La crisi e la febbre. Per una critica del nostro presente.

di Patrizio Andreoli, Segreteria Nazionale PCI
e Dipartimento Politiche dell’Organizzazione

Il contagio da covid-19 sta martellando progressivamente aree sempre più vaste e tra loro distanti tra cui, con significativa tragicità, il nostro Paese. Si tratta di un nemico aggressivo in grado di autoalimentarsi velocemente e per ciò stesso in espansione. Il suo carattere globale, non conosce confini e limiti, se non quelli dettati dalla natura e dalle risposte che in via parziale l’umanità ha imparato lungo il proprio cammino ad approntare a prezzo di molti tentativi e fallimenti. Il primo fatto nuovo deriva dalla sua natura immediata e universale, dalla forza di istantanea devastazione realizzatasi in società diverse e lontane; dall’Islanda all’Australia.

Un carattere che ha spinto a far comune barriera e costretto ad un affratellamento “necessario” al netto di ritardi, sottovalutazioni della gravità del fenomeno, illusorie pretese di sottrarsi alla sua propagazione. La “ragione politica”, salvo isolati esempi di lungimiranza, non ha ovunque e subito compreso l’enormità di un evento destinato a scrivere una pagina nuova della nostra storia. In affanno, è giunta a comuni conclusioni generali solo sotto la sferza determinata dalla durezza dei fatti, chiamata a correre dinanzi agli effetti d’un contagio che ha rapidamente spazzato via calcoli e tatticismi, attardamenti, convenienze e profittazioni di parte che pure sono stati tentati. Solo così si è compreso come si trattasse davvero di una guerra globale, ovverosia in via oggettiva “mondiale” come mai prima era accaduto. Una guerra mortale, laddove -sul momento- più che la geopolitica poté in via urgente la sopravvivenza. La sopravvivenza di tutti.

Emblematico, in tal senso, il messaggio con cui si è espressa la delegazione cinese accorsa in nostro aiuto appena atterrata a Malpensa: “Siamo onde dello stesso mare, foglie dello stesso albero, fiori dello stesso giardino”. Un’idea circa l’unità sostanziale -a tutte le latitudini- della condizione e del comune destino degli uomini (“sempre più ci si salva o si perisce insieme”) che solo la miopia, la sempiterna lotta per il potere e stupidità degli stessi ha oscurato lungo i secoli, inventando con “talento ed impegno” potenti barriere culturali e sociali, supposte superiorità etniche, crociate ed anatemi religiosi, pregiudizi e distinguo orribili circa l’unica razza che ci accomuna e che rappresentiamo: quella umana. Al contagio non serve distinguere. Esso agisce rivelandosi – tra noi – nemico letale non di questo o di quello, ma degli uomini nella loro accezione di specie naturale, di creature dotate di difese e vulnerabilità proprie, progettate e selezionate dalla vita sulla terra per poter esistere entro coordinate bionaturali precise. Covid-19, ci ha ricordato bruscamente come l’unica storia a cui in genere siamo abituati a dare peso, ovvero la “storia umana”, non sia che una nostra narrazione soggettiva, fragile e relativa, rispetto alla più generale vicenda della natura, alle sue leggi e necessità, ai suoi mutamenti. Il virus non è ideologico. Non ha sovrastrutture culturali e riserve morali. Non necessità di auto giustificazioni, quali quelle inventate e via via aggiornate dagli esseri umani per uccidersi a milioni.

Opera stolidamente in via equanime, come un dio cieco e furioso incurante di noi, delle nostre suppliche, superstizioni e speranze. Nell’era dell’antropocene (ovvero nell’attimo breve che riassume e distingue per intero la nostra presenza dal lunghissimo orizzonte temporale che segna l’esistenza del pianeta), da più parti ci si è talora voluti presuntuosamente convincere circa una nostra duratura essenzialità. Con buona pace di visioni teologiche, racconti fantastici sull’origine e il senso della nostra presenza, nonché di moderne mitologie (scientismo, idea di infinito progresso) in merito alla nostra unicità ed utilità nel cosmo; non è così.

