La lotta storica dei pastori sardi e la posizione del P.C.I. nel dopoguerra

Un profondo mutamento nel modo di produzione agropastorale si determinò con l’impianto delle industrie casearie in Sardegna tra il 1885 e gli inizi del Novecento. I primi stabilimenti vennero creati da imprenditori laziali e toscani desiderosi di far fronte alle crescenti richieste di pecorino romano dal mercato statunitense cui la produzione del Lazio non poteva far fronte. La pastorizia sarda aveva mantenuto nei secoli una fisionomia primitiva e la produzione era finalizzata al limitato mercato interno, al baratto, alle mere esigenze delle stesse famiglie di produttori. Le esigenze del mercato nazionale e internazionale spinsero a incrementare la produzione di latte, quindi a sottrarre terreni all’agricoltura per destinarli al pascolo. In ragione del minor numero di addetti nella pastorizia rispetto all’agricoltura si determinò una diminuzione degli occupati nelle campagne, contestualmente ad un aumento dei canoni di affitto e del costo della vita. La nuova fase imprenditoriale avvantaggiò esclusivamente la proprietà fondiaria e gli industriali che potendo fare cartello imponevano con assoluta discrezionalità un prezzo del latte talmente irrisorio da impedire qualsiasi investimento e sviluppo fino a non consentire la copertura dei costi di produzione. Se prima i pastori erano i signori delle zone interne che controllavano autonomamente l’intero ciclo di produzione pastorale, con la privatizzazione delle terre e l’impianto dell’industria casearia divengono solo un anello della catena, quello più debole e indifeso esposto ad una condizione di precarietà che inevitabilmente genera tensione verso i proprietari terrieri e gli industriali. Il cosiddetto malessere delle zone interne, i picchi nei tassi di criminalità dall’Ottocento fino a tempi recentissimi affondano le radici in questo insieme di concause. Il pastore prima era allevatore, produttore e commerciante, ora è solo un custode mungitore mentre la trasformazione e commercializzazione vengono assunti dai gruppi industriali. Un processo che ricorda molto da vicino le riflessioni di Marx sulla separazione del produttore dai mezzi di produzione nella cosiddetta fase dell’accumulazione originaria. Nella sua relazione per l’Inchiesta parlamentare del 1971 Ignazio Pirastu individuò proprio in questa contraddizione, tra la dimensione ancora primitiva dell’allevamento e la modernità capitalistica delle fasi di trasformazione e vendita dei prodotti, il punto critico della società sarda che incredibilmente ha varcato non solo l’Ottocento ma anche il secolo successivo, arrivando fino alle cronache di lotta dei pastori sardi dei giorni nostri:
“Sarà il pastore d’ora in poi a subire le conseguenze di ogni crisi di mercato, crisi che l’industriale potrà affrontare con la manovra del prezzo del latte contro il pastore ormai non più in grado di modificare la rigida componente del canone d’affitto cui si è impegnato o che ha già pagato all’inizio dell’annata agraria. (…) La mancata modifica del primitivo assetto della pastorizia e la mancata trasformazione dei pascoli urtano drammaticamente con le nuove moderne forme di produzione industriale, accentuando ed esasperando le contraddizioni, il divario e l’impronta di arretratezza che già esisteva nel secolo precedente”
Il pastore è inserito in un mercato più vasto che non può più controllare in alcun modo, ne diviene la semplice forza lavoro senza per questo mutare le forme arcaiche della sua realtà. Non è un lavoratore salariato, ma subisce allo stesso modo quel processo di alienazione tra la sua attività e il risultato del suo lavoro che Marx aveva analizzato per la produzione industriale.
(Brano tratto dal libro di Gianni Fresu, “La prima bardana”. Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento, Cuec, Cagliari, 2011)

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