Il PCI di Togliatti contro l’europeismo: un libro documentato e coraggioso

di Bruno Steri

Il libro di Luca Cangemi Altri confini. Il Pci contro l’europeismo (DeriveApprodi, Roma 2019) è il prodotto di un’indagine storica seria e documentata che, come esplicita lo stesso titolo, concerne il rapporto conflittuale intrattenuto dal Partito Comunista Italiano con il progetto di integrazione europea relativamente al periodo che va dal 1941 al 1957, cioè dall’uscita del Manifesto di Ventotene fino alla stipula dei Trattati di Roma, pietra miliare nel processo che condurrà all’attuale Unione. Tuttavia il libro non ha soltanto il valore di una circostanziata ricostruzione storica; in sintonia con le caratteristiche dell’autore – che è attento studioso e, insieme, dirigente dell’attuale Pci – esso costituisce anche un’operazione politica importante e coraggiosa, in quanto smentisce a colpi di citazioni da fonti ufficiali una narrazione oggi prevalente, ancorché non veritiera, che descrive un Partito comunista sin dall’inizio vocato ad un impegno “europeista”. In una fase delicatissima come quella odierna, alla vigilia di importanti elezioni continentali, in cui il vuoto a sinistra rischia di consegnare alle destre la critica alle politiche antipopolari di Bruxelles, il testo di Cangemi ha il merito di restituire la verità storica di un Pci sin dall’inizio decisamente “antieuropeista”.

Il Pci, ma anche i laburisti inglesi e i socialdemocratici tedeschi, hanno guardato alla costruzione di un mercato comune europeo come ad un progetto strutturalmente segnato dal liberismo e dall’atlantismo, due pilastri che le regole di Maastricht avrebbero poi consolidato e rafforzato. Tale opposizione permane ancora alla fine degli anni 70, quando i comunisti votano contro l’accordo sulle monete, il Sistema monetario europeo (SME), e contro l’installazione degli “euromissili”. Solo successivamente, con l’affermarsi degli orientamenti “miglioristi” e l’ascesa della stella di Giorgio Napolitano, anche la posizione sull’Europa muterà. In ogni caso, il racconto propagandistico di un Partito comunista che si affranca dalla “glaciazione sovietica” per concedersi da subito alla “redenzione europeista” risulta falsificato dai fatti. In particolare esso tace sull’origine atlantica dell’Europa: un’Europa a matrice Usa ispirata in Germania, Francia e Italia da governi conservatori (Schuman, Adenauer, De Gasperi), costituitisi dopo la rottura dei governi nati dalla Resistenza.

In realtà, la tradizione comunista non si è mai fatta troppe illusioni sulla bontà di un’Europa unificata. In proposito, Cangemi cita la concisa affermazione di Lenin: “Gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalista sarebbero impossibili o reazionari”. E ricorda che il Congresso del Comintern del 1928 aveva definitivamente bocciato la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa. Dal canto suo, il Pci di Togliatti aveva più di un motivo per confermare nel merito una posizione nettamente critica. I comunisti italiani erano del tutto estranei ad un’Europa intesa come “diga antisovietica”: essi puntavano al superamento dei blocchi e non potevano vedere di buon occhio un’Europa concepita quale bastione dell’Occidente capitalistico. Nel ricostruire la posizione del Pci, il libro sottolinea opportunamente il peso delle lotte anticoloniali represse nel sangue da Paesi guida del processo di integrazione europea (Francia e Belgio su tutti). E denuncia la rimozione di tale fondamentale aspetto nella narrazione europeista: erano gli anni della guerra di Algeria e dell’intervento franco-britannico contro Nasser, il presidente egiziano che sosteneva l’unità panaraba e che, soprattutto, aveva osato nazionalizzare il canale di Suez.

