Recensione a Bruno Steri, Itinerari comunisti: tra crisi del capitalismo e involuzione della sinistra

di Francesco Galofaro, CUBE, Bologna (dal sito www.marx21.it)

Roma: DeriveApprodi, 2018, pp. 210

Ho letto con piacere il volume pubblicato da Bruno Steri per DeriveApprodi. Dirigente del nuovo PCI, Steri è un filosofo prestato alla politica. Il suo punto di vista è più allenato di altri a cogliere con chiarezza, semplicità e stile certe dinamiche culturali immanenti ai fenomeni politici che negli ultimi anni hanno punteggiato la storia contemporanea: dalla caduta dell’URSS e la contestuale ascesa della Cina fino alla crisi del neoliberismo e del suo esperimento più riuscito, l’Unione europea; dall’ascesa di nuove destre e movimenti anti-politici al governo giallo/verde. Conclude il volume un’esposizione delle ragioni che portano i comunisti a privilegiare la forma-partito, sia pure in forme nuove, e a lottare per riorganizzarsi.

La prospettiva filosofica

Bruno Steri colloca le sue riflessioni a cavallo di due grandi terreni di indagine: filosofia politica, declinata in chiave marxista, e filosofia del linguaggio. Si tratta di una tradizione nobile del pensiero italiano del secondo Novecento: pensiamo in primo luogo a Ludovico Geymonat, ma anche a Ferruccio Rossi-Landi o, più di recente, Massimo Bonfantini e Augusto Ponzio. Richiamandosi en passant ora a Wittgenstein, ora a Charles S. Peirce, l’autore non trascura di considerare, in maniera piuttosto esplicita ma mai tecnica o pedante, i giochi linguistici che individuano alcune forme di vita collettive: la nuova destra, la Lega salviniana, il Partito comunista cinese (cf. ad. es. p. 39), la sinistra che ha provato a spingersi “oltre Marx, verso Nietzsche” (p. 144).

I nuclei tematici

La prima e la seconda parte del volume sono dedicate a uno sguardo comparativo tra tre grandi leviatani: il comunismo sovietico nell’epoca del suo declino; il capitalismo neoliberista, la sua ascesa e la sua crisi; il comunismo cinese, del quale l’autore restituisce una testimonianza diretta in un periodo cruciale di transizione tra la segreteria di Hu Jintao e quella attuale di Xi Jinping.

La terza parte segue da vicino la catastrofe del pensiero politico di sinistra in Italia. La sinistra moderata rinuncia a ogni residuo elemento di socialdemocrazia, sposa il liberismo, si far partito “ben-ben”, ossia dei benestanti-benpensanti; la sinistra radicale tradisce Marx con Toni Negri, adottando proposte politiche obsolete quanto parche di risultati, e liquida la forma-partito ereditata dalla tradizione del movimento operaio favorendo in tal modo il gioco dei liberali. All’abbandono del tema del lavoro da parte della sinistra corrisponde un suo recupero da parte della nuova destra, la quale – paradossalmente – ha molto in comune con una parte della sinistra radicale, tanto dal punto di vista della critica al liberismo e al mercato quanto delle letture filosofiche (Nietzsche, Heidegger, filosofi francofortesi … ).

Caduta dell’Unione sovietica

L’analisi delle ragioni che hanno portato alla caduta dell’URSS è il grande rimosso dei comunisti: da sempre auspicata, la discussione è stata costantemente rimandata. Discutere è difficile; si è rivelato più semplice recidere ogni legame con quella tradizione inseguendo il mito di una palingenesi [1]. Al contrario, Steri non si è mai sottratto al tentativo di precisare i contorni di una seria indagine sulla storia del movimento dei lavoratori (ad es. pp. 129 – 134).

La tesi di Steri circa la caduta dell’URSS è suffragata da un grande lavoro di raccolta di documenti e dati. Secondo questa ricostruzione, le difficoltà della grande stagnazione che ha portato alla perestrojka erano dettate in primo luogo da una crisi della produttività del lavoro (p. 22). Ogni tentativo di stimolarla attraverso le riforme si è scontrato con l’obsolescenza generalizzata delle strutture produttive. Il difetto dell’URSS non consisteva infatti nella quantità, ma nella qualità della sua produzione. Le radici profonde che hanno determinato questo quadro possono essere individuate nell’adozione di un sistema di regolazione degli scambi arbitrario, dettato da ragioni politiche (pp. 29 – 30). Si è archiviata così la legge del valore, formulata dagli economisti classici e da Marx, secondo cui la fonte ultima del valore delle merci è il lavoro sociale in esse investito.

