SOGNO E SCHIAVITU’ AMERICA E EUROPA

di Lamberto Lombardi

Nel nostro mondo esistono limpide certezze e realtà solidamente percepite ma alcuni dati, pur noti, giacciono come dimenticati negli ultimi cassetti della nostra attenzione. Sono dati eversivi, a volte misteriosi, che, come tutti i veri misteri, nascondono gli elementi mancanti per una corretta lettura dell’esistente.
La popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà è più alta negli USA che in Venezuela. Questo fatto è oggettivamente reale ma purtuttavia incredibile, si scontra con quello che quotidianamente vediamo del disagio del Venezuela e dei suoi tanti profughi in Colombia e, al contrario, del benessere nordamericano da dove nessuno cerca di fuggire in cerca di una condizione migliore. E il mistero cela evidentemente in sé elementi di scandalo indicibile se mai abbiamo potuto assistere ad un qualsiasi dibattito in cui venisse affrontato.
Il fatto che stiamo parlando di un sistema dominante che drena un quarto delle risorse mondiali per una popolazione che, invece, è un ventesimo di quella totale non diminuisce gli interrogativi ma li aumenta e rende ancora più inspiegabili i senzatetto yankee che sono un quarto della popolazione mentre i carcerati ammontano al 3% (come se a Brescia avessimo 30.000 carcerati invece dei 400 attuali). Lo stesso dicasi se consideriamo altri parametri noti come gli omicidi, la tutela sanitaria, i decessi in età infantile e, finamai, i tassi di alfabetizzazione. E’ dunque una ricchezza nemmeno destinata ad una nazione ma ad una parte di essa. E non esiste, come ha potuto esistere in passato, una variabilità di questi dati in relazione a una crisi economica o ad un cambio di amministrazione. No, questi dati sono ormai stabili nella loro sostanza, da Bush a Obama a Trump. Eppure a milioni intraprendono lunghi viaggi per arrivare ad entrare in quel paese, il più ricco della terra, a costo di affrontare il rischio di una vita intera da clandestini e, quindi, fuorilegge. Si parla di ampi strati di popolazione senza diritti, soggetti a dinamiche salariali improntate al massimo sfruttamento e privi della possibilità di programmarsi un’esistenza, si parla di schiavi. Eppure nessuna istituzione internazionale solleva obiezioni e propone correttivi.
Un sistema sociale come questo a qualsiasi altra latitudine sarebbe definito, a buon motivo, fallimentare, mentre invece si presenta coeso, proteso al dominio del globo e al proselitismo.
Sciogliere il nodo di questo enigma, di questa misconosciuta tragedia, crediamo sia indispensabile per comprendere i tempi nostri e per cercare di leggere e costruire il futuro.
Miracoli dell’egemonia militare ed economica? Al di fuori dei confini USA certo, ma all’interno esiste una evidenza di tenuta sociale in un contesto fatto di disparità gravi e secolari, disparità che però non arrivano mai a determinare richieste di cambiamento radicali ma, al massimo, rivolte per lo più su base etnica o etica.
Le motivazioni della tenuta sembrano nascondersi nella cultura americana per la quale vivendo nel paese delle opportunità chi non è in grado di sfruttarle semplicemente non ne è capace ed i limiti sono suoi, inutile andare altrove a cercare o incolpare il sistema.
Ammoniva Jack London che i poveri negli USA non faranno mai la rivoluzione perchè non si considerano poveri ma miliardari in momentanea difficoltà. D’altro canto le opportunità di riscatto, storicamente, ci sono state per milioni di diseredati che hanno potuto ‘fare fortuna’ in quel paese, magari sgozzando pellerossa e messicani, spagnoli e francesi e poi contadini e allevatori, frustando schiavi, derubando gli inadatti. Chi abbia un po’ di intelligenza, a prescindere dalla sua condizione sociale di partenza, troverà sicuramente il modo per ‘diventare qualcuno’ e quasi mai gli verrà chiesto conto di quale modo abbia usato, se ti beccano sei uno sciocco e se sei uno sciocco non ti resta che andare a giocare a Las Vegas o finire in carcere. La mobilità sociale qui c’è davvero.
