione, che si propone di cancellare gli interventi contro riformatori di questi anni e di rilanciare organicamente un progetto di scuola pubblica, qualificata, democratica, laica. Il crollo delle iscrizioni che si registra da anni negli atenei italiani (particolarmente grave al Sud) è emblematico della devastazione operata dalle politiche liberiste sul sistema pubblico dell’università e della ricerca.
E’ stato messo in moto un processo di tagli delle risorse che nega, di fatto, l’accesso alla formazione universitaria a settori decisivi delle giovani generazioni ed espelle le migliori energie intellettuali, colpendo radicalmente le basi della stessa capacità culturale, scientifica e tecnologica del paese, come hanno segnalato le importanti proteste dei ricercatori. I comunisti operano sul piano dell’elaborazione programmatica così come su quello della mobilitazione per unificare le lotte degli studenti e di tutti i lavoratori della conoscenza (docenti, ricercatori, operatori tecnico-amministrativi) e per collegarle a quelle più generali del mondo del lavoro, nella consapevolezza che le questioni della scuola, dell’università, della ricerca, della cultura siano oggi un terreno decisivo dello scontro di classe. E tanto dice, a proposito della realtà italiana, la condizione della donna, che è tra le peggiori in Europa, e sappiamo bene che non vi può essere prospettiva comunista senza la liberazione della donna.
Centrale è divenuta la questione dell’immigrazione, attorno ad essa, come la cronaca di questi giorni evidenzia, si misura la tenuta stessa dell’Unione Europea, degli equilibri politici tra gli stati membri, all’interno di essi, e già le elezioni europee si profilano all’orizzonte.
L’immigrazione non è certamente un fenomeno nuovo per la storia recente dell’occidente, ed è giunta a costituire una realtà consolidata in molti paesi a capitalismo avanzato. Oggi, in particolare per l’Europa, e all’interno di essa per i diversi paesi che si affacciano sul mediterraneo, segnatamente per l’Italia, tale fenomeno si è riproposto in termini tali da consentire alle destre di cavalcarlo, attribuendogli un carattere emergenziale, di allarme sociale, riducendolo ad una questione di ordine pubblico.
L’immigrazione è presentata come il problema e non come la manifestazione di un problema, come l’effetto delle aggressioni militari, delle devastazioni, delle politiche di spoliazione delle ricchezze dei paesi poveri, dell’iniquità del modello economico e sociale vigente, del capitalismo.
Un sistema che, dopo avere provocato le immigrazioni di massa, prosegue, usando le parole d’ordine della destra, la propria politica di brutale sfruttamento negli stessi paesi capitalistici, collocando la forza lavoro proveniente dall’immigrazione nel mercato inferiore del lavoro, usandola per ingrossare l’esercito industriale di riserva, consegnandola ad un nuovo schiavismo.
Le destre reazionarie, razziste, speculando immoralmente sulla questione dell’immigrazione, riorganizzano, in Europa come in Italia, un consenso di massa attorno ad un’idea neofascista generale. L’azione del ministro Salvini al riguardo, è oltremodo emblematica, e abbiamo già avuto modo di denunciarla. Nessuna invasione è in atto, i barbari non sono alle porte.
La posizione del PCI in merito al processo migratorio in atto è nota: non solo solidarietà, ma lotta per un nuovo blocco sociale anticapitalistico. Le proposte che avanziamo in merito nel nostro programma rispondono al bisogno.
Con il documento politico posto alla base di questo nostro I° congresso abbiamo proposto una lettura del quadro politico italiano tra realtà e prospettive, inevitabilmente al netto della formazione del governo Conte, avvenuta successivamente, di quanto ciò influisca al riguardo.
Oggi siamo in grado di esprimere un più articolato giudizio di merito, prospettarne i possibili sviluppi, soprattutto di decidere come articolare la nostra iniziativa in relazione alle politiche che lo stesso ha deciso di perseguire, e che si ritrovano nel “contratto di governo” tra LEGA e M5S che tale governo hanno reso possibile.
