di PCI Brescia
L’emergenza sanitaria creata dalla diffusione pressoché globale del Covid-19 ha distolto – e lo farà ancora per qualche mese – la nostra attenzione da quanto avviene, in relazione ai rapporti di forza, sullo scenario internazionale. Di fatto ci siamo posti in una sorta di quarantena o coprifuoco intellettuale, quasi scordandoci che il mondo non si è fermato e superpotenze come la Cina popolare, la prima vittima del virus, data per spacciata, o almeno destinata ad un lunga parentesi di degenza post-operatoria, ha ripreso, dopo un trimestre di sofferenza (e anche di ostracismo dai toni razziali) il ruolo di primo attore, compiendo passi importanti persino in settori tradizionalmente ostici come quelli del soft power e dei diritti umani, con specifico riferimento alla salute. Ha ripreso il lento ma continuo movimento di erosione del sistema internazionale a trazione occidentale/statunitense, che era uscito vincitore da mezzo secolo di guerra fredda.
È quindi comprensibile che recentemente la prestigiosa rivista statunitense Foreign Affairs abbia osservato con preoccupazione possibili sviluppi negli equilibri internazionali rispolverando eventi, come quello di Suez del 1956, che hanno dato immediata concretezza e visibilità a ciò che carsicamente stava da tempo avvenendo: “con centinaia di milioni di persone che ora si isolano in tutto il mondo, la nuova pandemia di coronavirus è diventata un evento veramente globale.
E mentre le sue implicazioni geopolitiche dovrebbero essere considerate secondarie rispetto alle questioni di salute e sicurezza, tali implicazioni potrebbero, a lungo termine, avere importanti effetti, specialmente per quanto riguarda la posizione globale degli Stati Uniti. Gli ordini globali hanno la tendenza a cambiare gradualmente all’inizio e poi tutto in una volta. Nel 1956, un intervento fallito a Suez ha messo a nudo il declino della potenza britannica e ha segnato la fine dell’epoca del Regno Unito come potenza globale. Oggi i politici statunitensi dovrebbero riconoscere che se gli Stati Uniti non si alzano per affrontare il momento, la pandemia di coronavirus potrebbe segnare un altro momento di Suez”[1].
Il messaggio è molto chiaro: il rischio è che Washington non sia in grado di dare una risposta globale, arretri nella sua immagine di potenza benigna, per lasciare il campo a Pechino, legittimando quest’ultima nel ruolo di principale fornitore di un bene comune inestimabile quale la salute e ponendosi come attore trainante in una fase di rilancio della economia mondiale. Insomma, altro che “momento Chernobyl” che sotto forma di virus ne avrebbe decretato la fine dei sogni di glora. Da destra a rincarare la dose è il The National Interest che riassume il tutto sussumendolo nel perenne scontro tra Occidente ed Oriente, tra Democrazia e Totalitarismo. Il Washington Post ha cercato una (discutibile) via mediana rimproverando a Trump l’utilizzi del termine “virus cinese” perché non corrispondente a verità e perché potrebbe portare ad una lettura razziale della pandemia (un rischio certo concreto); si tratta, piuttosto, di un “virus del partito comunista cinese” la cui operazione di riscrittura della storia recente va impedita[2].
Non ci possiamo certo sorprendere: come detto prima, solo qualche settimana fa nessuno si sarebbe aspettato una Cina capace di reagire e agire in tutti i teatri e, ancora meno, sul fronte dell’immagine. Le accuse di misure draconiane e compressione dei diritti e delle libertà trovano tuttavia, proprio ora, una scarsa consistenza: di fatto anche in Paesi di consolidata tradizione di democrazia liberale, le costituzioni sono state congelate in nome dell’emergenza.
Ad accompagnare le dichiarazioni, tutte tese a smontare lo sforzo di quest’ultima per affrontare anche all’esterno il dramma epidemico, ci sono anche atti legislativi che non fanno altro che aumentare la tensione e che, in parte, ci suggeriscono un futuro prossimo di crescente conflittualità. Mi riferisco in particolare al Taipei Act, firmato a fine marzo dalla Casa Bianca, finalizzato al sostegno della presenza internazionale di Taiwan e che prevede sanzioni da parte Usa nei confronti di Paesi che minacciano la sicurezza dell’isola. Quest’ultima in tempi recenti ha visto, infatti, arretrare ulteriormente la propria agibilità internazionale in concomitanza con il successo in Africa e in America Latina della Belt and Road Initiative.
La mia impressione, al di là, di affermazioni discutibili, toni da guerra fredda, e sogni di un prossimo futuro di palingenesi, è banale nella sua semplicità. La Cina popolare sta riprendendo, certo dovendo scontare rallentamenti e difficoltà, il percorso intrapreso con un certo vigore negli ultimi anni, anche in tema di diritti umani favorendo una ridefinizione degli stessi che va oltre quella strettamente politica[3]. Ed in essi la salute troverà uno spazio di rilievo. E questo ci permette di soffermarci proprio sul progetto della Belt and Road Initiative (Bri) – conosciuto come Nuova via della seta – che in questi giorni di pandemia ormai globale può essere utilizzato come cartina tornasole della repentina, per certi versi inaspettata, offensiva d’immagine cinese. Perché è facile notare come ad esserne interessati sono Paesi che, vittime della diffusione del Covid-19, sono partner significativi proprio del progetto di interconnessione partorito da Pechino.