E anche questa, l’esorbitante quota di violenza e di armi di cui è intrisa quella società, diviene elemento di equilibrio e sintomo di vitalità invece che espressione di disagio, scaricandosi dai singoli sui singoli, richiamando ad una repressione condivisa che, come abbiamo visto, non ha eguali al mondo producendo una popolazione carceraria che fa impallidire quella di qualsiasi altro Paese nel novecento. Questa pietanza di violenza se adeguatamente cucinata fa sì che gli stessi cittadini che in Italia votano spaventati per tutelarsi dai furti e dagli omicidi, negli USA considerino mera statistica una quota cento volte superiore di crimini. Potenza dei cuochi e fragilità delle menti.
Sembra trattarsi di una realtà in cui la preda si immedesima nelle ragioni del predatore per il solo motivo che a ciascuno si garantisce la possibilità di diventare predatore a sua volta. Come in un ecosistema lussureggiante che mantiene l’armonia con la lotta per la sopravvivenza dei suoi abitanti, ognuno predatore di qualcun altro per la selezione dei più capaci, e i poveri resti concimano il suolo.
L’impianto complessivo è garantito dalla più antica carta costituzionale in vigore, carta che tutela sopra ogni cosa l’individuo, non già nei suoi diritti basilari, casa, educazione, sanità, ma nella sua mera dimensione di iniziativa imprenditoriale, dedicandosi dalle proprie fondamenta a definire i limiti di intervento dello Stato. La forma assunta di democrazia è, nella sostanza, poco più che una casualità legata alla necessità non tanto di promuovere e tutelare la volontà popolare quanto di assecondarla ma, soprattutto, di rendere onnipresenti ed efficienti i processi di accumulo senza che gli eccessi arrivino a determinare la distruzione della macchina economica. Ogni settore della vita sociale, dalla religione alla sanità, alla scuola, ha come unico fine e come unica legittimazione il lucro. Le opzioni sociali, quelle ambientalistiche e quelle culturali rimangono mero esercizio formale che si spegne quando arriva il momento di mettere in discussione il predicato dell’iniziativa individuale e della proprietà privata.
E sembra questa la cifra concreta del confronto con le culture dello Stato Sociale: se queste ultime costruiscono un rete di tutele basate sull’uguaglianza e sui diritti collettivi quella statunitense garantisce la possibilità di diventare ricchi individualmente, possibilità destinata a restare solo sulla carta per centinaia di milioni di persone, ma è una possibilità che le altre negano. E’, più che un’utopia, una mistificazione, quella della disperazione, un po’ come il lotto a Napoli.
E’ in questo passaggio che si trova la spiegazione concreta dell’antitesi libertà-socialismo. Nell’evidenza visiva che i film e telefilm ci consegnano è facile notare come una macchina sportiva catturi più la fantasia e l’attenzione di quanto non colpisca la visione di migliaia di diseredati che pure vengono mostrati e che, della macchina sportiva, rappresentano il costo umano. La possibilità di poter acchiappare al volo parte di quella ricchezza strabordante, magari con un omicidio o un furto ben congegnato, vale di più, nelle scelte, che vedere i propri figli o i propri anziani morire di inedia o di malattia per la povertà in un paese che non possiede un sistema sanitario nazionale.
La potentissima macchina cinematografica costruisce, per pochi dollari, minuto per minuto, l’immaginario, quella rappresentazione di sé verso cui protendersi, corroborando ogni efferatezza con i buoni sentimenti e con il lieto fine. Nella particolare funzione religiosa che assume il cinema gli statunitensi vanno in sala per peccare, pentirsi, fare penitenza, venire assolti sino alla catarsi del buon finale nell’osservanza di due comandamenti fondamentali: giustificarsi, nel senso letterale del termine ovvero rendere giusto ciò che si fa, e non annoiarsi .