Nel nostro documento congressuale, non casualmente, abbiamo posto in relazione l’esito del referendum costituzionale del 4 Dicembre 2016 e del voto del 4 Marzo 2018.
Due eventi, come abbiamo sottolineato, che hanno certificato, prima ancora della fine della leadership di Matteo Renzi, il fallimento del progetto incarnato dal PD, ultima tappa di un lungo processo politico articolatosi precedentemente in DS e PDS, avente come obbiettivo quello di impedire, dopo la caduta della prima repubblica e l’avvio del processo di Unione Europea, il costituirsi di un polo socialcomunista in grado di rappresentare una effettiva, possibile alternativa di direzione ed un diverso futuro per il Paese.
Con il voto del 4 Marzo è saltato il progetto politico di un Partito Democratico che si proponeva di diventare Partito della Nazione ( decisivo al riguardo l’accordo con Berlusconi, anch’egli penalizzato dal voto) ossia di una nuova rappresentanza politica che si poneva anche il problema di ricostruire un’egemonia borghese su una società devastata dalla crisi.
E’ crollato il renzismo, una sorta di populismo di governo che ha la sua caratterizzazione nell’ideologia del fare, nel giovanilismo, nella capacità di incanalare nell’alveo del partito gruppi di potere e ceto politico di ogni genere, ed è crollato il centrosinistra.
Ma un esito elettorale negativo è toccato a quanti sono fuoriusciti dal PD per andare a costituire ART.1/MDP: un raggruppamento che, puntando sui volti di Luigi Bersani e Massimo D’Alema, sin dall’inizio non marcava la discontinuità richiesta da gran parte di quello che è stato il popolo della sinistra, vagheggiava “un PD senza Renzi”, riproponeva fuori tempo massimo la prospettiva di quello stesso centrosinistra che aveva aperto la strada all’ascesa del renzismo.
Non era poi così difficile prevedere che la lista Liberi e Uguali, alla quale tale raggruppamento ha dato vita unitamente a Sinistra Italiana ed a Possibile, sarebbe stata anch’essa risucchiata nel gorgo che stava inghiottendo il PD. L’attuale panorama politico è il drammatico effetto di quello che il PD, definito sinistra al governo, ha realizzato in questi anni. Politiche che hanno allontanato dal voto una consistente parte di popolo, determinando una situazione in cui anche solo il termine “sinistra”, lungi dall’essere inteso come soluzione, è sentito come parte del problema.
Una situazione, quella determinatasi, con la quale anche i comunisti, le forze politiche di sinistra radicale, di alternativa, si sono misurate, registrando un risultato negativo, che ne conferma la difficoltà a proporsi come riferimento politico credibile, ed evidenzia quanto lunga sia la strada da percorrere per essere considerati da quell’elettorato “orfano” meritevoli di consenso. Il voto, infatti, ha sancito l’inconsistenza del PC (0,3%) , della lista PCdL-Sinistra Rivoluzionaria (0,08%) e della lista Potere al Popolo (1,1%).
Noi, il PCI, come noto, siamo stati parte di quest’ultima, di una lista plurale, dichiaratamente “comunista, anticapitalista, antiliberista, di sinistra alternativa”. Una scelta alla quale siamo giunti attraverso un percorso non facile, caratterizzato al nostro interno da eccessi, da comportamenti inaccettabili, da limiti di direzione politica e di gestione operativa a diversi livelli, dei quali occorre, con spirito critico ed autocritico, fare tesoro.
L’esito del voto del 4 Marzo, confermato da quello delle elezioni amministrative, ha imposto, impone, un processo di scomposizione /ricomposizione del quadro politico, del “campo largo della sinistra”, e già si rincorrono diverse ipotesi.
Ad esso il PCI non può che guardare con attenzione, senza preclusioni, se non quella della coerenza, della compatibilità con le proprie opzioni strategiche. Per questa ragione, oggi, siamo chiamati a sciogliere alcuni nodi, innanzitutto quello relativo alla condizione di Potere al Popolo, alle sue prospettive.