Rimaniamo una variabile -ancorché rara ed improbabile- dell’esistente; sottoposta, ai cambiamenti e alle catastrofi derivanti da quanto non prevedibile, non ancora conosciuto né prefigurato dalla nostra specie.
Il peso decisivo rappresentato dal brutale e casuale irrompere della materialità della morte (morti avvenute e morti possibili) nella vita privata e collettiva, ha compresso e derubricato il carico polemico legato all’analisi delle responsabilità circa il manifestarsi e lo svilupparsi dell’epidemia. La cruda interruzione di elementi fondamentali di relazionalità (il lavoro, la vita pubblica, i rapporti interpersonali, la mobilità e l’utilizzo del proprio tempo di vita) seguita dal montare di nuovi timori ed ansie, hanno d’imperio costretto a rimodulare valori e comportamenti in un modo così pervasivo da spingersi a lambire la stessa dimensione ed intimità familiare. Il rischio coinvolge infatti anche le mura domestiche dove l’esercizio di una carezza, il vissuto condiviso di una cena o della lettura dello stesso libro, possono essere fonte di rischio e veicolo potenziale di tragedia, se anche uno solo dei soggetti è reduce da un viaggio nel mondo. Importante è tornato ad essere in via primaria respirare, nutrirsi, risultare in salute e riparati. “Primum vivere” o non vi sarà – in sé – più storia degli uomini da raccontare.

Il presidio chirurgico rappresentato da una mascherina, d’improvviso ha rivelato un valore d’uso infinitamente più prezioso di un buon concerto o di una dissertazione. Eppure gli uomini non si salveranno se non continueranno a ragionare, a riflettere criticamente (politicamente) sul loro cammino collettivo ed il futuro. Se non elaboreranno strategie in grado di andare oltre l’autodifesa immediata ed antichi egoismi. Già, perché in una misura che probabilmente non ha riscontri, ad essere messa in quarantena, a soffrirne e a risultarne colpita è stata esattamente la dimensione sociale degli uomini tutti; quel tendere naturale “dell’uomo in quanto animale sociale, ad aggregarsi con altri individui” e per l’appunto “a costituirsi in società” (Politica, Aristotele). Oggi, salvarsi significa esattamente negare provvisoriamente quella pratica, attuare il distanziamento sociale, sospendere (o vigilare) ogni contatto umano. Una società non cancellata, ma sospesa. Un prezzo altissimo in termini di riconversione culturale e persino di provvisoria ridefinizione antropologica (mutilazione sociale), mitigati dall’esistenza di strumenti di comunicazione che se pure in via surrogata continuano a rendere possibile la percezione della dimensione sociale mantenendo attraverso la rete virtuale, anche la rete delle relazioni umane. In presenza di un pericolo mortale, fatti salvi piccoli nuclei restati sul terreno a combattere e a garantire la sussistenza del sistema Paese, “ tutti gli altri topolini sono stati chiamati a correre d’urgenza nella tana e a rimanervi, finché il falco (contagio) volerà sulla pianura”. Al momento, viviamo così contro la nostra natura sociale in un’apoteosi obbligata di virtualità e di interscambio umano rarefatto.

Ciò non ha impedito che si tentasse la via della ricerca e costruzione del nemico di turno. In discussione vi è l’accusa dinanzi al mondo di attentato all’umanità con possibili conseguenze disastrose circa gli attuali equilibri mondiali a partire da quello della pace e della guerra. La tutela della vita in un contesto che non permette di capire dove, chi ed in quanti potranno ancora essere colpiti, ha dettato -gioco forza- l’urgenza di intervenire a salvaguardia dei popoli. Mentre la grande falciatrice non concede margine polemico e tempo, un sistema integrato di informazioni innanzitutto tra i diversi ambiti scientifici, ha di fatto impedito -come diversamente accaduto nell’Europa nel XVII secolo ai tempi della peste nera o delle guerre di religione- l’accreditarsi di una strategia dell’untore capace di scaricarsi sulla comunità o vittima di turno come flagello non meno tragico del contagio.

