“Il primo re”. Una scommessa vinta del nuovo cinema italiano

di Laura Baldelli

 

“Il primo re” di Matteo Rovere è un film degno di nota, un lavoro interessante ed estraneo ai luoghi comuni dell’ultima produzione commerciale italiana, prevalentemente comica per fare incassi. Saper far ridere è impresa ardua e il nuovo filone “commedia all’italiana” ha anche prodotto qualche buon film, ma sta degenerando nella serialità, perdendo quella creatività iniziale, che piacevolmente aveva stupito pubblico colto e critica.

In questo contesto, il film di Matteo Rovere è ardito, innovativo, espressione del lavoro di professionalità tutte italiane dell’industria cinema, che meritano attenzione e investimenti che creerebbero lavoro e ricchezza.

Senza mielosità patriottica “Il primo re” è un film creato in Italia:  scritto, girato e anche in parte prodotto, così il cast, la fotografia di Daniele Ciprì, il montaggio di Gianni Vezzosi, i costumi di Valentina Taviani, le musiche di Andrea Farri, gli effetti visivi di Valentina Visintin, Andrea Leanza, Lorenzo Tamburini. Rovere, oltre la regia, ha prodotto il film e ha firmato la sceneggiatura assieme a Francesca Manieri e Filippo Gravino.

Rovere finora si è espresso in opere completamente diverse, da “Smetto quando voglio”, a “Veloce come il vento”, fino a quest’ultimo lavoro che propone il mito della fondazione di Roma. Nel cinema italiano questa narrazione è territorio inesplorato, era solo esistito un filone di film pseudo-storici ridicoli, il cosiddetto “cinema del peplum”, interpretato da culturisti, attricette, e un filone comico-volgare.

Rovere, addirittura s’ispira al realismo per raccontare un mito, grazie alla sola luce naturale di Ciprì, che toglie quella patina, a cui ci ha abituato l’Hollywood dei colossal storici. Inoltre la scelta linguistica del proto-latino, che ha coinvolto l’Università La Sapienza di Roma, è per creare una grande distanza con il nostro mondo.

Il film costruisce una mitologia, un’epica densa di dolore, in un un’epoca che è una via di mezzo tra la civiltà primitiva e quella che verrà secoli dopo la fondazione di Roma.

Le atmosfere che ricrea sono epiche, horror e metafisiche, molte sono le citazioni cinematografiche: Valhalla Rising di Windong Refn, The Revenant di Inarritu, La passione di Cristo e Apocalypto di Gibson, Il cacciatore di Cimino , The Mission di Joffè, rivisitate con un sapiente gioco di riciclo e riuso; ma ciò che rende tutto originale e realistico è la suggestione della luce naturale di Ciprì nelle campagne laziali; senza questo elemento il film perderebbe valore narrativo. L’innovazione di Rovere si esprime proprio nella scelta stilistica del realismo per raccontare un mito e la meticolosità del “vero” nella ricostruzione ambientale, compresa polvere e fango, dei costumi, la fisicità degli attori, ricordano Luchino Visconti.

Interessante è il dubbio che genera nello spettatore su chi sia il primo re tra Romolo e Remo, così la domanda metafisica ed esistenziale di Remo (è lui il vero primo re) e la riflessione sul significato del potere, il rapporto con la divinità, il destino…..le domande eterne dell’umanità. Questi argomenti sono la chiave narrativa del film, rendendolo attuale perché l’uomo ancora s’interroga su questi temi.

Remo è interpretato da Alessandro Borghi, un attore di assoluto talento,  apprezzato recentemente nel bellissimo film di Alessandro Cremonini sulla tragica vicenda di Stefano Cucchi. Borghi entra dentro il personaggio, che è il vero eroe, ne fa un personaggio mitologico, ispirato alla hybris greca, il topos della letteratura greca e della tragedia, così da evocarci Achille e Ulisse, che sfidarono il destino e gli dei.

Altra figura da cui non si staccano gli occhi è quella della vestale, interpretata dall’ efficace Tania Garribba, altrettanto credibili gli altri interpreti, protagonisti dei duelli dove non scorre sangue digitale, ma sono “autentici” trucchi meccanici e trucchi prostetici. Alessio Lapice interpreta Romolo ferito, che per buona parte del film è poco in azione, ma anche lui intenso nel suo ruolo.

Il film di Rovere è una scommessa vinta, propone qualcosa di diverso nel nostro cinema , ribaltando le aspettative del pubblico spesso assuefatto a film scontati e seriali, come ci stanno abituando anche le serie televisive; ma è soprattutto una scommessa puntare sulle potenzialità del cinema italiano, come attività produttiva economico-culturale, rivelando le grandi professionalità tecniche ed artistiche che meriterebbero attenzione ed investimenti.

Infatti il paese Italia mai ha veramente investito e scommesso sull’industria cinematografica, neanche ai tempi del successo di “Roma città aperta”, quando Hollywood s’inginocchiò davanti alla creatività del cinema italiano del Neorealismo, realizzata in condizioni di privazioni impensabili, ma assolutamente innovativa ed espressione di grande cultura letteraria, pittorica, storica, nonché anche derivazione dell’importante scuola di cinema creata dal Fascismo, certamente con altri intenti e obiettivi.

Infatti nel dopoguerra nè capitali pubblici, né i capitali privati italiani puntarono sull’industria cinematografica, nonostante si fossero costruite tantissime sale cinematografiche, anche adiacenti alle parrocchie, tanto che  fino alla diffusione della televisione, il cinema era “come il pane”, quasi come un nutrimento base per gli Italiani che uscivano dalla guerra; si aprì invece il mercato a tutto il cinema americano holliwoodiano, creando il mito americano e costruendo un immaginario collettivo di una società capitalistica perfetta e ricca….iniziò così la colonizzazione culturale italiana da parte degli USA.

 

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