Molte tra le sue componenti, come noto, hanno via via sottolineato, considerando il risultato elettorale una possibile base di ripartenza, la necessità di procedere speditamente a “stringerne” l’assetto organizzativo. Il Coordinamento Provvisorio di Potere al Popolo, sulla base delle indicazioni successivamente emerse, in particolare dall’assemblea nazionale di Napoli del 26/27 Maggio, ha reso noto che sarà resa operativa la piattaforma online che consentirà di iscriversi a Potere al Popolo e partecipare più facilmente ai processi decisionali; che contestualmente partirà una campagna di adesioni al progetto, al manifesto ed al programma di Potere al Popolo e di iscrizione a tale piattaforma; che entro fine Settembre si chiuderà la campagna di adesioni e si potrà votare il nuovo Coordinamento Nazionale ed il nuovo Statuto. Si tratta, come evidente, di passaggi decisivi, legittimi, comprensibili, che tuttavia non possono trovarci concordi, partecipi.
Noi non possiamo farne parte! Ciò che si prefigura, infatti, è una cessione di sovranità e risorse da parte dei soggetti componenti, la rinuncia ad una piena autonomia politica ed organizzativa, alla quale da sempre abbiamo dichiarato e dichiariamo essere indisponibili.
E’ questo, del resto, l’approccio col quale sin da Bologna, dall’Assemblea Costituente, abbiamo detto di guardare all’unità. Per noi la priorità resta la crescita del Partito, il nostro progetto politico, pur inteso nel quadro di rapporti con forze esterne, anche configurabili come fronte, nel quale sia garantita una piena parità tra le sue diverse componenti. Per quanto ci riguarda la relazione con Potere al Popolo può continuare su queste basi. In tema di unità, ovviamente, non possiamo non affrontare quella tra i comunisti.
Noi ci proponiamo la costruzione di una forza politica comunista unificata, che chiama a raccolta i comunisti, la diaspora comunista, non chiusa nel settarismo, né consegnata all’eclettismo.
Ci proponiamo di ricostruire il Partito Comunista Italiano, nella convinzione che il processo contro riformatore, reazionario in atto, si è potuto affermare a fronte del venire meno di un forte e radicato partito, un partito comunista in grado di mantenere intatta la capacità di analisi, di critica degli assetti capitalistici esistenti, di prospettare un’alternativa di sistema, ed al contempo di lavorare quotidianamente per la difesa delle classi subalterne, dando alle loro istanze la necessaria sponda politica ed istituzionale. Nel proporci questo, lo abbiamo ripetuto a più riprese, ci rifacciamo alla storia ed alla cultura politica del comunismo italiano, del movimento comunista internazionale.
L’unità dei comunisti, oltre quella d’azione, passa dall’assunzione di una cultura politica condivisa. L’esito inequivocabile delle elezioni politiche del 4 Marzo, che rappresenta per l’Italia una svolta epocale, che la allinea a tanta parte dell’Europa, segnando questa fase storico-politica, ha portato al governo Conte, attraverso l’intesa tra il M5S, giunto al 32% dei consensi, e la Lega che, parte della coalizione di centrodestra, ha conseguito il 17% dei voti. Oggi quest’ultimo soggetto politico è dato in crescita ed evidenzia una sorta di opa nei confronti di Forza Italia. Il berlusconismo appare finito ed impone anche al centrodestra un processo di scomposizione /ricomposizione dall’esito incerto.
Gli elettori hanno scelto il cambiamento, il vuoto di rappresentanza delle istanze popolari da parte di una pseudo sinistra è stato colmato da un partito dichiaratamente di destra, con pulsioni e tratti per tanti neofascisti, e da un movimento dichiaratamente interclassista ( né di destra, né di sinistra, e neppure di centro, ha specificato il suo leader Di Maio) post- ideologico.