Cangemi smentisce un’altra invenzione dell’orientamento europeista: quella che fa di Altiero Spinelli, coautore del Manifesto di Ventotene, un antesignano della posizione del Pci sull’Europa. Non è così. Al contrario, costante fu la polemica tra Spinelli e il Pci (e Togliatti in prima persona). In effetti, Spinelli si dedicò con genuina passione all’ideale di un’Europa federata. Ispirato più da Einaudi che da Lenin, era un federalista convinto, in guerra contro “il totalitarismo degli Stati nazionali”: con un approccio illuministico, egli concepiva l’azione politica come opera di convincimento tesa a orientare le élites piuttosto che le masse. Togliatti viceversa non perdeva occasione per ribadire il carattere “patriottico” del Pci: e appunto in una “comunità patriottica”, interprete di una vera “politica nazionale”, egli vedeva ricomposti i sistemi di idee, le ideologie che la guerra fredda tendeva a dividere. Non a caso, dunque, Spinelli guardava con speranza a ciò che Togliatti vedeva come un pericolo: un’integrazione europea che superasse gli Stati e svuotasse la sovranità nazionale. Analogamente, se Spinelli esaltava il Piano Marshall considerandolo espressione positiva dell’espansionismo liberale Usa, Togliatti al contrario diffidava di un’“America benefattrice”, mossa più che da altruismo dal proprio interesse ad esportare in Europa (cfr. il Discorso alla Costituente del 29 luglio 1947). Non c’era in proposito, da parte del Migliore, un giudizio seccamente negativo; piuttosto un invito alla cautela, a considerare l’Urss come parte dell’Europa e a evitare l’esito di un’Europa americanizzata.

Nel novembre del ’49, alla riunione del Cominform, Togliatti critica il cosmopolitismo in nome degli interessi nazionali, del valore della Costituzione italiana e di un internazionalismo al cui centro sta la difesa dell’Urss. L’anno dopo, il Ministro degli Esteri francese Schumann propone la costituzione del Mercato comune europeo del carbone e dell’acciaio (CECA); a ottobre dello stesso anno, il Presidente del Consiglio francese René Pleven lancia l’idea di un esercito europeo (CED). Su L’Unità lo storico comunista Giuseppe Boffa attacca violentemente il progetto Schumann: l’obiettivo, egli dice, è quello di “una ristrutturazione monopolistica che unifica al più alto livello i centri capitalistici”.  La stessa Cgil, in un convegno a Milano nel giugno del ’50, elabora un Piano alternativo per la siderurgia nazionale. In definitiva, a proposte che costituirebbero altrettanti passi in avanti dell’integrazione europea, la sinistra comunista italiana contrappone la nostra Costituzione e un percorso (nazionale e internazionalista) di “democrazia progressiva”.

Con il Congresso del 1956 e il varo della via italiana al socialismo a maggior ragione si conferma la diffidenza verso operazioni che depotenzino la dimensione nazionale: l’Europa non è considerata un utile terreno per politiche redistributive. A Roma, il 25 marzo 1957, vedono la luce i Trattati istitutivi della Comunità Europea per l’Energia Atomica (EURATOM) e della Comunità Economica Europea (CEE), in vista di un mercato comune (MEC). Il movimento federalista giudica i Trattati un passo indietro rispetto alla proposta di CECA e CED e critica l’inaugurazione di organismi condizionati dagli Stati nazionali. Su un versante opposto, il Pci ufficializza la sua posizione inquadrando i Trattati nell’orbita atlantica e dichiarandosi per una collaborazione tra Stati che non leda la sovranità nazionale. In una risoluzione della Direzione Nazionale si legge: “Vi è il reale pericolo che tutta l’economia italiana, fatta eccezione per alcuni grandi settori monopolistici, venga a essere trasformata in un’ampia area depressa”. Una condizione che rende impossibile una strategia di riforme di struttura. Il giudizio sui dati strutturali è netto: “Il MEC significa meno esportazioni e meno produzione industriale, licenziamenti e più basso tenore di vita operaio, via libera alle grandi industrie private per smantellare l’industria di stato”. Luigi Longo sintetizza così: “Il MEC è uno strumento fatto su misura dalle forze monopolistiche e atlantiche”.

Questi i giudizi di ieri. Oggi, in un contesto storico ovviamente diverso, non è tuttavia meno decisa la critica dei comunisti all’Unione europea. Il lavoro di Cangemi contribuisce in ogni caso al conseguimento di un giudizio informato, offrendo ad esso la giusta profondità storica (e smascherando le ricostruzioni infondate).

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