E pur tuttavia, nell’ambito di una guerra drammatica dagli sviluppi e tempi incerti in grado di distruggere non solo esistenze ma anche elementi di stabilità sociale, rapporti interpersonali, modelli economici dati per consolidati; stanno rapidamente evidenziandosi visioni generali molto diverse tra loro circa il come continuare a convivere (e sulla scorta di quali riconsiderate priorità), resistere e reagire agli eventi. Un confronto-scontro di mentalità che sotto la sferza d’una realtà per più d’un motivo inedita, mette alla prova strategie che raccontano riferimenti di pensiero distanti tra loro, traducendosi in opzioni politiche altrettanto distinte e distanti. Le strategie di autodifesa dinanzi al propagarsi devastante dell’epidemia, non si fondano solo sull’agenda dei bisogni dettati dalle risultanze scientifiche, ma anche -per l’appunto- sul parallelo proporsi di concezioni politiche e piani che sotto il peso dei fatti, impongono oggi all’umanità una verifica di fondo circa la tenuta di equilibri geopolitici, stili di vita e modelli sociali messi a dura prova da un processo che rompe certezze, costringe a riconsiderazioni, muta la nostra esistenza.

Questo accade perché gli uomini, come sempre è stato nella loro storia, non smettono mai di interpretare il mondo, di rappresentare la visione che anima e sorregge il loro fare, di dar seguito attraverso la lettura della realtà che via via assumono, agli interessi materiali e al nucleo generale di valori che giustifica le loro azioni. Già Antonio Gramsci rifletteva sul come “non si può pensare nessun uomo che non sia anche filosofo, che non pensi, appunto perché il pensare è proprio dell’uomo come tale” (Quaderno 10, XXXIII, 1932-35). La storia nonostante (e anzi, ancor più in presenza di) guerre, catastrofi e minacce, resta storia di lotta tra le classi e scontro tra visioni del mondo, così come avvenuto in ogni società sino a questo momento esistita. Il covid19 è una marea che impone la riscoperta e difesa di una sola umanità, colpita tutta e tutta insieme, nelle sua primaria necessità di sopravvivenza. Il capitalismo che per sua natura pone incessantemente al centro del proprio universo valoriale la massimizzazione del profitto e non l’uomo, è sempre con più evidenza inconciliabile con le nuove urgenze di salvezza dell’intero genere umano.
Questo, al netto di disegni politici propri, è ciò che fa la differenza e permette alla Repubblica Popolare Cinese, alla Repubblica di Cuba, alla Repubblica Socialista del Vietnam di accorrere in nostro soccorso a conferma di una linea di affratellamento universale poiché una è la terra, una è l’umanità; mentre il capitalismo europeo si sbrana su convenienze finanziarie, alza nuove barriere nazionali, risponde alla strage in atto col pallottoliere dei costi che potrebbero derivare dalla crisi a carico del privilegio e della rendita parassitaria; col calcolo economico e non con quello della salvezza dei popoli.