E’ un fatto, da non minimizzare ed anzi da indagare con serietà, come abbiamo sottolineato all’indomani delle elezioni, che il M5S abbia raccolto il voto di elettori potenzialmente o già di fatto di sinistra o addirittura comunisti; che cioè il risentimento sociale, il malumore per il peggioramento delle condizioni di vita e per l’aumento delle disuguaglianze si sia spesso orientato verso un soggetto politico che ha fatto della protesta contro la casta e la politica genericamente intesa la cifra della sua polemica.
Ambiguo sul piano delle idealità politiche, inesistente, o peggio pericoloso, su quello del conflitto sociale, generico quanto a proposte sul tema lavoro (soppiantate da quella sul reddito di cittadinanza), il M5S ha accuratamente evitato per tutta la prima parte della sua esistenza di misurarsi con le questioni strategiche e di fondo, a cominciare dalla collocazione internazionale del nostro Paese. Oggi, però i nodi cominciano a venire al pettine. La retorica anti casta, che si è dimostrata un utile cavallo di Troia per le politiche di restringimento della democrazia, di stravolgimento della Costituzione e per quelle di austerity, non basta più.
Inoltre la recente vicenda post-elezioni politiche, con il contrastato tentativo di formazione di un esecutivo con ci sta e poi con la Lega, l’inopinata scomparsa di punti qualificanti dalle proposte programmatiche per il governo agitate in campagna elettorale, giustificate con la definizione dell’accordo di programma, con la necessità di dare un governo al Paese, ha messo in luce la natura intimamente contraddittoria di questa forza politica.
Noi crediamo che questo insieme di forze, per sua natura, non possa rappresentare nei fatti la necessaria risposta strategica al progetto liberista di un’Unione Europea essenzialmente finanziaria, assai poco economica, per nulla sociale che si è affermato.
Si apre quindi, a partire da ciò, una lunga fase di lotta e di competizione sociale e politica tra chi critica l’UE da destra o da posizioni interclassiste, e chi come noi fonda la propria critica su posizioni di classe.
Confermano questo nostro giudizio le rassicurazioni che il governo ha inteso dare all’Europa, ai poteri forti, prima , durante e dopo il proprio insediamento, circa l’appartenenza alla NATO, il rispetto dei vincoli europei.
Crediamo che esso non possa mettere in campo un reale, sostanziale cambiamento delle politiche in essere ( come dimostra, ad esempio, il “decreto dignità” in questi giorni in discussione) anzi, già ora si dichiara di volere smantellare diritti civili acquisiti.
Ad oggi il consenso a questo governo è alto, semmai sta cambiando il rapporto tra le sue componenti a tutto vantaggio della Lega, ma l’esperienza ci dice che altre lune di miele tra elettori e governo si sono dissolte rapidamente. Saranno i fatti a dire tanto al riguardo.
Noi, il PCI, non possiamo che porci l’obbiettivo della messa in campo di una forte opposizione a questo governo, alla cultura politica che largamente lo ispira. Dobbiamo esserne promotori, parte attiva.
Le proposte le abbiamo da tempo definite, tenendo assieme una precisa dimensione ideale, ideologica, con una altrettanto precisa dimensione programmatica. Ancoriamo la nostra opposizione a questioni centrali, oggi più che mai decisive.
Non casualmente parte rilevante del documento politico posto alla base del congresso è data al tema dell’antifascismo, alla centralità rappresentata dalla Costituzione Repubblicana, al tema della democrazia e degli assetti istituzionali.
Con sempre maggiore frequenza la cronaca dà conto della ripresa, nel nostro Paese, come in tanta parte d’Europa, di manifestazioni dichiaratamente, manifestamente fasciste.
Le ragioni dell’escalation della spirale di odio e di violenza che si registra, vanno ricercate in gran parte nella rappresentazione strumentale del disagio sociale che tanta parte della destra ha fatto e continua a fare, della crisi, della sua gestione: fomentando la “guerra tra poveri” all’insegna della xenofobia, del razzismo, rifacendosi alle pagine più buie della storia.