Ascesa della Cina

Pare essere quest’ultima una differenza cruciale che ha determinato il successo di un’altra economia socialista: quella cinese. Come vedremo, affermare che la Cina avrebbe adottato un’economia capitalista è una semplificazione ideologica [2]. Allo sciocchezzaio incontrollato del discorso occidentale sulla Cina contrapponiamo volentieri il reportage di Steri dalla Cina. L’autore descrive senza pregiudizi ciò che ha avuto modo di apprezzare, senza trascurare le contraddizioni del “socialismo con caratteristiche cinesi”. Quel modello di sviluppo vede infatti una rapida crescita della ricchezza e del benessere, ma è causa di squilibri tra città e campagna; l’inurbamento della popolazione ha le caratteristiche di un esodo, ma non produce favelas o baraccopoli come accade nel mondo capitalista (p. 45); la Cina è il paese delle fabbriche modello e dello sfruttamento più sregolato, ma questo re-innesca la lotta di classe e l’azione dei sindacati promossa dal partito comunista; sono proprio gli investitori occidentali in Cina i primi a opporsi alla tutela e all’ampliamento dei diritti dei lavoratori (pp. 50-51). Tutto questo è mercato sotto il controllo dello Stato: lo sviluppo dell’economia privata ha la funzione di consolidare quella pubblica (p. 55). Se in Occidente la politica è al servizio dell’economia, in Cina è l’economia a essere al servizio della politica. Questo ha permesso all’economia cinese di integrarsi in quella mondiale e di divenire un fattore essenziale di pace in un contesto, quello della crisi planetaria, gravido di minacce (pp. 43 – 44).

Tre dogmi del capitalismo

Steri orecchia la nota critica di Willard Van Orman Quine all’empirismo per denunciare a sua volta la natura dogmatica del neoliberismo. Il sapere degli economisti mainstream, per converso, sembra ben poco suffragato da fatti empirici. In sintesi (pp. 78 e ssg.):

1) Non c’è un rapporto dimostrato tra flessibilità e occupazione;

2) Non c’è un nesso causale tra privatizzazioni e sviluppo, specie perché le privatizzazioni portano allo smantellamento di ogni politica industriale;

3) Il pareggio di bilancio non porta necessariamente effetti positivi;

La natura dogmatica della pseudoscienza economica e la crisi (pp. 85-89) mostrano bene la natura ideologica di scelte che hanno il solo scopo di consolidare il potere nelle mani di una ventina di istituzioni (bancheagenzie di ratinghedge funds) e di approfondire le diseguaglianze (p. 181). Si tratta di una tendenza alla concentrazione del potere economico nelle mani di pochi gruppi. Steri ricorda come in Germania il gruppo assicurativo Allianz sia parte del capitale di 29 gruppi industriali: una tendenza alla concentrazione e alla finanziarizzazione dell’economia che rende la lettura leniniana dell’imperialismo ancora attuale (p. 137).

Tecnica e sviluppo

La tecnica occupa un ruolo privilegiato nelle osservazioni di Steri sulle cause della crisi economica. L’autore ci ricorda che la crisi è stata preceduta da un grande sviluppo tecnologico legato alle tecnologie della comunicazione. E’ un esempio di come il progresso tecnico non valorizzi necessariamente il capitale in esso investito (p. 72). Nel seguito del volume l’autore esplicita meglio questa tesi: da una parte, le nuove tecnologie aumentano la produttività e diminuiscono il tempo sociale dedicato alla produzione di un dato oggetto; d’altro canto, questo fenomeno è redditizio solo se l’aumento di lavoro necessario a produrre il nuovo macchinario risulta minore della diminuzione di lavoro determinata dal suo uso. Se questo non avviene, la speculazione finanziaria crea intorno alla tecnica una bolla speculativa: un buon esempio è la crisi delle borse avvenuta nel 2001, innescata dai titoli tecnologici (p. 140).