Ciò rende ragione di molto a cui assistiamo in questa fase. Si è partiti dal “pericolo cinese” di alcune settimane fa, un pericolo presentato come attentato unilaterale all’umanità proditoriamente portato dalla Cina col contagio, che ha riproposto i toni propagandistici di una vulgata anticomunista lunga.
Quella che per tutto il ‘900 ha insistito sul pericolo che “viene da oriente”, minacciando la nostra civiltà e i nostri valori. Ieri erano la rottura della Rivoluzione d’Ottobre e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, un Paese in cui per la prima volta si era tentato l’avvio di un pericoloso processo di scardinamento dei rapporti economici e di sfruttamento capitalistici, alla guida del quale – d’altronde – vi erano comunisti che “mangiavano i bambini”. Oggi, in via aggiornata, tale attentato è portato ai danni del mondo da un popolo segnato da arretratezza e barbarie tali, da “mangiare i topi vivi” (Luca Zaia, Presidente della Regione Veneto). Un pericolo ugualmente stigmatizzato da un nervoso Presidente americano che ancora pochi giorni fa per far fronte alle critiche avanzategli circa l’imperizia con cui è stato sin qui affrontato il contagio negli Stati Uniti, modificava con retorica aggressiva ed in chiave politica persino l’etimologia del problema (potenza delle parole!) non più citato come coronavirus ma come “virus cinese”, con origine in quel Paese asiatico e da lì colpevolmente diffuso (Washington Post).

Intanto mentre nell’Europa della moneta e della finanza dinanzi all’esplodere del fenomeno e al colpo derivatone alle attività produttive, si faceva disinvolta professione di egoismo sociale a partire dalle affermazioni (poi corrette) della Presidente della BCE Christine Lagarde che sosteneva come l’istituzione europea non fosse lì “per ridurre gli spread” (…e noi, che pensavamo si dovesse prima di tutto impedire la falcidia dei popoli!); la Cina accelerava l’attuazione di drastiche misure di contenimento salvando vite, il futuro del proprio popolo ed in quota parte – frenando le dinamiche del contagio – diminuiva l’impatto anche su altre aeree del mondo. Un Paese che oggi, sulla scorta di sacrifici enormi, di una mobilitazione popolare e linea di fermezza senza pari, torna con cautela a vivere e a produrre.
Provvedimenti aspramente criticati alcuni giorni fa con interessata supponenza dalla politologa Nadia Urbinati che ha sostenuto come ciò è stato possibile perché “nei sistemi autoritari come la Cina c’è una repressione diretta come la chiusura in carcere di interi quartieri. Da noi non è possibile. Il nostro è un sistema che riposa molto sulla privata responsabilità (…) Contrariamente alla regione cinese, l’Italia non è così facile da mettere in galera e da chiudere dietro un filo spinato”. Un affondo indegno sin dal linguaggio e dall’evocazione adottati, a segnare il vero ed unico obbiettivo: l’attacco al carattere socialista che qualifica l’esperienza e l’azione di governo della Repubblica Popolare Cinese. La stessa volgarità interessata (da tempo priva di distinguo e scrupoli di sorta) con cui l’area liberal – tra cui in primis in Italia il Partito Democratico – ha nei mesi scorsi approvato nel Parlamento Europeo una risoluzione con cui si equiparano e condannano le esperienze storiche di nazi-fascismo e comunismo.

Valutazioni volgari e stizzite che provenendo da una fonte né incolta né sprovveduta, colgo per quello che sono: un gesto di rozzo anticomunismo, un attacco politico consapevole dietro cui si avvertono irritazione e rabbia per quanto in Cina si è scelto e saputo fare; un motivo di lotta politica portato nel cuore del dramma che stiamo vivendo teso a riequilibrare e a depotenziare nella percezione popolare l’immagine e la pratica solidale di quel Paese che poco dopo metteva a disposizione informazioni ed esperienze scientifiche, équipe mediche e mezzi. A partire dalla fornitura di alcune tonnellate di quelle mascherine, fermate in Europa presso frontiere nazionali in fretta e furia ristabilite da più di uno Stato, in barba ai trattati e alle solenni promesse circa la libera circolazione di merci e persone. La solidarietà europea in un lampo si è così tradotta nell’antica pratica dell’ognun per sé, tanto più cieca, tanto più nessun Paese può reputarsi per decreto immune dal contagio come i fatti si stanno incaricando di dimostrare. Il virus è un nemico che non conosce confini, né valgono al suo manifestarsi dichiarazioni di neutralità.

