Il Sud, la scuola, l’università. Il Piano che non c’è.

di Luca Cangemi, Responsabile Nazionale Scuola e Università PCI

Un merito al piano per il Sud e al suo autore, il ministro Provenzano, bisogna riconoscerlo: i problemi del Mezzogiorno del paese sono tornati, sia pure solo per pochi giorni, a essere ritenuti meritevoli di qualche attenzione. Dopo anni di rimozione assoluta della questione meridionale dall’agenda politica si tratta comunque di un’occasione. Ed infatti delle 80 pagine del testo quelle più interessanti (e precise) sono quelle che analizzano il disastro economico, sociale, civile, culturale, istituzionale delle regioni meridionali.

Il ministro conferma le sue ottime qualità di studioso e ricercatore di un centro autorevole come lo Svimez.
Il problema è che alla radicalità dei dati corrisponde l’assoluta timidezza delle scelte proposte. Scelte che non toccano i nodi strutturali.
Le politiche che attengono alla scuola e all’università sono esemplari di questo approccio e di questo esito.
Non manca certo l’attenzione e l’enfasi sulla centralità dell’istruzione e della ricerca, che anzi vengono collocate al centro della prima delle “cinque missioni” che il governo si assegna nel piano. All’enfasi però corrisponde assai poco di concreto.

Intanto è contestabile una radiografia della situazione che si basa sui discutibili dati PISA-OCSE e INVALSI e salta del tutto una ricognizione sugli effetti dei tagli selvaggi che, dalla Gelmini in poi, sono stati operati sul tempo scuola, sul personale docente e ATA. Le decine di migliaia di cattedre evaporate, gli organici ATA che non permettono neanche l’ordinaria amministrazione, la precarietà, gli orari decurtati ci spiegano tante cose. Ci spiegano la piaga della dispersione scolastica, ci spiegano l’indebolimento delle scuole nelle periferie e nei piccoli centri dove rappresentano l’ultimo spazio pubblico disponibile.

Ci spiegano, infine, la crescita devastante dell’emigrazione intellettuale meridionale, di cui gli insegnanti rappresentano la parte maggioritaria.
E non ci sono solo gli aspetti quantitativi. Ogni comma della legge 107 dall’alternanza scuola lavoro alla distruzione degli istituti professionali, rappresenta un disastro per l’intero sistema scolastico nazionale e un doppio disastro per la scuola meridionale.
Di questi nodi però Provenzano non può parlare, ancor meno ne può parlare Conte e non ne parla la ministra Azzolina, al loro fianco alla presentazione del Piano a Taranto, esponente di un partito che in campagna elettorale aveva promesso di azzerare la normativa precedente e adesso richiama ai vertici del ministero dell’istruzione il principale collaboratore di Mariastella Gelmini.

Un segnale vero per la scuola meridionale sarebbe quello di un investimento che risarcisse i tagli dell’ultimo decennio e permettesse di aumentare organici e tempo scuola. Organici più ampi per impiegare i giovani laureati meridionali e per permettere il ritorno di tante/i insegnanti meridionali che vorrebbero tornare nelle loro regioni e non possono. Non sarebbero loro i protagonisti naturali della lotta alla dispersione e alla povertà educativa che viene indicata come necessaria?
Di questo però non si parla, si parla di tenere aperte le scuole il pomeriggio. Per fare laboratori saltuari, non per fare il tempo pieno (quello viene rinviato a quando ci saranno i mitici “Lep”, acronimo evocato quanto non si vuole fare qualcosa o peggio si vuole fare di devastante, come l’autonomia differenziata). La povertà educativa poi la dovranno combattere dei progetti concordati con le fondazioni bancarie(!).

Non si tratta solo di misure frammentarie e impotenti, si tratta di una logica sbagliata, la logica del progettificio. La scuola meridionale (e non solo) ha bisogno di risorse (organici, strutture, tempo) per uno studio più serio e sistematico, di progetti più o meno validi, che nulla sedimentano, ce ne sono anche troppi.
Discorso analogo è quello che riguarda l’università. Di fronte alla sostanziale desertificazione degli atenei del Sud, non si parla dei problemi strutturali. A partire dai criteri di assegnazione del fondo di finanziamento ordinario che rappresentano una vera condanna a morte per gli atenei meridionali. E di altre assurdità come il numero chiuso o la limitatissima disponibilità delle scuole di specializzazione (mentre anche al Sud, come in tutto il paese si registra, ad esempio, una forte carenza di medici).

Il giudizio politico quindi non può che essere fortemente negativo, manca la volontà di imprimere una svolta. E non è difficile capire perché. Affrontare sul serio la questione meridionale significa rompere non solo con politiche complessive consolidate ma con le scelte di fondo delle classi dominanti, a partire dal rapporto tra stato e mercato e dalle compatibilità dell’Unione Europea. Per i Comunisti questa analisi è anche una indicazione di lotta.

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