LA FRATTURA INTERNA ALLA CLASSE DIRIGENTE EUROPEA E LE PROPOSTE DEI COMUNISTI

di Bruno Steri, Responsabile Politiche Economiche e Finanziarie, Europa PCI

Una profonda frattura sta dividendo le classi dirigenti dell’Occidente capitalistico e, segnatamente, dell’Unione europea. Sulla scia dell’emergenza pandemica, nove Paesi membri dell’Ue tra cui l’Italia hanno formalizzato in una lettera la proposizione di una linea di intervento sostanzialmente incompatibile con gli orientamenti prevalenti a Berlino (e a Bruxelles): in particolare, la richiesta di “uno strumento di debito comune”, cioè l’emissione di “coronabond”, e un accesso alle linee di credito del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes, più noto come “Fondo salvastati”) ma senza “condizionalità”, cioè senza contropartite da massacro sociale. Immediato il niet della Germania e di alcuni Paesi del Nord Europa.

Non sorprende che il successivo Consiglio europeo, tenutosi giovedì scorso, si sia concluso con un nulla di fatto: ciascuno dei due fronti fermo sulla sua posizione. Non si tratta infatti di una discussione di ordinaria amministrazione: è lo stesso impianto politico, economico e sociale che ha sin qui caratterizzato L’Unione europea – il cosiddetto “ordoliberismo” – ad essere messo in questione, un assetto di cui la pandemia sta definitivamente certificando il carattere per un verso iniquo e, per altro verso, fallimentare.

La portata globale della divergenza è stata altresì messa in evidenza dal recente intervento di Mario Draghi, il quale ha autorevolmente legittimato lo strappo – sul piano concettuale, ancor prima che politico – nei confronti dell’Europa a trazione tedesca. Come è stato giustamente osservato, non è casuale che tale sortita sia stata ospitata dal Financial Times. Cosa dice l’ex governatore della Bce? In sostanza mostra il re per come è, cioè nudo. I guasti economici, oltre che ovviamente umani e clinici, procurati dall’emergenza virus sono incalcolabili: in quanto – aggiungiamo noi comunisti – piovuti su una sanità già disastrata dai tagli imposti negli anni passati dall’approccio neoliberista e dalle strettoie della crisi ciclica capitalistica. Senza giri di parole, viene richiamata la realtà di un “costo economico enorme e inevitabile” e la necessità di “evitare che la recessione si trasformi in depressione prolungata”.

Conseguentemente, con buona pace di Bruxelles e Berlino, si annuncia che “livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato”. Detto in altri termini, al “deterioramento dei bilanci privati” si dovrà rispondere con un eccezionale impegno dei “bilanci pubblici”. In definitiva, Draghi configura l’urgenza di una vera e propria “emergenza nazionale”, facendo eco alla “sfida epocale” evocata da Conte.

Com’è noto, a non fidarsi si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Il fatto è che troppo spesso, quando la storia ha imposto emergenze e impegni straordinari, non tutti si sono cimentati e sacrificati in egual misura. E se la coperta si fa stretta, il peso e la forza degli interessi in campo (che i marxisti chiamano interessi di classe) determinano chi è coperto di più o di meno. Per l’establishment Draghi è senz’altro più affidabile di Conte e del suo governo. Ed è la figura che occorrerebbe per dare credibilità e autorevolezza ad un eventuale governo di unità nazionale (di cui ripetutamente abbiamo sentito parlare in questi giorni). In un tale pericoloso contesto, bene ha fatto il Pci a rimanere con i piedi per terra, stigmatizzando ancora una volta l’ottuso e sciagurato rigorismo ordoliberista e, contemporaneamente, articolando una sua proposta di intervento pubblico, a cominciare dalla ricostruzione del servizio sanitario nazionale: una proposta basata sulla centralità del lavoro e la difesa dei soggetti sociali più deboli.

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