Il punto è che il giudizio di Urbinati non rappresenta un episodio isolato. Siamo dinanzi ad una controffensiva ideologica e politica volta allo scontro. Non è un caso che l’Huffington Post abbia recentemente ripubblicato un lungo saggio relativo alle responsabilità e connivenze di Palmiro Togliatti nelle purghe staliniane degli anni trenta, né che il renziano Paolo Mieli, divulgatore d’antan e maitre à penser del moderatismo progressista, ci intrattenga sul Rai Storia con documentari sullo stalinismo, né che la tv pubblica riproponga documentari divisi in più parti sui gulag sovietici.
E altro ancora è accaduto. Negli stessi giorni in cui, tentando il piglio del grande statista, il premier inglese Boris Johnson preallarmava le famiglie britanniche circa la probabile “prematura scomparsa di molti loro cari” a seguito degli effetti di un flagello da subirsi fino al costituirsi di “un’immunità di gregge” (una vergogna civile senza eguali, anche in questo caso poi corretta sotto il peso dell’avanzare della tragedia); la Repubblica di Cuba annunciava l’invio di medici, infermieri, presidi medico chirurgici in aiuto al nostro Paese. Una delegazione giunta nelle stesse ore in cui gli Stati Uniti portavano via da Aviano materiale sanitario italiano. Un piccolo Stato accorso in nostro aiuto, che per storia, lotte e cammino, conosce bene il valore della parola solidarietà; quella umana e quella internazionale. Ad esso, si aggiungeva l’intervento della Repubblica Socialista del Vietnam.

Scelte spiazzanti luoghi comuni, caricature, false notizie, invenzioni propagandistiche e forzature mediatiche. E siamo all’oggi. Pochi giorni fa Salvini e la Lega hanno rilanciato la tesi complottista anticinese di un virus generato in laboratorio citando una trasmissione televisiva (Tgr Leonardo, 2015) i cui contenuti sono stati smentiti dall’intero ambiente scientifico, a riprova di quanto la voglia di aggredire a qualunque costo l’esempio e l’azione della Cina induca a opzioni politiche scomposte e a performance considerate da operetta, in qualunque Paese che solo decidesse di mantenere la decenza come elemento distintivo. Si cerca, si preme, si lavora per trovare in tutti i modi il pretesto per risospingere il nemico dalla sua parte. Siamo infatti dinanzi non solo una pericoloso contagio da covid19. Ve n’è uno ritenuto evidentemente ancora più pervasivo e insidioso: quello di un’altra idea di mondo, di società, di relazioni umane. Quello della presa di coscienza del fallimento di un’Europa che mai, sin dalla sua nascita, è stata luogo politico dell’effettiva sovranità dei popoli. E in alcuni ambienti cresce il nervosismo. A partire dal Partito Democratico che ha mosso rilievi politici pesanti nei confronti del Ministro Di Maio, reo di aver sottolineato il valore della costruzione di politiche di collaborazione bilaterali con la Cina (la via della seta), divenendo per ciò stesso oggetto – lui che propriamente un bolscevico non è – di ammonimenti severi circa l’eccessiva apertura e simpatia dimostrate.