Il ritorno di tali manifestazioni va ricondotto anche al processo di revisionismo storico che ha investito da tempo il nostro Paese, a quella falsa esigenza di “pacificazione nazionale” della quale si è vagheggiato, anche a sinistra, che confondendo vincitori e vinti ha finito con il mettere in discussione il valore della resistenza, il suo carattere fondante, il suo essere costitutiva dell’Italia repubblicana.
E’ necessario oggi più che mai non abbassare la guardia, rimettere al centro i valori dell’antifascismo, quanto mai attuali, necessari, a fronte della situazione data.
E’ tempo di antifascismo militante, e l’azione sempre più incisiva messa in campo dall’ANPI è passaggio decisivo.
E’ fondamentale che sul terreno specifico della democrazia e degli assetti istituzionali i comunisti impediscano una ulteriore riduzione degli spazi di partecipazione democratica e dei diritti costituzionali, che mina le nostre libertà fondamentali e fa lievitare un dissenso senza voce ed un conflitto sociale senza adeguata rappresentanza politica.
In tale situazione la tutela e il rilancio dei diritti e dei principi democratici contenuti nella Carta del ’48 costituiscono, oggi più che mai, uno dei terreni più avanzati per ricostruire condizioni favorevoli di lotta politica contro l’establishment. Purtroppo l’originaria forza innovatrice della nostra Costituzione non ha trovato coerente applicazione né nei suoi principi né nella forma dello Stato e delle Istituzioni, che sono divenute, via via, sempre più funzionali alla borghesia capitalista.
Fin dalla sua nascita, infatti, se ne sono appannati contenuti e valori, promuovendo controriforme che di fatto l’hanno sostituita con una costituzione materiale, grazie alla quale si partecipa a guerre imperialiste, si alterano le funzioni e il ruolo del Capo dello Stato, si mina l’equilibrio dei poteri e la loro autonomia, si sottrae al Parlamento la sovranità sulle più importanti decisioni.
L’ultimo tentativo di sancire tutto ciò anche in modo formale, è fallito il 4 dicembre 2016, ma la questione resta aperta, la guardia non deve essere abbassata, i nemici della Costituzione ritorneranno all’attacco.
Nel quadro del lavoro politico e organizzativo per la ricostruzione del Partito Comunista Italiano, che definiremo con questo nostro primo Congresso, deve dunque trovare un posto di rilievo la determinata e costante azione per l’attuazione della democrazia costituzionale che può ancora cambiare l’attuale quadro politico istituzionale.
Proporsi di dare seguito al dettato costituzionale significa anche dire no a ciò che viene proposto con sempre maggiore forza sul terreno della rappresentanza, spesso strumentalmente confusa con la governabilità ( ed il presidenzialismo incombe).
E’ necessario insistere, ad esempio, per l’affermazione di una legge elettorale proporzionale pura, il sistema elettorale più democratico, basato sul principio “una testa un voto” ed il più adeguato alla complessità del nostro Paese: superando innaturali sbarramenti e ridando dignità alla funzione legislativa del Parlamento.
Tale legge ridarebbe equilibrio al rapporto tra forma di governo e rappresentanza, riporterebbe il suffragio universale a fondamento della democrazia partecipata e ridarebbe al popolo il diritto di partecipare alle scelte della politica. In ultimo, non certo per importanza, pongo all’attenzione delle compagne e dei compagni, i diversi nodi che il Partito è chiamato ad affrontare sul terreno organizzativo/gestionale e che si sono palesati nel corso di questi due anni.
Registriamo una sorta di scarto tra il dire ed il fare, che con questo congresso dobbiamo proporci di superare.
Abbiamo chiara l’importanza di un partito comunista, del nostro partito comunista nella realtà data, per cambiarla.
Siamo convinti, nonostante il tanto che rema contro, dell’importanza dello strumento partito, anche sul terreno della democrazia, della partecipazione.
Le diverse esperienze con le quali ci si è misurati hanno spesso rappresentato il contrario, quelle che si prospettano non garantiscono a sufficienza, appaiono come scorciatoie.