La mutazione della sinistra moderata

Se la prima metà del volume indaga le sorti del socialismo e del capitalismo in Europa e nel mondo, la seconda è dedicata al problema della crisi della sinistra italiana: una crisi culturale e ideologica che l’ha portata all’attuale insignificanza. Tale crisi è innescata, nella sinistra moderata, dall’abbandono di qualsiasi residuo obiettivo a carattere socialdemocratico: un processo che risale alla gestione di D’Alema e di Veltroni, e che ha portato il partito maggioritario della sinistra italiana a sposare liberismo, aziendalismo, modello americano, fino a considerare il lavoratore maschio adulto come un “privilegiato” (p. 114 e ssg). Come sottolinea l’autore, l’impianto socialdemocratico non è stato sostituito in forza dell’elaborazione di strumenti concettuali originali che permettessero analisi e proposte politiche innovative. La sinistra moderata si è lasciata semplicemente sussumere al di sotto dei più diffusi luoghi comuni e scontate amenità degli apologeti del mercato, dimostrando una desolante povertà filosofica e culturale. E’ a questa sinistra che l’Italia deve la precarizzazione del mercato del lavoro e l’abolizione dell’articolo 18. E’ chiaro che le radici del successo di movimenti populisti e di nuova destra vanno cercati qui, nella sinistra che vince ai Parioli e perde a Tor Bella Monaca e nella mutazione della cultura politica del PD (p. 180 e ssg.).

La mutazione della sinistra radicale

Si direbbe che la sinistra radicale sia stata colpita da un morbo simile a quello del PD, sebbene in forma attenuata. Infatti, proprio nel periodo in cui la sinistra liberale apre la propria offensiva contro i diritti del lavoro, nel discorso della sinistra anti-liberista il lavoro perde centralità. Su un piano teorico, i processi di creazione del valore si sarebbero smaterializzarti dai luoghi di lavoro per estendersi alla società nel suo complesso, per dirla con Toni Negri (p. 153). Di conseguenza, su un piano organizzativo, si liquida la forma-partito. Nella visione di Marco Revelli, all’interno del movimento che ricostruisce dal basso una democrazia su scala municipale, la funzione di Rifondazione comunista è semplicemente quella di coinvolgere il proletariato tradizionale, ridotto a piccola isola dell’arcipelago (pp. 196-197). Citando un lavoro di Mordenti, Steri ricorda che un modello analogo, su ben altra scala, si era già dimostrato perdente. Nei suoi ultimi anni il PCI si era infatti ridotto al rango di mediatore tra gli interessi di organizzazioni di massa (sindacato, Udi, confesercenti, Cna, Lega delle cooperative) tramutati in gruppi di pressione. Aveva perduto così ogni ruolo dirigente e autonomia (p. 199).

Centralità del lavoro

Per queste ragioni, la crisi della sinistra moderata non si traduce nel successo della sinistra radicale, che in fondo si dimostra succube dell’egemonia culturale esercitata dal discorso neoliberale sul lavoro. I cartelli elettorali cui la nuova sinistra dà vita, composti da più sigle che elettori, non riescono credibili all’elettorato (p. 206). Come abbiamo visto, la crisi della sinistra, moderata e radicale, e la contemporanea ascesa dei populisti e delle nuove destre mostrano un’unica causa profonda: l’abbandono del tema del lavoro, da parte delle prime; il suo recupero da parte delle seconde. “Il tema del lavoro – scrive Steri alle pp. 171-172 – non è un tema come gli altri […]. Nella percezione diffusa vi sono anche altre emergenze, vedi la questione dell’immigrazione: ma noi dobbiamo sapere che se non si riesce a invertire la rotta sulle questioni del lavoro, tutto il resto si fa ancora più difficile”.

