La polveriera siriana, tra tragedie umanitarie e progetti coloniali

di Emiliano Alessandroni

“Assad, mostro umano assetato di potere e di sangue (“un animale!” come l’ebbe a definire Donald Trump) dall’alto della sua perfidia, di tanto in tanto si sveglia la mattina e, per puro divertimento, comincia a bombardare i bambini del proprio popolo.

Prima questo tiranno viene destituito con ogni mezzo, prima la tragedia umanitaria si conclude. Un intervento Nato sarebbe quello che ci vorrebbe per riportare ordine in quella situazione.

Peccato per l’animale Putin che si è messo in mezzo, difendendo l’animale Assad e aiutandolo a bombardare i bambini, altrimenti la Nato sarebbe già da tempo intervenuta e avrebbe rimesso tutte le cose in ordine (come nella ex Jugoslavia, come in Afghanistan, come in Iraq e in Libia, dove è una fortuna che il mostro Milošević, i mostri talebani, il mostro Saddam Hussein e il mostro Gheddafi siano stati cancellati dalla faccia della terra)”.

È questa la storia che, sia pure con altri termini, ci raccontano i media occidentali. Ma è una storia di antica data, che affonda le radici nella tradizione coloniale dell’Occidente stesso: i nativi dei paesi da conquistare venivano infatti descritti, dalla pubblicistica europea, come cannibali e i loro governi come feroci tirannie. Bisognava quindi portare la civiltà dove regnava la barbarie o, secondo la terminologia dei tempi più recenti, la democrazia dove imperava la dittatura. In ogni caso, oggi come ieri, “the white man’s burden”, “il fardello dell’uomo bianco”, appare inamovibile dalle nostre spalle e le richieste di missioni umanitarie, a colpi di cannoni, non possono essere disattese.

Fortunatamente non tutti abboccano a questi resoconti mediatici. Alcuni hanno accumulato sufficiente esperienza per capire che esiste un’industria dell’indignazione messa in moto dall’Occidente (e in particolar modo dall’asse Usa-Israele) che, da parte sua, non ha mai rinunciato ai propri progetti coloniali.

Ma al di là di tutto questo, che cosa è successo effettivamente in Siria? Assad si è di nuovo svegliato male? Ha dormito scomodo dando quindi al risveglio un nuovo ordine di trucidare i bambini? È un’ipotesi.

O forse, molto più realisticamente, è successo questo:

Il 27 febbraio 2020, il gruppo terroristico Tahrir al-Sham (costola di Al-Qaida), che occupava la città di Idlib, sferra un feroce attacco contro le postazioni militari del governo siriano. L’esercito governativo reagisce e risponde al fuoco degli jihadisti. Nel corso della battaglia vengono uccisi, oltre naturalmente a numerosi innocenti (come accade in ogni guerra, giacché sarebbe il caso finalmente di capire che “guerra” e “vittime innocenti” sono in qualche modo sinonimi), anche 33 soldati turchi.

Tra le proteste e i più che comprensibili moti di indignazione di fronte alle vittime innocenti, occorrerebbe anche porsi la domanda: che cosa ci facevano i soldati turchi di Erdogan in Siria, a Idlib, insieme ai terroristi islamici di Tahrir al-Sham?

Sembra non ci sia dato saperlo. Quel che sappiamo, però, è che Erdogan è furioso, vuole l’intervento Nato, vuole che Assad venga fatto fuori. Ha il consenso di Trump, ma ha bisogno anche di quello dell’Europa.

Ordina quindi di bombardare l’esercito del governo di Damasco, uccidendo e ferendo, secondo quanto ha riportato, 327 soldati siriani. Inferocisce in sostanza il conflitto con la Siria, scatena una nuova ondata di profughi e li riversa sull’Europa come una pistola puntata alle nostre tempie per ricevere il consenso e il supporto militare di cui ha bisogno contro il governo Assad.

Quando si parla di Siria non si deve mai dimenticare che si sta parlando di un paese sotto uno stato d’assedio quantomeno decennale: il terrorismo islamico (Isis, Al-Qaida, Al- Nusra), il cosiddetto Esercito Siriano Libero (sempre più infiltrato da jihadisti e forein fighters), la Turchia, l’Europa, Israele, gli Stati Uniti hanno tutti operato, talvolta separatamente, talvolta congiuntamente, per abbattere l’attuale governo attraverso la via militare. E questo avviene da almeno 10 anni.

La Siria è un paese in ginocchio (case abbandonate, sostanze chimiche disperse, opere d’arte distrutte, scuole e ospedali rasi al suolo, sogni infranti, shock psicologici, ondate di profughi improvvisamente privati di ogni diritto e trattati come bestie), ma è un paese che sta cercando in tutti i modi di rimettersi in piedi. Questo tentativo, però, non a tutti piace: non certo agli Usa, non certo a Israele e non certo alla Turchia.

Denunciamo l’orrore ogni volta che si presenta ai nostri occhi, ma non confondiamo mai, nella nostra mente, l’invasore con l’invaso. È tragedia umanitaria in Siria, non ci sono dubbi: una tragedia che, sommata a tutte quelle inflitte a quel popolo negli ultimi 10 anni, diventa ancora più terribile.

Vogliamo fare qualcosa per fermarla? Chiediamo in primo luogo a gran voce che tutti i contingenti militari stranieri entrati illegalmente in territorio siriano abbandonino la Siria. Chiediamo ad Erdogan di ritirare le sue truppe di occupazione da Idlib. Denunciamo ogni supporto economico e ogni vendita di armi ai gruppi di terroristi che operano nel paese mediorientale. Domandiamo a tutti gli Stati – ma in primo luogo a quelli più potenti del globo che hanno interesse a sostituire il sistema di norme consolidato con la legge della giungla – il pieno rispetto del diritto internazionale. E degniamoci almeno di accogliere l’ondata di profughi e disperati che noi stessi abbiamo contribuito a provocare.

La prima condizione affinché in un paese vi sia libertà è che quel paese venga lasciato libero. Nessuna reale democrazia è possibile sviluppare in un paese sotto assedio. Permettiamo alla Siria di uscire da quello stato d’eccezione permanente in cui i nostri stessi governi hanno contribuito a farla precipitare. Denunciamo tutte le ingerenze straniere, a cominciare dalle infiltrazioni militari. E ricordiamo che, per quanti discorsi filocolonialisti possiamo ascoltare, l’umanità non si esporta militarmente ma si mette in pratica politicamente.

Rifuggiamo dalla propaganda sensazionalistica e manteniamo, per quanto ci è possibile, quello che, ormai molti decenni or sono, György Lukács aveva definito “il punto di vista della totalità”.

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