di Francesco Maringiò, dal sito www.marx21.it
Il complesso negoziato sino-americano sul commercio vive un momento non turbolento ma tuttavia segnato da oggettive difficoltà: troppa è la distanza che separa i moniti americani dalle concessioni che la Cina è disposta a fare senza penalizzare il suo sviluppo e troppo difficile diventa contenere l’impatto della guerra sul 5G (che è parte del negoziato ma che attiene, anche, ad altri aspetti strategici) negli Stati Uniti ed in Europa. Tuttavia, per quanto difficile, non è da escludere che un accordo sia ancora possibile. Ma sono tanti gli economisti che osservano come il “great deal” metterebbe sotto scacco l’Europa, stretta in un’alleanza tra le due superpotenze ed incapace di ritagliarsi un ruolo nel commercio internazionale.
È con questa premessa che va giudicata la firma di un memorandum d’intesa tra l’Italia e la Cina durante la visita di Stato del Presidente cinese, che inizierà ufficialmente il 22 p.v. con l’incontro con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Perché di fronte al rischio concreto di fallimento del negoziato c’è l’assoluta necessità di costruire una politica estera sovrana per il Paese e capace di tutelarne gli interessi economici e geo strategici. Per fare ciò diventa imprescindibile un accordo quadro con la Cina popolare e le economie emergenti, pena il cedere ad una condizione ricattatoria che aggraverebbe ulteriormente la già precaria condizione dell’economia dell’Italia e della stessa eurozona. Infatti, di fronte alla possibilità di adesione da parte dell’Italia al club dei Paesi del Belt and Road Initiative (BRI), gli Stati Uniti hanno impostato una strategia di ricatto molto forte. Se l’Italia dovesse firmare, si esporrebbe –dicono fonti americane – a ritorsioni commerciali, economiche e nel campo della cooperazione militare e dell’intelligence; se invece dovessero decidere di stralciare l’accordo con Pechino l’alternativa sarebbe comunque il mantenimento di un quadro di subalternità con Washington da pagare a caro prezzo. L’esempio della guerra sul 5G è, da questo punto di vista, paradigmatico: si spinge l’Italia a rinunciare all’ammodernamento tecnologico attraverso le infrastrutture cinesi oggi fruibili sul mercato, in attesa di una tecnologia americana che ancora non esiste e che un domani sarà sicuramente più cara di quella cinese. La scelta è chiara: se si fa l’accordo ci si espone a ritorsioni, se si stralcia l’accordo non si ottiene nulla in cambio, se non il mantenimento dello status quo basato su accordi iniqui ed un rapporto di assoluta subalternità. Tertium non datur.
Per queste ragioni la decisione del governo di confermare la sottoscrizione del Memorandum, non rappresenta certo una strategia di uscita dal quadro di condizionamento atlantico e Nato ma traccia almeno una via per poter creare le condizioni per attrarre il surplus cinese in termini di investimenti diretti nel breve periodo e porre le basi per una politica estera che rompa col ricatto che Washington e, per ragioni diverse, Bruxelles stanno cercando di imporre al nostro Paese.
È interessante notare come il “partito contro il memorandum”, che ha goduto di una grande eco mediatica e della sponda politica della Lega al governo e del Pd e Forza Italia all’opposizione, abbia usato quasi esclusivamente l’argomento della necessità di non cooperare con Pechino perché promotore di un progetto egemonico. Gli stessi hanno poi argomentato che in ogni caso non potevamo firmare il memorandum, senza prima chiedere permesso al nostro “padrone di casa”, cioè gli Usa (a proposito di egemonismo …).
Chissà come commenteranno oggi, dopo aver letto la lettera che Xi Jinping ha affidato alle pagine del Corriere e che fornisce la chiave di interpretazione della diplomazia cinese e delle regioni per il suo forte investimento nel nostro paese. Si tratta di un testo scritto a partire da una prospettiva molto chiara: Italia e Cina non sono chiamate a trovare un’intesa su una serie di dossier economici e commerciali. Non solo questo, almeno. I due paesi sono chiamati a rispettare la loro lunga storia millenaria che li pone, nelle parole di Xi Jinping, come «emblema della civiltà orientale ed occidentale», dato che «hanno scritto alcuni dei più importanti e significativi capitoli della storia della civiltà umana». Il loro rapporto, anche la stessa vicenda della Via delle Seta, non nasce pertanto oggi, ma affonda le radici sin dai tempi dell’Impero Romano, per poi vivere occasioni speciali che hanno fatto la storia delle relazioni tra i due Paesi. Marco Polo è arrivato alla corte del Khan prima che Cristoforo Colombo scoprisse le Americhe, Matteo Ricci si fece mandarino per conquistare la fiducia dei Ming e Prospero Intorcetta tradusse Confucio in latino ed aprì un’importante finestra di conoscenza sulla filosofia orientale in tutto l’Occidente. È a questa storia che rimanda il presidente cinese quando parla delle relazioni tra il suo Paese e l’Italia, attingendo a piene mani alla grande storia dell’Italia e citando, tra gli altri, Dante, Virgilio, Moravia e la sinologia italiana.
Ma il passaggio chiave dell’intervento del presidente cinese è probabilmente il seguente: «Di fronte alle evoluzioni e alle sfide del mondo contemporaneo, i due Paesi fanno appello alla loro preziosa e lunga esperienza e immaginano insieme gli interessanti scenari capaci di creare un nuovo modello di rapporti internazionali basati sul rispetto reciproco, sull’uguaglianza e la giustizia e sulla cooperazione di mutuo vantaggio, costruendo un futuro condiviso dell’umanità». Il racconto del “nuovo ordine mondiale con caratteristiche cinesi”, come è stato sprezzantemente definito dagli oppositori dell’accordo italo-cinese, o la retorica dell’egemonismo di Pechino si infrange sugli scogli del patto strategico che la Cina offre all’Italia, di costruzione di un nuovo modello di rapporti internazionali che archivi definitivamente l’unilateralismo andato in voga dopo il crollo dell’Urss e ponga le basi per una cooperazione tra pari tra le nazioni del mondo. Uguaglianza, giustizia e cooperazione sono valori universali che affondano le proprie radici negli ideali della Rivoluzione francese e che certo non possiamo ignorare.
Con buona pace di quanti continuano a vedere nella Cina il principale nemico e lo scrivono nei propri documenti strategici (Usa e Ue) e con buona pace dei loro rappresentanti italiani che vorrebbero che il paese adottasse una politica aggressiva verso Pechino o in una relazione privilegiata intereuropea (che non esiste, visti gli interessi divergenti che albergano nell’eurozona), oppure in una quadro di cooperazione euro-atlantica il cui obiettivo è la rottura dell’asse russo-cinese e la cooptazione di Mosca in una nuova cortina di ferro ostile a Pechino.
La politica italiana ha davanti a sé un bivio: o accetta “l’alternativa del diavolo” e si lega al declino di questa visione strategica, oppure rovescia il tavolo ed afferma la necessità di una politica basata sulla cooperazione e la pari dignità tra le nazioni. La firma del Memorandum è il primo passo per imboccare la seconda strada, ma siamo ancora alle schermaglie iniziali di un braccio di ferro che segnerà di sé il prossimo futuro.