La questione nazionale

Una seconda ragione di crisi della sinistra, moderata e radicale, è stata la consegna alle destre della questione nazionale. Al di là del modo in cui essa è rappresentata dalle destre vincenti e al potere, tramite un ripiegamento regressivo sul piano del nazionalismo, la questione nazionale si pone oggettivamente. Steri cita un’istruttiva sentenza della Corte costituzionale tedesca in merito al Trattato di Lisbona. Secondo la Corte, un pronunciamento del Parlamento tedesco è sempre obbligatorio anche per quelle materie per le quali il Trattato prevede “procedure semplificate”. Questo, perché la UE che negli anni è stata costruita e guidata dalla coalizione socialdemocratico-popolare non è uno Stato federale; il Parlamento europeo non rappresenta il popolo se non altro a causa del sistema elettorale adottato; la legittimità della UE, in quanto confederazione di Stati nazionali, deriva in buona sostanza dagli stessi Stati che la compongono (p. 102). In altri termini, la UE non possiede una sovranità autonoma. Negli anni, si è costituito un meccanismo economico che premia alcuni Paesi e lega le mani ad altri, limitandone la sovranità, come hanno riconosciuto autorevoli dirigenti della sinistra tedesca (Oskar Lafontaine e Sahra Wegenknecht), francese (Jean-Luc Mélenchon), portoghese (Rui Fernandez) – cfr. pp. 108-109. Tutto questo imporrebbe anche alla sinistra radicale italiana la discussione di un piano B, e l’adozione di un profilo diverso da quello alter-europeista, fin qui tenuto, privo di risultati quanto a riforme della UE, a tutto vantaggio dei liberali conservatori.

Nuova sinistra e nuova destra

Il volume accosta, come in un dittico, due saggi di critica filosofica: una lettura critica di Impero, di Negri e Hardt (pp. 144-158); una discussione dei caratteri della nuova destra, a partire da Alain De Benoist (pp.159-169). I temi trattati e l’ampio respiro degli scritti suggerisce una lettura comparativa. Sono molte le critiche che Steri muove a Negri. La ricca metaforica postmoderna negriana (p. 148) comprende idee delle quali ci si può innamorare ma non per questo automaticamente dotate di una qualche presa sul reale (p. 144). Ad esempio, se pensiamo agli jugoslavi, agli iracheni, agli afghani, ai siriani e ai popoli coinvolti in ogni altra guerra dalla caduta del muro di Berlino ad oggi, è difficile considerare adeguata la nozione di impero, che Negri descrive come una macchina inclusiva nei confronti di ogni periferia (p. 151). Le stesse considerazioni valgono per il ritratto negriano del potere (sfuggente, capillare, esercitato da un non-luogo … p. 148): in realtà, il movimento di Genova ha dovuto fare amaramente i conti proprio con la centralizzazione e il coordinamento sovranazionale del potere. La critica del potere si trasforma in un’opzione che rinuncia all’organizzazione strategica del mutamento sociale, della rivoluzione. Forse questo può spiegare la completa assenza di risultati ascrivibile a questa suggestiva contro-teoria politico-insurrezionale, precocemente invecchiata.

Il problema principale della nuova sinistra appare tuttavia più profondo e filosofico e coincide con l’abbandono di una lettura dialettica della storia. La dialettica è anzi il bersaglio polemico degli autori di riferimento di Negri (Foucault, Deleuze, p. 146). Hegel e Marx sono sostituiti da Nietzsche: da opposizioni in perenne conflitto, il cui oltrepassamento può accadere solo a causa di un “evento” razionalmente imprevedibile, uno scarto, una qualche nuova affermazione positiva oltre la negazione [3]. Steri mostra competenza e rispetto nei confronti dell’opera di Nietzsche. Ciò che non funziona, dal suo punto di vista, è la traduzione diretta in proposta storico-sociale della sua prospettiva di sul disagio della civiltà. Come scrive Steri, Nietzsche individua

«da un lato, l’istintualità che cova nel sotto della storia (così come nelle profondità della psiche) e, dall’altro, i meccanismi di razionalizzazione, visti in ogni caso come fittizi e avventizi, che costituiscono il sopra, il visibile (regole dei rapporti intersoggettivi e di convivenza sociale, usi, istituzioni ecc.)».