Tra questi c’è l’Italia che nel marzo del 2019 ha siglato, primo Paese del G7, un memorandum di adesione formale alla Bri, scatenando accese proteste in diverse capitali europee come a Washington, per poi segnalarsi come primo Stato occidentale ad interrompere i collegamenti aerei diretti con la Cina che aveva in Wuhan, nella provincia dell’Hebei, il centro della comparsa e della diffusione del nuovo coronavirus; per ritrovarsi infine, nel pieno dell’emergenza e tra coloro che più ne sopportano il peso a livello globale, a vestire il ruolo di principale partner della “Nuova Via della seta della salute”, in ordine di tempo l’ultima della “ramificazioni” di un progetto in costante trasformazione e dalle indubbie capacità di adattamento.
La riapertura di Wuhan (anche se ancora parziale e in via di definizione quotidiana) dopo due mesi di blocco totale ha portato con sé un messaggio dal forte impatto simbolico che ci riporta alla realtà dei mutamenti globali: dalla città che è stata epicentro dell’epidemia Covid-19, è partito un treno merci che, nel giro di 15 giorni, raggiungerà la tedesca Duisburg. Come a dire: si riprende la corsa senza rinunciare ad un progetto talmente strategico da essere stato inserito (onore prima spettato solo alla politica di riforma e apertura di Deng) nello statuto del Partito comunista cinese. Ed in fondo si ricorda con evidenza come lungo le reti di comunicazioni, lungo le ramificazioni della nuova via della seta non viaggiano solo i virus, ma ora anche attrezzature mediche a sostegno della lotta globale contro il Covid-19.
A fine marzo, a titolo d’esempio, da Yiwu, nella Cina orientale, è partito un treno diretto in Spagna con un carico di 110mila mascherine e 770mila forniture sanitarie di sicurezza. Un attento studioso della Bri quale è Shepard Wade ricorda come questi treni siano ormai uno dei pochi settori della Belt and Road che sono ancora in funzione, poiché il resto della rete è stato più o meno chiuso dall’inizio della pandemia e molti progetti si sono di fatto bloccati in Pakistan come in Cambogia, tanto per citare Paesi in aree rilevanti e strategiche. In sofferenza è ovviamente anche il ramo marittimo come evidenzia il Ningbo Shipping Exchange nel suo rapporto relativo ai primi due mesi del 2020: l’indice Maritime Silk Road Trade mostra che l’indice delle importazioni e delle esportazioni si è attestato a 103,51 punti, con una diminuzione anno su anno del 10,62%, mentre l’indice del commercio estero con 101,38 punti, segna un decremento del 17,1%; l’indice del commercio import è stato di 105,68 punti, in calo del 3,23% sempre su base annua. È indubbio che tutte le ramificazioni della Bri abbiano subìto un vistoso rallentamento e che la ripartenza sarà difficile, anche perché Pechino dovrà affrontare, quando non privilegiare, le esigenze interne del rilancio economico.
Si può, quindi, per ora, ipotizzare una iniziale rivisitazione diplomatica della Bri che miri a rinsaldare rapporti e preparare il terreno per il rilancio e superare eventuali contrasti anche a livello di opinione pubblica. Molto probabile che ci si concentri più di tutto sull’Asia orientale che, secondo un rapporto della Asian Development Bank, sentirà meno di altre regioni del mondo della crisi economica post pandemia (+4,1% nel 2020 per segnare un +6% nel 2021). Per quanto riguarda la Cina le previsioni sono per un brusco calo al 2,3% quest’anno ed un rimbalzo al 7,3% nel 2021. L’Asia orientale, ed in parte anche la Cina, assorbiranno parte delle produzioni di un’Europa che uscirà nettamente indebolita, con aumento della disoccupazione e con poche capacità di investimento. Questo significa che le aziende dovranno cercare alternative più economiche per le loro produzioni necessarie a stimolare la domanda dei consumatori occidentali e, di conseguenza, si rivolgeranno proprio all’Asia[4].
