Primo Maggio, una festa?

di Liliana Frascati

Mercoledì, 1° maggio, Festa del lavoro o dei lavoratori, si terrà, in Piazza dei Signori a Padova, la tradizionale celebrazione con accompagnamento musicale, mentre a Roma, in piazza San Giovanni, il consueto concertone, voluto da Cgil, Cisl ed Uil, richiamerà molte migliaia di giovani e non giovani.
Anch’io sarò presente in piazza a Padova, come faccio da moltissimi anni, ma non riesco più a sentire denominare tale data come Festa del lavoro o dei lavoratori perché ormai è rimasto poco da “festeggiare”: la storia degli ultimi trent’anni, in Italia e non, si declina con una serie di fattori negativi: sempre maggiore precarietà, disoccupazione in crescita, diminuzione del potere d’acquisto dei salari, esternalizzazioni a bizzeffe, frammentazione dei lavori, riduzione dei servizi pubblici, impoverimento generale della classe proletaria, termine che ritengo ancora validissimo per indicare la diseguaglianza sociale in crescita, mi fermo qui ma ogni lavoratore ed ogni lavoratrice potrà allungare l’elenco.
Pertanto, se non è più una festa , almeno per me, essa potrebbe essere una commemorazione dei decenni dal 1960 al 1990 che videro rapporti di forza più favorevoli nell’eterno conflitto fra capitale e lavoro oppure una giornata che possa aprire una nuova stagione di lotte sindacali e politiche per riconquistare il terreno perduto.
Ricordo che la giornata del 1° maggio nacque a Parigi, come proposta della Seconda Internazionale, quando si tenne una grande manifestazione per chiedere alle autorità pubbliche di ridurre la giornata lavorativa a otto ore.
Il tema dell’orario di lavoro che nell’800 contava 16 ore giornaliere è sempre stato un cavallo di battaglia del sindacato e delle masse lavoratrici ed, in Italia, fu portato alle 48 ore settimanali, cioè 8 ore giornaliere, con un accordo siglato fra la Fiom ed il padronato metallurgico.
Ma oggi come siamo messi con l’orario? Meglio (la legge ne prevede 40) ma negli ultimi anni si è affermata una sempre maggiore flessibilità, ragione per cui è il datore di lavoro a gestire spesso, se non sempre, in maniera unilaterale, l’articolazione degli orari che prevede variazioni di turno, part time involontari, straordinari discontinui, spesso alla faccia della tanto decantata conciliazione fra orari di vita ed orari di lavoro, soprattutto per quanto riguarda il lavoro di cura.
L’orario di lavoro può ancora essere argomento principe del conflitto sindacale, soprattutto con l’obiettivo di lavorare tutti e lavorare meno, per fare fronte, almeno nel mondo occidentale, alla sempre maggiore meccanizzazione ed informatizzazione che tende a ridurre il bisogno di manodopera.
Inoltre, contro la frammentazione delle tipologie lavorative, lavoro a contratto contro il lavoro con partita Iva, lavoro in fabbrica contro il telelavoro e simili, ridurre l’orario di lavoro, a parità di retribuzione, rimane, a mio avviso, il terreno principale di unificazione del moderno proletariato, senza la quale i lavoratori e le lavoratrici possono solo uscire sconfitti dal conflitto con il padronato.
A duecento danni dalla pubblicazione del “Manifesto” vale sempre, se non di più, l’esortazione marxista “proletari di tutto il mondo o, con migliore traduzione, di tutti i paesi unitevi!”.

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