Gli USA all’attacco della “Via della Seta”

L’Ambasciatore USA a Roma intima al governo italiano di non aderire al progetto cinese

di Fosco Giannini, Responsabile Dipartimento Esteri PCI

Il progetto economico cinese della “Belt and Road” (La Nuova Via della Seta) , proprio per la sua natura planetaria ( cantieri, infrastrutture, impianti e mercati di dimensioni ed estensioni titaniche, dall’Asia all’America Latina, dall’Africa all’Europa, coinvolgendo centinaia di Paesi e Stati del mondo) sta mettendo sempre più all’erta l’imperialismo USA, che alza sempre più la propria contrapposizione al disegno cinese.
Il motivo di tanta contrarietà nordamericana alla Via della Seta è comprensibile: il progetto cinese ha tutte le basi materiali sia per la riuscita che per un ulteriore consolidamento della potenza internazionale della Repubblica Popolare Cinese, guidata dal Partito Comunista Cinese.
La natura stessa, materiale, filosofica, ideologica della “ Belt and Road”, contiene in sé i prodromi di una visione e di una pratica internazionale rivoluzionaria, destinata, se vincente, a cambiare il mondo e la stessa storia moderna.
Infatti, dopo la mondializzazione imperialista, che attraverso l’accelerazione dei moti storici di spoliazione e conquista di altri mondi e di altri mercati da parte delle potenze imperialiste, con in testa gli USA, e dopo l’odierno moto ipernazionalista e neoprotezionista ( modelli, sia il primo che il secondo, che hanno la guerra quale prima pulsione interna) il modello cinese insito nella Via della Seta, con i suoi moti peculiari volti alla cooperazione economica internazionale, al superamento della storica pratica imperialista dello scambio diseguale e col progetto di un’economia mondiale invece aperta e volta all’interesse reciproco tra le Nazioni, questa idea e questa prassi cinese contengono davvero, in sé, gli elementi per un cambiamento profondo del quadro mondiale e delle relazioni tra popoli e Stati. Un cambiamento che vedrebbe, inevitabilmente, accelerarsi il processo di decadenza dell’imperialismo nordamericano.
E’ in questo quadro macroeconomico, geopolitico e storico che vanno valutati i “movimenti” politici degli USA in questa fase.
Era già stato Barak Obama a contrapporsi alla Via della Seta, denunciandone più volte e in più sedi “l’intento egemonico mondiale”, rifiutando l’adesione degli USA (sollecitata da Pechino) alla “Asian Infrastructure Investement Bank” (Aiib), l’istituzione economica multilaterale cinese volta a finanziare, come “un’altra Banca Mondiale”, i progetti infrastrutturali e di sviluppo in Asia, ma anche in tutta l’area planetaria della Via della Seta, ed era già stato Obama a tentare di scoraggiare i moti economici della “Belt and Road” attraverso un enorme rafforzamento della VI Flotta militare statunitense nei Mari del sud della Cina, collocando la “testa” militare navale USA nei porti delle Filippine.
L’attacco statunitense contro la Via della Seta si sta ora, con Trump, riacutizzando e sviluppando. Come va prendendo più forza la pressione USA sugli alleati europei al fine di staccarli dal progetto cinese. Una pressione che sembra aver già avuto successo sulla Commissione Europea e che ora si sta decisamente volgendo sul governo italiano gialloverde, il primo e unico, tra i Paesi Ue, che ha pensato ad aderire alla Via della Seta, che era vicino a firmare un accordo con Pechino e che ancora non si è ufficialmente piegato ai voleri di Trump e della stessa Ue, che inizia, per questo, a stigmatizzare fortemente il comportamento del governo Conte. E’ proprio di questi giorni, infatti, il monito della Commissione Europea che sollecita l’Italia a “rispettare l’unità dell’Ue e le scelte che l’Ue, in modo unitario, ha assunto nei confronti della Cina”. Scelte in perfetta adesione ai voleri USA, diretti a non far entrare l’Ue nella Via della Seta.
Già nel novembre del 2018 l’Ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, Lewis Eisenberg, aveva lanciato un forte monito contro l’ipotesi di un’adesione italiana alla Via della Seta. Un monito che si è trasformato, lo scorso 14 febbraio, in una vera e propria minaccia politica, sferrata ancora da Eisenberg contro l’attuale governo italiano gialloverde, per la vicina firma che lo stesso governo Conte stava apponendo (unico Paese del G7) sul Trattato cinese. La minaccia americana è stata pesante: la firma per l’adesione alla Via della Seta da parte del governo italiano sarebbe stata e sarebbe giudicata come una frattura profonda dell’amicizia e dell’alleanza atlantica. E la pressione americana sull’Ue, ma soprattutto – dato lo stato delle cose – sul governo italiano, l’unico dell’Ue ancora non convinto da Trump, non sembra destinata ad esaurirsi: durissimo è stato l’attacco di questi giorni, contro la Via della Seta, da parte del portavoce del Consiglio Nazionale della Casa Bianca Garrett Marquis, che dalle pagine del Financial Times ha definito la “ Belt and Road” “un’iniziativa fatta dalla Cina per gli interessi della Cina”. E, rivolgendosi ai Paesi Ue, “un’iniziativa da cui tenersi alla larga”. Poiché il monito di Garrett Marquis, di fronte ad un’Ue ormai genuflessa agli ordini americani, era principalmente rivolto al governo italiano, la Commissione Europea, dopo poche ore dall’ “editto” del Finacial Times, ha pensato bene di rafforzare le parole del portavoce della Casa Bianca intimando al governo Conte di “ uniformarsi alla linea dei Paesi dell’Ue”. Una posizione codina, questa dell’Ue, espressa nonostante la risposta immediata proveniente da Pechino all’attacco di Marquis: “ I giudizi di Marquis – ha infatti affermato il Ministero degli Esteri cinese – sono assurdi. Come grande Paese e grande economia l’Italia sa riconoscere i propri interessi ed è in grado di mettere in campo politiche indipendenti”.
E’ chiaro che l’attacco statunitense contro il governo Conte si amplifica in relazione all’ormai vicino viaggio di Xi Jinping in Italia, che arriverà a Roma il prossimo 21 marzo.