Per questo diventa interessante seguire gli sviluppi di quella che oggi viene definita come “Diplomazia delle mascherine” che vede Pechino assurgere al ruolo di potenza benigna e responsabile, forte della prima vittoria contro la pandemia, e dispensatrice di aiuti ai molti Paesi in difficoltà: che siano in dono o a pagamento poco importa, visto che vanno valutati in ordine alla ricadute politiche. Ed è indubbiamente sotto questo profilo che la Cina popolare punta per riprendere – come più volte già detto – il suo cammino, lungo e paziente, per modificare in senso più “democratico” le istituzioni e le relazioni internazionali, aprendo contraddizioni e nuovi scenari anche in zone politicamente delicate ma altamente simboliche. E qui entra in gioco l’Italia che dal marzo del 2019 è partner ufficiale della Belt and Road e che, dopo mesi in cui questa adesione è parsa più formale che sostanziale, è stata scelta come uno dei terminali anche della Via della seta della salute. Nelle parole dell’ambasciatore in Italia Li Junhua si tratta di un primo passo in vista di una “governance sanitaria globale” con Pechino a giocare un ruolo fondamentale. Con il richiamo ad uno dei “mantra” – il destino comune – della presidenza di Xi Jinping: “Questa epidemia ci dimostra ancora una volta come tutti i Paesi del mondo condividano un destino comune, minacce e opportunità.
Lottare e vincere contro l’epidemia non è qualcosa che solo uno o pochi Paesi possono fare; è necessario, al contrario, un impegno coordinato e unito di tutta la comunità internazionale per schierare le forze e vincere questa guerra. Nella ricerca delle radici del virus, nella sperimentazione dei vaccini e dei farmaci antivirali, la cooperazione internazionale è l’unica via per ottenere risultati rapidi. Il 7 marzo scorso, il governo cinese ha donato 20 milioni di dollari all’Organizzazione Mondiale della Sanità da stanziare per finanziare la cooperazione internazionale per il contrasto dell’epidemia. La Cina sostiene da sempre che l’umanità è una comunità dal futuro condiviso, e ha unito le forze con la comunità internazionale per affrontare le minacce alla salute pubblica globale, dato sostegno alle Nazioni Unite e all’OMS nella risposta all’emergere di crisi sanitarie pubbliche, e ha avuto un ruolo centrale nel completamento e miglioramento del sistema di governance della sanità pubblica mondiale.
La Cina ha altresì profuso impegno per aumentare l’importanza delle questioni sanitarie nell’agenda internazionale e promuovere grandi progetti di cooperazione internazionale per la salute, creando attivamente la Via della Seta della Salute”[5]. Ed è in nome di quest’ultima – da inquadrare come fase di rilancio diplomatico di tutte le altre ramificazioni della Bri – che nel nostro Paese sono giunti da oriente medici, consulenti, mascherine e macchinari vari per affrontare l’emergenza. Forniture sono giunte anche in Spagna, Olanda, Repubblica Ceca e Iran solo per citarne alcuni, e con un ruolo non secondario giocato anche da colossi privati (ma pienamente inseriti nella Bri) come Alibaba, Huawei e Zte. Oltre 50 Paesi africani riceveranno ciascuno 20mila kit per test, 100mila mascherine e 1.000 tute protettive.
Mascherine e respiratori sono, quindi, diventati un formidabile mezzo di proiezione internazionale in una situazione di difficoltà. E che possano servire a preparare il terreno lo mostrano anche i recenti sviluppi dei rapporti, altalenanti, tra Cina e Giappone; con quest’ultimo che sebbene ufficialmente ai margini della Bri ed impegnato con India e Usa in iniziative alternative, è interessato al coinvolgimento delle proprie aziende. Ryan McEleveen ricorda come proprio “lo scambio di maschere abbia assunto un nuovo significato di buona volontà. Forse da nessuna parte quell’atto di buona volontà è stato vissuto – e sorprendente – come un generoso dono tra Giappone e Cina”[6]. In risposta agli aiuti statali e privati giunti da Tokyo fin dai primi giorni dell’emergenza a Wuhan, Pechino ha inviato kit di test per l’Istituto Nazionale di Malattie Infettive del Giappone.
Al di là del simbolismo, la “diplomazia delle mascherine” va quindi inquadrata come passo politico indispensabile per una prossima ripartenza della Bri, per rafforzare partnership, quando non stringere nuovi legami. D’altronde non va certo scordato come lo sviluppo delle infrastrutture sia di sostegno proprio all’esplosione di crisi sanitarie.
[1] Foreign Affairs, Coronavirus could reshape global order, 18 marzo 2020
[2] The National Interest, Coronavirus Is Risking China’s Dream Of Global Leadership, 28 marzo 2020 e The Washington Post, Don’t blame ‘China’ for the coronavirus — blame the Chinese Communist Party, 19 marzo 2020
[3] Per questo aspetto mi permetto di rinviare al mio Bertozzi Diego Angelo, La nuova via della seta, 2019 (Diarkos edizioni).
[4] La versione completa del rapporto è scaricabile all’indirizzo https://www.adb.org/sites/default/files/publication/575626/ado2020.pdf
[5] Si veda La Stampa, Il virus non ha confini, 25 marzo 2020.
[6] Cheng Li e Ryan McElveen, Mask diplomacy: How coronavirus upended generations of China-Japan antagonism, Brookings, 9 marzo 2020
Buona sera compagni, avete tagliato fonte e autore
Diego Angelo Bertozzi (PCI Brescia)
Da
http://osservatorioglobalizzazione.it/osservatorio/le-rotte-della-via-della-seta-della-salute/
Buon lavoro