E se la giustificazione formale sempre presente è la giustizia e la vittoria della bontà, nella sostanza cosa giustifica di più qualsiasi eccesso se non abitazioni regolarmente di trecento metri quadri con piscina vista mare, auto fuoriserie, vite sentimentali vorticose, matrimoni da favola, cene sfarzose e divertenti? Per chi guarda non vi è dubbio alcuno: quella è l’America, la più grande carota mai pensata.
E come negare che sia più interessante questa convivenza con la violenza e col sopruso per il raggiungimento della felicità materiale, con l’ambizione di forgiare così una classe dirigente pronta a tutto, piuttosto che la noia di una società che ti tutela e ti preserva dalla violenza ma che ti toglie i sogni individuali e bestiali mantenendoti in una sorta di imbelle abulia? Breivik e la sua dottrina non sono tanto distanti da qui.
Oltre che ad una ricerca di consenso si punta alla complicità diretta come quella che si cerca celebrando in infinite produzioni cinematografiche il ladro buono che lotta contro quello cattivo. Se il furto è una costante, una parte di questo viene sublimato in una funzione positiva. Quale è, quindi, la vera capitale degli USA ? Washington D.C. o Las Vegas? A cementare le complicità ci sono dei nemici, immancabilmente vestiti come senzatetto e drogati, gli zombie che rabbiosi e senza motivo alcuno possono contagiarti e farti morire dentro, o i terroristi la cui unica caratteristica comune è l’invidia per il tuo invidiabile status.
Che giudizio dare è quindi operazione non semplice: dare per buona la magnificenza della rappresentazione esibita o adottare il metro reale di giudizio sociale, strumenti entrambi in larga misura e in diverso modo contraddittori, l’uno perchè non dà conto dei problemi e l’altro perchè non spiega il consenso reale?
Ora pensiamo che l’unico interrogativo che dobbiamo porci è se e come quello di cui parliamo sia un modello in grado di essere condiviso da tutto il mondo, replicando ovunque la stessa capacità di tenuta e gli stessi effetti ‘positivi’. La risposta non può che essere negativa, a meno di non pensare che le risorse mondiali si possano decuplicare d’incanto per sostenere questa crescita. A meno di non valutare che quale crescita ci potesse essere non verrebbe suddivisa equamente perchè il vigente modello globale NON è un modello equo per sua stessa definizione e si basa sulla ricchezza e l’attrattiva del ruolo dominante. Diversamente non ci sarebbe bisogno del ‘pugno di ferro’ per gestire ogni angolo del globo. A meno di non ritenere accettabile trasformare anche il nostro sub-continente in un carcere a cielo aperto.
Già ora il panorama internazionale che ne deriva è segnato da quella sociopatia di fondo per la quale per dotarsi di un sistema sanitario nazionale gratuito per tutti i cittadini devi prima premunirti col possesso di una bomba atomica pena la cancellazione dalla carta geopolitica.
Che questo sistema di relazioni sia anche quello che garantisce quel drenaggio di risorse che conosciamo che dal mondo affluiscono negli USA è la verità scandalosa che viene trasmutata nella vittoria della democrazia e della civiltà.
Il motivo per cui il modello vincente del capitalismo avanzato ci sta così interessando non attiene a una qualsiasi posizione preconcetta o, come si direbbe, ideologica. Notiamo, anzi, che tutto ciò che gli USA producono, anche di tragico, nelle loro relazioni internazionali è già stato da essi vissuto nelle loro peculiari modalità di convivenza in patria, a indicare una coerenza di fondo che proprio un difetto non sarebbe. Né, almeno in questa sede, è in discussione la loro scelta, facciano quello che vogliono a casa loro.
Il problema sta nel fatto che, pur nella dimostrata insostenibilità globale di quel modello, nel suo procedere cieco esso sta lentamente contaminando l’Europa, altro polo del benessere economico, benessere costruito, tuttavia, su basi assai diverse nell’ultimo dopoguerra.