Nietzsche individua un’inquietudine a modo suo ineliminabile, immanente a qualsiasi formazione sociale. Negri e Hardt cercano di intercettarla per contrapporla alla razionalità politica, per tessere l’elogio del nuovo barbaro, del rifiuto di ogni mediazione, della ribellione. Una mitologia fin troppo simile a quella che agita la nuova destra, come ci accingiamo a mostrare. Oltre Nietzsche, troviamo altre letture comuni: Spengler, Jünger, Heidegger, e ogni altro autore di estrema destra che sia stato recuperato da intellettuali di sinistra nella seconda metà del Novecento. A propria volta, la nuova destra rivaluta la scuola di Francoforte, Hannah Arendt, André Gorz (pp. 163-164) in quanto filosofi critici della modernità. Anche dal punto di vista tematico molto accomuna i due “nuovismi” di destra e di sinistra; il rifiuto della modernità, la condanna dell’illuminismo, la critica al primato dell’economia, alla “megamacchina” mercantile, alla tecno-scienza (p. 163); il ritorno al locale, alla rete cooperativa, allo spirito comunitaristico (p. 167). Si obietterà che la nuova destra non si è fermata nemmeno di fronte al recupero di Marx. Tuttavia, Steri mostra come questo avvenga attraverso una sorta di gioco di prestigio, che comporta la sostituzione della contrapposizione di classe (capitale/lavoro) con l’opposizione élite/popolo e dunque l’abbandono degli strumenti di analisi che caratterizzano il marxismo [4].

Il partito comunista

Dopo aver descritto le tante disavventure del marxismo, dei comunisti, della sinistra a cavallo tra i due millenni, l’ultima parte del volume cerca di trarre alcune conseguenze e ragionare sulla ricostruzione di una prospettiva comunista in Italia. A partire dagli anni ’90 abbiamo assistito all’autoliquidazione dei partiti organizzati, comunisti compresi. Così si è data una mano insperata ai liberali, impegnati nella costruzione di una pseudo-democrazia all’americana, basata su comitati elettorali e gruppi di interesse, che esclude ogni potenziale cambiamento anche in forza del sistema elettorale. Ancor oggi alcuni portavoce della borghesia cosmopolita, direttori di giornali e consiglieri politici dell’ala ultraliberista del PD mal sopportano il fatto di dover pagare un dazio al “popolo delle sezioni” e aspirano a una soluzione politica alla Macron.

Al contrario, lavorare alla ricostruzione di un Partito comunista è necessario per una palingenesi della sinistra: occorre restituire voce, diritti e sovranità alle classi lavoratrici, i cui interessi sono maggioritari. Steri sintetizza in tre punti le motivazioni: “(1) la presenza e l’azione di un partito comunista organizzato è un mezzo insostituibile sulla strada della trasformazione sociale; (2) la capacità di apertura alla società del partito comunista è funzione stretta della sua (rivoluzionaria) direzione di marcia; (3) i movimenti di massa costituiscono altrettante irripetibili occasioni per far crescere nel tessuto sociale il progetto di cambiamento”. Idealmente, si tratta di un circolo entro il quale il partito alimenta il movimento, il movimento consolida il partito (p. 200).

Economia Vs. Ecologia [5]

Vorrei concludere questa lunga recensione con il tema ambientale, che rappresenta il nostro presente e l’immediato futuro. Nel lavoro di Steri, il tema ambientale non trova collocazione in un capitolo a se stante, ma emerge periodicamente a far da filo conduttore per le sue considerazioni. Ad esempio, nel il primo capitolo, il cui nucleo originario è stato scritto “a fine millennio”, l’autore si interroga sull’attualità della rivoluzione d’ottobre. In quel periodo non si era avuta ancora la gravissima crisi del 2007; non erano evidenti le conseguenze della caduta tendenziale del saggio di profitto, in atto dalla fine degli anni ’60; l’economia occidentale registrava moderati tassi di crescita; aumentava perfino il PIL italiano, sia pur di poco. In quel contesto, Steri poneva in primo piano la contraddizione uomo-natura, le devastazioni ambientali che già allora mostravano l’intrinseca irrazionalità del progetto sociale capitalista (p. 14). Similmente, il capitolo che affronta la crisi del 2007 si apre citando l’irresponsabile dichiarazione di Lawrence Summers, negli anni ’90 vicepresidente della banca mondiale, il quale non trovava proprio nulla di male nel de-localizzare le produzioni inquinanti nel terzo mondo (p. 67). Posizione che rivela la miopia, l’ottusità e il razzismo che anima a un tempo i liberali. Nello stesso capitolo Steri nota l’effetto salutare che la locomotiva cinese ha avuto sull’economia planetaria, ma non può fare a meno di porre un interrogativo inquietante: se lo sviluppo delle periferie e dei nuovi mercati riuscisse ad arrestare il declino dell’economia mondiale, esso non garantirebbe comunque la salute del pianeta, la tutela della quale non può essere pertanto lasciata alla spontaneità del mercato (p. 75). Le stesse preoccupazioni muovono un liberalintelligente come Galbraith e uno storico leader comunista come Fidel Castro, che in uno dei suoi ultimi discorsi denunciava appunto l’insostenibilità di un sistema economico basato sul gioco d’azzardo (p. 123).