Come PCI sottolineiamo quale forma di “governo” del Partito il centralismo democratico. Esso è , come abbiamo sottolineato nelle tesi, l’asse attorno al quale fare ruotare sia il dibattito che ogni atto decisionale.
Un centralismo democratico funzionale ad un dibattito aperto, ampio ed approfondito, dal quale trarre una sintesi, la formazione di una linea di maggioranza, ed il rispetto, da parte di tutti, dell’esito politico del dibattito. Una scelta, questa, che se correttamente praticata mette al riparo dai diversi rischi che tante esperienze hanno evidenziato, anche nella realtà comunista.
Abbiamo posto l’accento sulla necessità di sostanziare la dimensione ideologica del Partito, la sua capacità di affrontare la realtà, di interpretarla, rendendo più forte, più incisiva la sua azione, evitando di subire la pressione politica derivante dalla contingenza, quasi sempre elettorale, finendo con l’essere dominati dal tatticismo.
Anche per questa ragione dobbiamo porre in essere un maggiore investimento del Partito sulla scuola quadri, sulla formazione, sulla cultura politica delle diverse articolazioni dello stesso.
Spesso, nella nostra discussione, non focalizziamo a sufficienza l’attenzione sul fatto che siamo, volenti o nolenti, un partito di quadri e di militanti, che tanta strada deve fare per avere un’influenza di massa, per essere un partito di massa, la cui egemonia non è data, non è neppure a portata di mano, ma resta e deve restare la nostra ambizione.
Questo nostro I° congresso, quindi, a partire dalla riflessione circa gli errori commessi, i limiti evidenziatisi, deve portare il Partito ad un cambio di passo.
Diversi dipartimenti non hanno operato come era necessario, come era possibile.
Diverse campagne non si sono articolate come deciso, togliendo al Partito la possibilità di una maggiore presenza e visibilità sul territorio, di una maggiore attenzione da parte dell’opinione pubblica.
La presenza del Partito nelle piazze, tra la gente, nei luoghi di lavoro e di studio, laddove lo stesso deve e può essere, è risultata spesso sporadica, se non del tutto assente, nonostante la si sia sottolineata a più riprese come prioritaria.
L’esigenza di avere sempre il “polso del Partito”, attraverso un’attenta lettura e rappresentazione dei suoi umori, di ciò che esso è, della sua articolazione, della sua reale forza, e quindi delle sue reali possibilità, è stata spesso disattesa.
Il bisogno di un uso diffuso ed adeguato della rete, delle sue potenzialità, è sempre più marcato, evidente; serve che il gruppo dirigente assuma anche questo come un impegno inderogabile, pressante, mettendo il Partito, ai diversi livelli, nelle condizioni di fare ciò, di dare per questa via un ulteriore impulso alla sua comunicazione.
Da ultimo, non certo per importanza, il Partito deve misurarsi fino in fondo con la questione del suo finanziamento, dell’autofinanziamento, senza il quale la sua autonomia ed indipendenza sono a rischio, la sua capacità di intervento fortemente limitata.
Abbiamo bisogno di molta fantasia al riguardo, pur non abbandonando le esperienze messe in campo con convinzione, penso ad esempio alle feste, che hanno dato buona prova di sé. Care compagne e cari compagni, con questo congresso, come sottolineato in apertura, dobbiamo, possiamo compiere un ulteriore passo nella giusta direzione.
La ricostruzione del Partito Comunista Italiano non ha alternative credibili se l’obbiettivo è quello della pace, dell’uguaglianza, del superamento delle varie forme di sfruttamento vigenti, se si vuole rimettere in campo una prospettiva che non sia il progressivo precipitare della condizione dei più, se non ci si vuole rassegnare a quell’essere sempre più poveri, insicuri, soli, ossia al futuro che vogliono imporci.
Abbiamo alle spalle una grande storia, il futuro ha ripreso il cammino!
Orvieto ( Terni) 6 Luglio 2018