Per il Vecchio Continente sono questi decenni di declino, decenni in cui sta consumando l’abdicazione al proprio storico ruolo geo-politico, improntato ad una peculiare soluzione sociale ma tramontato col venir meno dei ‘blocchi contrapposti’, e paga ora a caro prezzo la complicità con gli omicidi di Aldo Moro e Olof Palme e la dimenticanza, denunciata da Domenico Losurdo, della propria recentemente acquisita missione anticoloniale.
Scomparsa così ogni forma di ‘terza via’, ogni forma di visione autonoma che fece dell’Europa una speranza per il Terzo Mondo, non resta che l’accettazione del ruolo di provincia dell’impero nel modello coloniale in vigore, la cui sanzione politica a strutturale è stato il trattato di Maastricht, trattato dettato altrove e trascritto fedelmente. Era il ruolo previsto per noi come per chiunque altro al di fuori degli USA, perchè la visione del mondo basata sulle libertà d’impresa dà vita a quella geopolitica sociopatica di cui accennavamo in cui conta solo il capo che non ha comprimari, soci od alleati ma solo complici tenuti a tutelare in primis il tenore di vita americano cercando al massimo di farne parte subalterna, di condividerne gli avanzi più corposi e tenuti a rinunciare a qualsiasi altro modello di sviluppo.
Gli effetti si cominciano a vedere nelle nuove generazioni. Cancellata con instancabile tenacia l’idea che uno Stato debba provvedere a dare futuro ai suoi figli, milioni di giovani europei, privati del proprio passato e colonizzati nell’immaginario, hanno cominciato a ‘tirarsi su le maniche’ e a vagare per il mondo all’inseguimento del proprio ‘sogno’. Giornalisti, calciatori, fotografi, chef, traduttori, mediatori di commercio, scrittori, musicisti, disegnatori, stilisti, pittori o semplici operai e viaggiatori popolano il nostro ed altri paesi con due denominatori in comune: la sottocultura del successo e che vengono pagati poco o poco di più sopravvivendo per lo più con le sovvenzioni parentali. Ovvero con le pensioni dei genitori, ultimo residuo del tempo giurassico in cui funzionavano le tutele al lavoro. Uno su dieci trova impieghi ben remunerati, tutti rinunciano a relazioni stabili e a un futuro su cui contare. Perché arrivare ai quaranta-cinquant’anni è un attimo, finiranno le energie, le assunzioni e resterà un futuro gramo di contributi mai pagati e di acciacchi che arrivano per sé e i propri cari e, spesso, la solitudine.
Anche qui la tenuta sociale viene garantita da un occultamento condiviso: la schiavitù, di fatto insita nei lavori in nero, nella Partite Iva finte, nella sottoccupazione, nel lavoro non pagato o sottopagato, nell’apprendistato gratuito e infinito, viene rinominata e diviene sviluppo della professionalità, gavetta, ricerca della propria strada, acquisizione di curriculum adeguati, ecc. Tutto questo in attesa di raggiungere il sogno promesso. Il fatto che stiamo parlando di una schiavitù privilegiata, ovvero di soggetti cui i genitori pagano la casa, le ferie e l’auto, non ne muta il significato. Se mai scopriamo invece gli attributi della schiavitù in tutta la loro estensione: impossibilità di programmarsi la vita, subalternità economica, culturale e politica. Con negli occhi la casa di trecento metri quadri vista mare.
Amaramente si dovrebbe comprendere, dopo averli commiserati per secoli, la vita e il destino dei miliardi di profughi dalle colonie, ma ci si sente troppo più vicini al sogno di loro per capire la realtà delle nostre vite.
Chi tanti anni fa sfilava con gli striscioni inneggianti all’immaginazione al potere non pensava che l’approdo sarebbe stato questo e dovrebbe oggi interrogarsi: quale immaginazione, l’immaginario di chi? Perchè colonizzare l’immaginario si è dimostrata operazione più redditizia della stessa colonizzazione economica.

Lamberto Lombardi

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