Per la Cina, per la Via della Seta, per il progetto planetario di un mercato mondiale “terzo” ( paritario e, per sue stesse necessità oggettive, materiali, volto alla distensione internazionale a alla pace) rispetto alla mondializzazione imperialista e al nazionalismo protezionista ( intrinsecamente gonfi di guerra), l’eventuale adesione dell’Italia al memorandum su “One Belt One Road”, sarebbe di grandissima importanza, in quanto romperebbe il fronte, ora tutto filoamericano, dell’Ue.
Resisterà, il governo Conte, alle pressioni USA e alle sollecitazioni sempre più pesanti dell’Ue? Rispetto alle sue altre esperienze di sostanziale subordinazione all’Ue, agli Usa e alla NATO, crediamo sia difficile. Il M5S aveva fatto della linea pro Via della Seta uno dei sui cavalli di battaglia. Il sottosegretario “grillino” Michele Geraci ha lavorato assiduamente per giungere alla firma sul memorandum della Via della Seta, viaggiando molto tra Roma e Pechino. Lo stesso Di Maio, “portato” da Geraci, è stato due volte, in questi ultimi mesi, a Pechino e, tornando, aveva affermato: “ Vogliamo essere il primo partner della Cina in Europa”. La Lega di Salvini, molto più filoamericana del M5S, ha, viceversa, sempre espresso una posizione ben più tiepida verso La Via della Seta, una posizione che ora, sotto la pressione USA-Ue, da tiepida si è trasformata in nettamente contraria.
Anche il M5S, però, tra le intimidazioni USA, le spinte Ue e il timore di approfondire ancor più la frattura con la Lega, sembra cambiare decisamente linea e dal desiderio di “portare l’Italia ad essere il primo Paese Ue ad aderire alla Via della Seta”, sta passando celermente ad una posizione volta al rinvio delle scelte. E’ stato Di Maio, infatti, in queste ore e dopo i reiterati attacchi dell’Ambasciatore USA a Roma, ad affermare che “non è questa la fase, per l’Italia, di entrare nel progetto “Belt and Road”.
L’ennesimo prezzo che il governismo a tutti di costi dell’attuale maggioranza del M5S capeggiata da Di Maio paga, consumandosi sotto l’egemonia leghista. E’ davvero tempo che la parte più avanzata, probabilmente ancora consistente se non più maggioritaria, del M5S apra una battaglia politica per liberarsi da Di Maio e dalla Lega. Ricollocando il M5S, un po’ più debole ma ancora forza di massa e reso forse più maturo dalla dura esperienza governativa, sul fronte dell’alternativa.

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