NOTE

[1] Ci riferiamo alla caccia alle streghe che Bertinotti e i suoi scherani hanno promosso nel partito prima e dopo il congresso di Venezia. Si realizzò l’espianto di Rifondazione comunista dalla storia del movimento comunista e delle sue organizzazioni maggioritarie, contestualmente alla fondazione della Sinistra Europea. L’isolamento e l’ostracismo nei confronti dei comunisti, accusati di stalinismo, come l’abbandono dell’analisi classica sull’imperialismo nell’ambito delle relazioni internazionali erano funzionali a proporre compromessi di governo con i socialdemocratici, senza discutere la collocazione italiana sotto l’ombrello della NATO, come prova la triste parabola del secondo governo Prodi.

[2] Il discorso occidentale sulla Cina è intimamente contraddittorio nel suo riferirsi alla Cina come a una feroce dittatura comunista, quando occorre prenderne le distanze, e a un’economia di mercato dalle grandi potenzialità, quando è conveniente per gli investimenti. Esso individua due categorie di persone: (a) quelli che la Cina non l’hanno mai vista; (b) quelli che hanno bisogno di difendere ideologicamente e a oltranza il capitalismo, in barba ai suoi clamorosi fallimenti, crisi, diseguaglianza, instabilità sociale: se anche la Cina è capitalista, allora il capitalismo vince anche quando l’Occidente è in crisi, recessione, declino.

[3] Per un confronto tra le rispettive logiche del marxismo e del nichilismo si veda anche http://www.marx21.it/index.php/storia-teoria-e-scienza/marxismo/29451-recensione-del-libro-di-carlo-galli-qmarx-ereticoq. E’ chiaro che l’adozione di una qualche forma di pensiero dialettico non è condizione sufficiente a distinguere destra e sinistra; tuttavia, a parere di chi scrive, l’aver sposato le suggestioni del nichilismo ha avuto un altro esito inintenzionale: assimilare la posizione politica della sinistra radicale a quella del suo doppelgänger, ovvero al pensiero della nuova destra. Certamente, siamo consapevoli che Nietzsche sta a Toni Negri più o meno come Also Sprach Zarathustra di Richard Strauss sta alla versione funk di Deodato. Tuttavia, il semplice fatto che la sinistra radicale eviti di discutere temi quali la questione nazionale, la sovranità e la sua crisi, non sono sufficienti a nascondere la sua matrice filosofica comune alla nuova destra. E l’ironia è che proprio questa sinistra accusa di “fascioleghismo” l’analisi marxiana classica di esercito di riserva. Tuttavia, quanto a genealogie politologiche, il vero rossobruno è Toni Negri.

[4] Incidentalmente noto che, in Apocalittici e integrati, Umberto Eco chiamava categorie-feticcio quelle opposizioni, come popolo-élite, attraverso le quali la scuola di Francoforte prima e certa massmediologia poi hanno sostituto quella tra borghesia e proletariato. Esse hanno la caratteristica di essere a-storiche, sempre valide, e di permettere l’assunzione in premessa ciò che dovrebbe essere il risultato di un’analisi scientifica. Al contrario il marxismo serio non può esimersi da una ridefinizione storica, geografica e culturale di ciò che di volta in volta chiamia proletariato e borghesia, capitale e lavoro: queste etichette rappresentano il risultato dell’analisi.

[5] Curiosamente, entrambe le discipline di cui ci occupiamo in questo paragrafo cominciano con il prefisso eco-, oikos in greco, ovvero “casa”. Eppure esse rappresentano i due poli opposti di un conflitto inconciliabile, forse la contraddizione più nota e manifesta della nostra cultura attuale.

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