E poi. A Bruxelles non fremono solo i banchieri, ma anche i circoli politici più conservatori e i vertici militari della Nato costretti a fare i conti con ulteriori aiuti che hanno portato personale russo (cento specialisti in guerra batteriologica) nel nostro Paese. I poteri veri che hanno in mano le redini di questa Europa scalpitano, si agitano, alzano la voce mentre il cancelliere della Germania Angela Merkel e gli olandesi si dichiarano sin d’ora indisponibili a condividere il debito che l’Europa sud continentale sta gioco forza accumulando alla luce delle strategie sanitarie e sociali di tutela sin qui adottate. Dov’è in tutto questo l’Europa dei popoli su cui con insistente retorica si è battuto da un ventennio a questa parte? Dove, l’Europa della vita prima che dei capitali? Dove, l’Europa del lavoro e della difesa dei lavoratori prima che della speculazione parassitaria? La verità è che siamo dinanzi ad una crisi ed emergenza sanitaria che tende a trasformarsi rapidamente in urgenza umanitaria globale lungo direttrici di sviluppo del virus ancora imponderabili, segnate dalla sua velocità di propagazione e dalla nuova geografia delle regioni del mondo su cui rischia di abbattersi in maniera ancora più devastante. Una crisi che impone un cambio di passo. Ma insieme siamo dinanzi anche alla crisi di una scala di valori direttamente correlata al modello di accumulazione e produzione capitalistici che nella sua versione europea, mostra segni di febbre alta, difficoltà di tenuta, assenza di coesione e condivisione di un comune orizzonte politico. L’Europa della troika ha vistosamente fallito. Essa si sta sgretolando sotto il peso di interessi parziali potenti, quale effetto di una lotta per l’egemonia interna al capitalismo finanziario che ne sta squassando le fondamenta e la cornice politica.

Crisi, che ai nostri giorni indica uno squilibrio traumatico, mancanza di uniformità e corrispondenza tra valori e modi di vita, non nasce (come molti altri lemmi) con valore negativo. Essa significa letteralmente “scelta”, o nella sua radice verbale”distinguere”. Ed è così che va assunta: come leva ed occasione politica di trasformazione. Non serve evocare o agitare il cambiamento. Esso è già in cammino e si muove tumultuosamente sulle gambe di nuove contraddizioni ed esigenze con cui la realtà ci impone di fare i conti. Quel che a noi comunisti serve è comprendere come riuscire a misurarci in Italia ed in Europa con la “direzione politica”, ovvero la direttrice del cambiamento. Come spingersi nel cuore dei contrasti col cuneo delle nostre idee ponendo con forza alcuni nodi: quello del ruolo della mano pubblica e dello Stato sia sul terreno del lavoro che della finanza, quello di un welfare di cui va rafforzato il carattere universalistico, il nodo dell’accesso a pari opportunità sociali e all’esercizio dei diritti, della tutela del lavoro e dei lavoratori, quello di un’Europa quale luogo del disarmo e della riconversione del sistema politico-industriale militare. Insomma, come far lievitare un’idea alternativa di vita e di rapporti economici. Come porre all’ordine del giorno un altro progetto, un’altra idea di Europa e di relazioni internazionali. E soprattutto, per quali vie di mobilitazione e con quali lotte. Questo è ciò che decide.
Si tratta di una battaglia impegnativa. E quantunque da più parti da sempre ci si affanni nel tentativo di demolire le ragioni e l’orizzonte del socialismo, è certo che la salvezza di tutti gli uomini e del futuro (a partire dall’uso/abuso delle risorse esistenti e dell’eguale accesso ad esse) non può che contemplare un sovvertimento dei rapporti economici e sociali presenti, nella direzione di un aggiornato progetto di socialismo.

Il capitalismo, fonte di egoismo, di dissipazione e rapina, è incompatibile con l’ambiente. Esso non è in grado di salvare la terra. Il capitalismo, fonte di profonde diseguaglianze e sofferenze sociali, è incompatibile con la liberazione e lo sviluppo del genere umano. Più d’una volta nella storia ha utilizzato la stessa leva della guerra (imperialista ed intercapitalista) quale motore di rigenerazione e auto conservazione, al netto di costi umani immensi (con buona pace delle anime belle) e di un progressivo impatto sulle terra tale da mettere in discussione gli stessi equilibri ambientali e naturali. Quello che covid19 oggi sta ponendo brutalmente all’ordine del giorno è come dinanzi ad una crisi globale e ad un attacco frontale ai destini degli uomini, esso per propria natura e ispirazione, non sia in grado di salvare l’intera umanità.

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